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Questo testo riprende i temi dell'incontro organizzato da 'vicino/lontano' tra Alberto Abruzzese e Derrick De Kerckove e coordinato da Marco Pacini (8 maggio 2010)

Pacini. «Saper leggere il libro del mondo…» è un frammento di una canzone di Fabrizio De André, da cui prendo spunto per parlare di come i new media stanno cambiando l’accesso alla conoscenza della realtà. Viviamo ormai da qualche decennio in quella che il linguista Raffaele Simone ha chiamato la terza fase, per distinguerla dalle due precedenti altrettanto forti trasformazioni antropologiche:  l’invenzione della scrittura prima e della stampa poi. Viviamo in una rivoluzione epistemologica caratterizzata da un eccesso di informazione, tanto che ci si chiede se tutto ciò non porti a una perdita progressiva delle nostre capacità critiche e di discernimento. Di fronte all’information overload, alla sempre più evidente sfasatura tra il tempo biologico della vita umana e la moltiplicazione delle nostre attività quotidiane ‘promossa’ dalle nuove tecnologie, si sono grosso modo formati due schieramenti: da una parte quelli che in tutto ciò vedono delle opportunità, dall’altra coloro che ne sottolineano soprattutto i rischi. Tra i ‘catastrofisti’, oltre allo stesso Simone, possiamo annoverare pensatori come Jean Baudrillard, secondo cui la televisione e i new media hanno ucciso la realtà, o come Paul Virilio, convinto che «ogni rivoluzione politica è un dramma, ma la rivoluzione tecnica che si annuncia, più che un dramma, è una tragedia della conoscenza, la confusione babelica dei saperi individuali e collettivi». Un’affermazione molto forte: cosa ne pensate?

De Kerckhove. Al contrario di Paul Virilio, io sono tra gli ottimisti, perché la confusione babelica di cui lui parla è esattamente il contrario della maturazione a cui stanno tendendo i new media, specialmente la rete, di cui Twitter è l’ultimo nato, e che è incredibilmente intelligente, coerente, si sviluppa in maniera perfettamente autonoma all’interno della società e, al tempo stesso, dà modo alla società di organizzarsi altrettanto bene. Trovo il quadro molto più positivo di quello dipinto da Virilio o Baudrillard. Di quest’ultimo, tuttavia, condivido il concetto dell’iper-realtà, cioè il fatto che oggi possiamo immaginare una situazione, come ad esempio in Avatar, della quale siamo più o meno creatori, e non più semplici dipendenti: Avatar è il nostro destino!

Abruzzese. Per cercare di rispondere al quesito partirei da un vecchio slogan, ‘apocalittici e integrati’: un’opposizione da sempre presente nella cultura moderna che, in qualche modo, è diventata dirimente con l’avvento della televisione quando si è trattato, sostanzialmente, di decidere se stare dalla parte della tradizione – e quindi delle culture della scrittura e del libro – o dalla parte della diffusione delle immagini. Anche questo è un vecchissimo tema, perché la storia dell’Occidente è stata un alternarsi di momenti iconoclastici, in cui prevaleva un forte senso di diffidenza e di avversione nei confronti dell’immagine, e di momenti in cui ad affermarsi erano posizioni iconofile, che caldeggiavano modelli di rappresentazione visiva. Lo slogan è stato coniato da Umberto Eco che, da personaggio goethiano sempre in cerca di una ricomposizione, pur partendo da un’analisi non certo positiva nei confronti dei media, suggerisce di trovare il giusto mezzo tra l’essere apocalittici e l’essere integrati. Invece di proporre una posizione estremista, egli indica una via più cauta tra chi sostiene che le comunicazioni di massa distruggono valori, coscienza e sapere, e chi, invece, è convinto del contrario. Condivido l’invito alla cautela, perché penso che, nei confronti dei fenomeni cui stiamo assistendo, si debba essere allo stesso tempo apocalittici e integrati. Bisogna essere questo e quello, perché se non si è apocalittici non si riesce a capire la rilevanza, la drammaticità e la potenza delle trasformazioni in atto, mentre se non si è integrati si perde il senso del mutamento e ci si preclude le possibilità che esso offre. Non è un caso che, tra gli autori catastrofisti qui citati, quello che amo di più sia Baudrillard, perché ha saputo mettere in pratica questo modo di analizzare i media e ha avuto una straordinaria intuizione sostenendo che i mezzi di comunicazione cancellano la realtà eccedendola, creando cioè un mondo iper-reale in cui la tecnologia sostituisce l’esperienza con la simulazione. Sulla questione della confusione babelica, Baudrillard, a differenza di Virilio, è sconfortato dallo sforzo della cultura occidentale di ricomporre Babele, perché non si è tenuto in considerazione che la possibilità di comunicare e d’intrattenersi l’un l’altro proviene proprio dalla diversità linguistica, che ha impedito l’affermarsi di una sola lingua, con il relativo portato di universalismo che tanto piace agli apocalittici, sempre in crisi di fronte alle innovazioni. Sì, è vero, stiamo assistendo a una grande mutazione. Proprio come, in quanto corpi, siamo il risultato di continue trasformazioni antropologiche, che si compiono naturalmente in un tempo lunghissimo, partendo addirittura dalle scimmie. Nella fase attuale, la mutazione antropologica è tutt’uno con la tecnologia, e non produce solamente una trasformazione del corpo, ma molto di più, grazie alle protesi che abbiamo costruito nell’arco di secoli.

