LINK

Le nove Muse della mitologia greca antica sono tutte ‘linkate’ fra loro. Danzano insieme Clio, Melpomene, Urania e Talia, Calliope, Euterpe e Polyhymnia, Erato e Terpsicore, perché così vuole Zeus che le ha generate, con Mnemosyne, ‘la Memoria’. Negli infiniti universi fuori di noi e nell’infinito universo dentro di noi le connessioni, i legami, funzionano per triadi di punti, contrappunti e armonie, secondo ritmi più o meno intensi o lenti che pulsano scandendo il nostro stile di vita, e tutto sommato la nostra volontà d’esserci. Ma qui non vogliamo riferirci alla solita storia dei battiti del cuore, di sistoli e diastoli che si ripercuotono sui fatti umani; questo è un battito e un silenzio che danno una qualità vitale: così come nel ballo o nella ballata la mossa di lei e la contromossa di lui danno la qualità della scena, così noi ci tendiamo e distendiamo.
Queste pulsazioni sono secondo la metafora di Lucrezio una specie di attività atomica del reale e sono necessità e chiave nell’arte e nella cultura, perché là il loro ritmo è pervasivo, invasivo, contagioso e pantestico: così il verbum, verto, verso, vertigine diventa canto, canzone, ballata, danza e questa forma, figure, finzioni e miti. Se ce ne lasciamo coinvolgere, muovere, commuovere entriamo in quel nucleo profondo dell’esistenza che è l’emozione. Vi sono dei link – o connessioni – indifferenti, altri sani, altri altamente tossici, e infine dei link-gorgo in cui l’individuo si perde e, perdendosi, vi trova qualcosa di profondamente viscerale e fa l’esperienza di parti inesplorate o non frequentate di sé.
Cerchiamo ora di soffermarci sulla musicalità come componente della comunicazione umana, il link più naturale e universale tra esseri umani.
In principio c’è Darwin che nella sua Origin of Man del 1875 scrive: «We must assume that the rhitms and cadencies of oratorical speech are attribuable to previously developed musical abilities». E, sempre con Darwin, si può fare un passo ulteriore: chiedendosi quale fosse l’origine possibile del linguaggio umano, in The Expression of Emotion in Man and Animals del 1872 faceva notare che il canto degli uccelli serve come richiamo sessuale per attrarre le femmine e che anche la voce umana poté avere per lunghi millenni una funzione analoga. Il suono di gioia o di pena esiste in natura come richiamo presso moltissime specie, come l’etologia ha largamente documentato. Certo, il complesso lavorio umano dell’articolazione ha poi moltiplicato e variato la rete dei messaggi possibili. Ritmo, musicalità e moltiplicazione dei contatti, nella dimensione della coralità – la catena di link multipli –, in un coro o in un concerto rock, come conferma la neuropsicologia applicata alla musica, produce distensione, cooperazione, o eccitamento collettivi con legami molteplici. Tutto il Romanticismo aveva ben intuito e teorizzato che a monte di Lieder, ballate, poemi poteva esserci un’anima collettiva, un Volksgeist che è la sorgente creativa profonda di una opera di letteratura o d’arte. La neuropsicologia tenderebbe piuttosto a parlare non di origine ma di risultato, come la sociologia di un qualunque concerto rock tende ad indicare. Il processo però di link in link potrebbe dirsi circolare se pensiamo ai coinvolgimenti di un concerto di Bach, di Mozart, di Beethoven, e giù a Schubert, Chopin, alle rapsodie ungheresi di Liszt, a Tchaikovskij e così via.
In una intervista di Alexander Gorlow alla rockstar Jean-Michel Jarre, apparsa nella «Süddeutsche Zeitung» del 18 settembre 2004, il notissimo compositore ed esecutore di musica elettronica nega decisamente di avere presenti dei testi letterari scritti quando compone perché, sostiene, la sua musica racconta semplicemente il sesso o, meglio, l’amore e il desiderio. Egli afferma «ho a lungo cercato una forma creativa di espressione; per esempio dipingevo, ero affascinato dalla letteratura e dalla filosofia, ero stregato addirittura dall’architettura e così sono poi approdato alla musica e alla sua profonda relazione con l’architettura, lo spazio, i corpi. La mia musica è spaziale e fisica…
Ma la musica – prosegue Jarre in quella intervista –, mi ha agguantato per il collo.