Pacini. Tornando al concetto di information overload e pensando alla scansione dei tempi nella giornata tipo di un uomo occidentale di oggi, quali possono essere gli effetti di una vita continuamente ‘connessa’?

De Kerckhove. So che esistono degli studi sui rapporti tra uso della rete e organizzazione sinottica del cervello, ma io non sono arrivato ad alcuna conclusione. Mi sono accontentato di provare a capire la relazione che abbiamo con le interfacce. Tanti di noi trascorrono almeno quattro ore al giorno davanti a uno schermo, altri fino a nove, innescando una intensa interazione con una macchina, fino a esportare nella rete le proprie funzioni cognitive, accelerate, amplificate, ridistribuite e moltiplicate. Con il telefonino succede la stessa cosa: la nostra coscienza individuale risulta implementata, in tempo reale, di molte informazioni disponibili per tutti, in ogni momento. Riguardo alla scrittura, invece, ho trovato qualcosa: studiando i cambiamenti dell’organizzazione cerebrale spazio-temporale, prima con l’invenzione dell’alfabeto greco e poi con quello latino, ho osservato che, partendo da un certo presupposto, si sviluppava la predisposizione di alcune funzionalità del cervello a una determinata visione e interpretazione del mondo. In questo senso, un altro esempio è la prospettiva, il modo di studiare lo spazio in relazione al tempo. Oggi questo succede nella realtà e nella nostra vita virtuali. C’è un rovesciamento totale della prospettiva, che non è più vista dall’interno ma dall’occhio esterno. Siamo dentro il sistema e Avatar è una ragione in più per capire che siamo totalmente immersi nel 3D. Second life, ad esempio, è un mondo virtuale dove possiamo incontrarci, è una forma di immaginario oggettivo proiettato sullo schermo. Tutto questo avviene a una grande velocità, mentre permane la vecchia figura dell’uomo isolato con una coscienza privata. Il cambiamento di immagine dell’uomo è oggi una delle cose più importanti da capire, perché comporta il riagganciarci alla dimensione globale che abbiamo perso.

Pacini. Passando da un’intelligenza sequenziale tipica di un testo alfabetico che si legge a un testo che si guarda, dal punto di vista delle capacità critiche è possibile, come sostengono alcuni studiosi, che si produca una regressione delle funzioni superiori del cervello?

De Kerckhove. Dal lineare all’ipertestuale è esattamente questo ciò che succede. Gli studenti vanno in rete e prendono informazioni un po’ qua e un po’ là, leggono due parole prima e due parole dopo quella cercata e saltano da un soggetto a un altro, molto velocemente, arrivando a una sintesi con l’aiuto degli strumenti offerti dalla rete stessa. Invece di imparare da dentro, prendono anche da fuori. È un male? È un bene? Non lo sappiamo ancora, però essi sono molto veloci nel capire come funziona il sistema e lo adattano alla loro vita. La capacità critica rimane un problema, perché rappresenta la possibilità che abbiamo di padroneggiare il linguaggio. Nella prima fase, quella dell’oralità richiamata da Simone, è il linguaggio che ha la supremazia sul corpo e controlla gli altri corpi. La voce del dittatore, del mago, del prete… tutte queste dimensioni fanno sì che la parola viva abbia potere sul corpo. Per essere critici, si deve avere potere sul linguaggio, che deve essere fermo e si deve fissare su qualcosa, come la scrittura. Solo se si ferma il linguaggio, si realizza il potere del corpo sul linguaggio stesso. Nella terza fase, quella elettronica, il problema è che siamo in parte controllati dal mondo virtuale – e lo siamo sempre di più sul piano temporale, spaziale, psicologico, ecc. – e, nello stesso tempo, abbiamo l’illusione di controllarlo, negoziandolo politicamente, legalmente e socialmente in varie forme, in quanto riusciamo a mantenere la coabitazione del pubblico e del privato, dell’essere controllato e del controllare. È questa la dimensione in cui viviamo oggi.

Pacini. Modificazioni che riguardano anche la coscienza di sé e l’identità delle persone.
Lei, professor Abruzzese, ha parlato di multi-identità che sorgerebbero come effetto massivo dell’uso dei nuovi media, non solo del computer ma anche degli sms del telefonino: una ‘reperibilità’ spazio-temporale assoluta. Che cosa significa multi-identità e quali cambiamenti comporta?

Abruzzese. Multi-identità è un gioco di parole, dato che ‘identità’ è il termine che meglio definisce i paradigmi unitari universalistici. Finora nella società moderna il soggetto storico è stato quello dotato di una mega-identità, all’interno della quale egli assume diversi ruoli: sociali, di genere, familiari, lavorativi, ecc. Nella costruzione dell’identità, dove saper leggere il libro del mondo significa esattamente che il mondo può essere rappresentato dal libro e dalla capacità di leggere quel libro, il paradigma culturale è quello sequenziale della scrittura e quindi della linearità, al quale si contrappone la simultaneità. In genere, quando parliamo di crisi intendiamo qualcosa di negativo, dimenticandoci che essa è anche l’apice di una trasformazione. Se spettacolo, cinema e televisione hanno contribuito con i loro linguaggi a costruire le identità moderne, oggi le reti e i linguaggi digitali ci fanno intravedere la possibilità di identità multiple: non producono cose che prima non esistevano, ma ci consentono di vederle in modo diverso e di praticarle meglio. Perdiamo o no la capacità critica? Critica e crisi hanno la stessa radice. Fare critica vuol dire essere capaci di separare, compiendo un atto divisorio netto, un atto di comando, assumendo una decisione forte. La critica è un giudizio, costituisce nell’ambito della cultura ciò che la legge rappresenta nell’ambito della società. Mentre quest’ultima per applicare una pena divide il giusto dall’ingiusto, la critica, stabilendo dei canoni, costruisce i confini oltre i quali nulla ha valore. Il passaggio culturale che scopriamo attraverso le reti è che esiste un altro modo di porci nei confronti del mondo. Forse non dovremmo parlare di capacità critica, ma di condizioni critiche, in quanto l’atto divisorio, di decostruzione, non avviene dall’alto di un’azione, di un codice o di una legge applicati, ma attraverso una relazione. È la differenza che passa tra chi si mette davanti al televisore o allo schermo del cinema e chi smanetta con Facebook, sul suo blog o sulla rete per conversare, ecc. Per i nostri sistemi concettuali, per le nostre istituzioni, per le nostre culture, per i nostri processi formativi e mnemonici, è difficile cogliere che cosa stia accadendo nei territori della rete, perché siamo stati abituati dalla cultura dello spettacolo ad avere una consapevolezza sensoriale del tutto, mentre ora ci troviamo di fronte a una complessità che si cela, fatta di soggetti che sfuggono in qualche modo ai ruoli precisi a cui ci hanno abituati la scuola, l’università, le scienze… In questo senso, la multi-identità è una vecchia idea che il romanticismo e la cultura moderna hanno già espresso: dentro di noi abbiamo tante identità, come dottor Jekyll e mister Hyde, o anche lo stesso Avatar. L’immagine della molteplicità appartiene ai racconti dell’Ottocento e alle tradizioni popolari. Non c’è mai qualcosa di nuovo, ma tutto torna a realizzarsi. La multi-identità è l’idea che, attraverso forme di comunicazione non più unidirezionali, verticali e centralizzate, ma fondate sulla relazione, sull’interattività e sullo scambio, si realizzino non delle identità forti, ma tanti momenti identitari che si trasformano a seconda della condizione, del problema, dell’occasione, dell’aria che tira.