La musica è come cucinare, come mangiare, erotismo puro… sesso, sesso, sesso. Anche la pittura ha ritmo, però un ritmo più astratto, visibile non udibile e perciò meno emozionante e meno misterioso. I manierismi delle rockstars mi hanno sempre disgustato perché non penso che il bum-bum del rock sia erotico, o meglio, esso non lascia sognare. Il bum-bum è piuttosto l’atto conclusivo, non il tortuoso, affascinante sentiero per arrivarci. Nella mia musica non trovi il bum-bum, c’è invece un nervoso didipp-zirrp-didapp-sidirr… è il movimento delle cellule, che non è un bum-bum, ma è davvero un messaggio fatto di didipp-zirrp-didapp-sidirr: sguardo, fantasie, carezze, sensazioni. Per capirlo – conclude Jarre –, basta leggere Nabokov».
Oggi abbiamo un’idea molto approssimativa del ritmo, che non è solo quello del rock, venuto dai tamburi delle foreste, ma che è un pulsare di voci e pause, che si prova e si trova in Demostene, in Cicerone, ma anche nei laudari medievali, o nella successione di scene di caccia e conversazione negli arazzi del rinascimento fiammingo e via via, negli edifici in una via di Firenze o di Parigi. Il ritmo che fa sobbalzare e quando è accorto e complesso fa dondolare, ciondolare o ci prende dai visceri, è vita quando salda in sé parole, musica, spazi, intervalli volumi e voli cosmici. Il ritmo è l’umanizzazione del link, un entrare in circuito, un danzare e volgersi secondo intervalli, passi, scansioni nello spazio dato, che è il suo scenario, reale o anche solo virtuale.
Alla conclusione del secondo atto della Traviata di Giuseppe Verdi, quando il coro, in risposta alla tirata volgare di Alfredo, termina il suo largo intervento in ‘si bemolle maggiore’, succede di colpo un cupo pesante silenzio che esplode all’improvviso fra le mani del direttore d’orchestra. Violetta, il soprano, nel ‘fa’ della scala superiore dello stesso ‘si bemolle’, nel silenzio avvolgente, attacca l’aria: «Alfredo, Alfredo, di questo core non puoi comprendere tutto l’amore…». Questo ‘fa’ della dominante è il grado con la massima tensione armonica, un quinto grado della tonalità di ‘si bemolle maggiore’, rispetto alla nota sospesa nell’aria su cui si è chiuso il coro. E questo rimprovero, implorazione «Alfredo, Alfredo…» ha un effetto straziante sul pubblico degli spettatori. Ricordo che quando ragazzo inesperto e presuntuoso ascoltai per la prima volta la Traviata mi venne da ridere per la banale rima baciata delle parole «di questo core, … tutto l’amore». Oggi ne so un po’ di più. Tutti sulla scena e nel teatro hanno visto e sentito Alfredo insultare Violetta Valéry – che ha sacrificato tutto per lui – trattandola da puttana e gettandole in faccia la famosa manciata di quattrini con le parole «che qui pagata io l’ho». Ma la vera pugnalata nel ventre degli spettatori – in teatro se ci si guarda in giro ci sono centinaia di occhi lucidi – è lo strazio di quel vocativo dolcissimo su quell’insulto, con quell’intervallo di quinta del ‘fa sol fa’ di attacco. Parole redente e redentrici e sublimi, scena, musica, tutto si fonde e congiura contro il sistema nervoso e l’omeostasi degli spettatoti. Forse bagnati da quell’esperienza si intuisce allora che cosa voleva dire Aristotele con il suo concetto di catarsi; e comunque si tratta di una stoccata fatale a tutti i pregiudizi antiromantici della cultura occidentale che negano l’intreccio indissolubile fra musica, visione, parole, azione, ritmo, vita.

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