De Kerckhove. Per me Avatar è Pinocchio 2.0. Pinocchio è un personaggio di legno che vuole essere un bambino. È un pupazzo meccanizzato che vuole diventare umano, affrontando delle sfide che lo portano addirittura a entrare nella balena per raggiungere il suo obiettivo. È questo il mito universale di Pinocchio. Lo troviamo in molti film, compreso Avatar, che vuole darci un’immagine di noi come prova del nostro essere. Avatar è l’ultimo mito e forse il più diffuso, perché porta con sé la terza dimensione, che è una nuova percezione dello spazio dopo quella rinascimentale. Probabilmente Avatar è il nostro futuro, perché ci stiamo ‘avatarizzando’ con i telefonini, sulla rete, con i giochi di ruolo, con una risensibilizzazione all’immagine dell’essere. The Matrix, altro film di grande successo, porta con sé l’idea che tutti sono digitalizzati e vogliono tornare ad essere umani. Ovvero, il mito continua e si esprime in tutte le varietà che la modernità permette. Penso che valga la pena pensare alla profondità del mito di Pinocchio. Essere John Malkovich, un film in cui un personaggio vive dentro un’altra persona, ci racconta una delle situazioni che si sperimentano adesso.

Pacini. La ricerca di una nuova umanità?

De Kerckhove. Sì, infatti post-umano e cyborg sono la versione opposta del romanticismo: invece di adorare la natura, si adora la tecnica. È l’estetica neobarocca che stiamo vivendo adesso, dove il personaggio rappresenta un modo di essere che possiamo indossare. È la nuova letteratura.

Pacini. Tornando ad ‘apocalittici e integrati’, McLuhan parlava di un’estensione dell’umanità raggiunta grazie alle nuove tecnologie, mentre Baudrillard sottolineava piuttosto l’inizio di un’espulsione dall’umanità. Sono due prospettive completamente diverse, che mettono in evidenza una dicotomia, con una sorta di spavento primordiale riguardo alle nuove tecnologie: la speranza umanizzante da un lato, il timore disumanizzante dall’altro.

Abruzzese. La bravura sta nel riuscire a combinare diverse forme di conoscenza e diverse discipline. Non sono un esperto del mondo primitivo, ma mi affascina la primissima fase in cui l’uomo ha cominciato a relazionarsi con il mondo circostante e gradatamente ha capito che per sopravvivere doveva riuscire a trasformare tutto quello che gli stava vicino: legno, terra, fango, animali… Il fatto stesso che l’essere umano si sia costituito ha fatto sì che si sia espresso, che si sia proiettato nel mondo circostante e che in qualche modo abbia prodotto quel mondo. Molti miti hanno lavorato su questo; il più calzante è sicuramente quello di Narciso: la dimensione di un essere umano in continua espansione è andata via via evolvendosi fino ad arrivare alla tecnologia moderna. Marshall McLuhan, con un ragionamento di grande semplicità, ha sviluppato una straordinaria riflessione sulla tecnica, affermando che ogni tecnologia non è altro che una protesi. All’inizio di 2001 Odissea nello spazio di Kubrick, si racconta dell’invenzione della leva, che poi, girando nel cielo, diventa un’astronave. Baudrillard, tuttavia, accettando la teoria che la tecnologia sarebbe un’emanazione del nostro corpo, sostiene che quest’ultimo, propagato nel mondo, ritorna sempre a se stesso. La trovo una felicissima intuizione, perché c’è bisogno che la componente tecnologica, che non è esterna ma appartiene all’uomo, riesca a contenere questa follia di onnipotenza. Pertanto ritengo che oggi sia necessario un pensiero radicalmente antiumanista e antirinascimentale; lo sforzo culturale che dovremmo fare dovrebbe essere rivolto a ridimensionare la centralità dell’essere umano. Tutte le scienze sono ossessionate da tale centralità, da cui dipendono le tante tragedie del mondo che stiamo vivendo. La nostra filosofia dell’estetica e della politica ragiona su una piccola porzione di esseri umani legittimati a vivere, contrapposti a una porzione molto più grande di esseri umani che non hanno tale legittimazione. La cultura occidentale, classica e moderna, ha incentrato tutti i suoi principi sul binomio politica/felicità e sul privilegio del soggetto umano, che è sovrano del mondo. Solo cercando di ascoltare di più la nostra sensibilità e considerandoci nient’altro che una piccola increspatura dell’universo, forse potremmo affrontare le scelte della nostra vita da un’angolatura diversa, con un’attenzione maggiore al fatto che il grande tema dell’umanità non è come raggiungere la felicità, ma piuttosto come riuscire ad amministrare il dolore. Credo che ciò sia possibile. Le tecnologie esistono da sempre, fin dalla nascita dell’essere umano, ma i linguaggi digitali hanno inaugurato una nuova fase, che sarebbe un peccato non sfruttare per cogliere nell’aria qualcosa di diverso da ciò che ha animato fino ad oggi il soggetto moderno, di cui, in questo momento, vediamo solo le rovine che ne dimostrano il fallimento. Trovo davvero importante avere la possibilità di mettere in discussione tutto questo. Viviamo in un mondo che è ricchissimo di suggerimenti sui cambiamenti che stanno avvenendo, ma abbiamo delle istituzioni politiche e culturali che non sanno cogliere né interpretare tali trasformazioni.

De Kerckhove. È molto interessante, sono d’accordo. A questo proposito, volevo chiederti se la nostra attuale dimensione globale, come per esempio il nostro rapporto con l’ambiente e il clima, non porti già con sé un’indicazione fondamentale per stimolare la decentralizzazione dell’uomo.

Abruzzese. Vorrei usare il termine ‘cultura’, che per noi ha sempre più un valore sapienziale e istituzionale piuttosto che antropologico, col significato proprio di ‘cultura delle reti’, perché le reti ci offrono un tipo di esperienza che altre piattaforme espressive, come la pagina di un libro o lo schermo del cinema e della televisione, non ci consentono di vedere. Sulle reti c’è una cultura delle relazioni molto evidente, costantemente in controtendenza rispetto a tutti i saperi di cui solitamente ci serviamo. La rete ci mostra che esiste un’intima connessione, oggi densa e accelerata, tra il posto in cui mi trovo e il mondo, che non è la globalizzazione – com’è usualmente definita pensando ai flussi lunghi che avvolgono il pianeta –, ma è invece una ‘glocalizzazione’. La comunicazione non può essere globale se non è ‘glocale’. La comunicazione locale dimostra sempre più di avere in sé la matrice del globale. Pensiamo alla scuola, all’università, alle aule del parlamento, alle organizzazioni dei partiti, ai sindacati…: in questi apparati è difficile trovare qualcosa che si avvicini alla dimensione che si sta vivendo oggi nella rete. Naturalmente qualcuno potrebbe subito obiettare: «Cosa stai dicendo? Pensi davvero che con la rete avverrà la rivoluzione che non è avvenuta con gli altri strumenti storici che la modernità ci sembrava offrire per poter ribaltare i rapporti di potere e sedare i conflitti?». Credo che il principio stesso di rivoluzione sia legato alla modernità e che forse sarebbe bene non affidarsi troppo a vecchi principi e a vecchi paradigmi. Tra l’altro, se usiamo le reti con i vecchi principi produciamo un disastro ancora più grande, come succede in genere alle istituzioni che lo fanno utilizzando esattamente lo stesso linguaggio che adoperavano per il libro. Come ho detto, è la modernità che ci ha abituato al principio della rivoluzione, cioè al fatto che un determinato atto sociale produca delle conseguenze immediate e che, con una sommossa, si possa ribaltare un rapporto di potere. Le grandi trasformazioni culturali e antropologiche, invece, sono avvenute in milioni di anni, come il passaggio dalla civiltà dei raccoglitori a quella dei contadini e quello dalla civiltà dei contadini a una società come la nostra. Ben vengano, quindi, i new media e il digitale, che con il loro ruolo e la loro potenza, a differenza della rivoluzione industriale che è stata solo un eccezionale acceleratore, sono davvero una clamorosa trasformazione, esattamente come il passaggio dal raccoglitore al contadino. Perché allora dobbiamo polemizzare tra di noi riguardo alla rete, pensando che essa debba immediatamente produrre degli effetti? Siamo solo agli inizi: la rete è la vera espressione di tutti i cambiamenti che stanno avvenendo e che sono di grande portata rispetto a tutto l’arco della modernità.

Pacini. In questo senso forse è prematuro parlare di cyber-democrazia, anche se qualche effetto lo si potrebbe già riscontrare. È pensabile che rete e tecnologie digitali possano stravolgere le condizioni sociali da cui è nata la democrazia come la conosciamo oggi, proponendo per la sfera pubblica nuovi parametri e nuovi paradigmi?

De Kerckhove. È assai convincente Chris Anderson, direttore della rivista «Wired», quando spiega la coda lunga dei piccoli gruppi di interesse che, invece di mettersi in competizione con le grandi compagnie, si arrangiano da soli. Chi, per esempio, vuole vedere i film degli anni ’30 può creare una comunità sulla rete per vedere solo quei film. Sembra poco, ma ha un grande effetto sull’azione politica. Come per Twitter, in cui il rapporto immediato del pubblico con la notizia comporta un dialogo tra le singole persone che non si era mai verificato in passato. Politicamente si tratta di una possibilità per rovesciare il potere, disintegrare progressivamente il sistema e proporre una nuova etica per l’affermazione di un’altra società, anche grazie all’interconnessione immediata che abbiamo l’uno con l’altro attraverso le nuove tecnologie di comunicazione. Tutti segni verso un rovesciamento vero, tanto rapido quanto la caduta del muro di Berlino.

Abruzzese. Affronto il tema, che è poi il tema centrale di quanto stiamo dicendo, in termini di speranza, un concetto culturalmente più articolato rispetto alle retoriche sulla felicità. I grandi valori della civiltà occidentale andrebbero profondamente messi in discussione. La speranza, in questo senso, per me significa esattamente ciò che sostiene Derrick, vale a dire: avere a disposizione una tavolozza di strumenti più sofisticata e sensibile rispetto al passato, e servirsene per fare meglio quello che, invece, stiamo facendo malissimo. Sarebbe già un bel progetto: cogliamo l’enorme occasione che le tecnologie leggere offrono per far sì che il sovrano percepisca meglio la complessità della domanda dei sudditi. Non ho mai visto un amministratore capace di consultare e ascoltare qualcuno, anche semplicemente rispondendo a lettere o telefonate, o soltanto e-mail. Nulla è cambiato, eppure dovrebbe. Il dramma della democrazia è di aver inventato dei buoni dispositivi istituzionali, giuridici e normativi, che però, in qualche modo, devono sempre fare i conti con la quantità. È l’aspetto più duro del sistema: l’idea che ci sia un interesse generale gestito dalla maggioranza, rispetto al quale la minoranza deve adattarsi. Sappiamo quanti guai ciò comporti nell’ambito dell’interesse generale di un’amministrazione pubblica. Del resto la stessa consultazione elettorale è basata sui numeri. Il sapere delle reti suggerisce allora una soluzione diversa, perché, ad esempio, le reti possono scomporre i numeri. È molto diverso calcolare una maggioranza su una domanda secca o farlo su domande complesse, dalle quali emergono delle indicazioni che non appartengono più a schieramenti contrapposti ma rispondono invece a un sentire comune, che nasce dall’aggregarsi di determinate attese e desideri, non dalla somma di individui. Ecco, la speranza sarebbe questa ma, purtroppo, credo che siamo sommersi dalla retorica sulla bontà della democrazia. Siamo diventati tutti democratici. Il concetto stesso di destra e sinistra, che fino a dieci, venti anni fa significava anche essere o non essere democratici, è andato all’aria. Penso che sia giusto così, e che le parole ‘destra’ e ‘sinistra’ non significhino più nulla. È tuttavia rilevante il fatto che il termine ‘democrazia’ sia avvolto da una legittimazione automatica: dire democrazia equivale a dire il bene. Se si fosse più consapevoli che la forma stessa della democrazia ha implicitamente al suo interno la forma della dittatura, un amministratore responsabile e avveduto sarebbe più attento nell’usare gli strumenti e i dispositivi che la democrazia gli fornisce. Egli non ricava alcuna utilità nel proporre la retorica della democrazia, mentre ha necessità di sapere quale macchina complessa, ed eventualmente micidiale, la democrazia possa essere.

Pacini. «Mentre fino ad ora eravamo soggetti coscienti in uno spazio psichicamente neutro, stiamo forse per diventare delle escrescenze periferiche di uno spazio cosciente». Professor De Kerckhove, la cito per chiederle: che fine fa la responsabilità individuale in uno scenario dove la politica non è solo un rapporto tra una pluralità, sia o no in rete, tra soggetti e potere, ma riguarda anche il singolo soggetto con le sue implicazioni etiche e morali?

De Kerckhove. Questo è un vero problema, che ha una sua storia. Nella cultura orale la responsabilità si identificava con la vergogna e si manifestava in rapporto con il clan, con la famiglia e con i conoscenti. Successivamente la vergogna si è convertita in colpevolezza, non più esternamente ma internamente, verso se stessi. Freud ha poi cercato di riportarla fuori, e oggi la nuova dimensione della responsabilità non può che essere quella globale: essa riguarda la sopravvivenza stessa dell’umanità sull’intero pianeta, piuttosto che la responsabilità verso la tribù o verso se stessi. È questa la dimensione che vedo a poco a poco configurarsi, e penso che dovremmo affrettarci a esserne consapevoli. Un’altra cosa è la soggettività, che oggi è rimessa in discussione. Da giovane credevo che ci sarebbe sempre stata, per noi e per i nostri figli. Il problema è che senza la lettura e senza il controllo sul linguaggio non c’è una vera soggettività. Sopravviverà, ma sarà dominata dalla rete, che se ne frega della nostra identità. Del resto l’abbiamo già esportata su Facebook, su MySpace, su tutti gli sms che mandiamo: questo significa che sul piano identitario abbiamo qualche problema da risolvere.

Abruzzese. Roberto Esposito, filosofo che insegna a Napoli – città della carne, più che dei corpi –, ha sviluppato negli ultimi tempi l’idea che il soggetto moderno, nella sua individualità e nella sua identità, abbia finito per ammalarsi di un eccessivo desiderio di incontaminazione. Si è sentito, cioè, indenne da qualsiasi virus che potesse indebolire il primato della persona sulla comunità. Esposito è invece attratto molto di più dalla terziarietà, cioè dal fatto che ciascuno di noi ha sempre davanti qualcun altro, mentre l’etica borghese della cultura moderna si è formata all’insegna del principio ‘la proprietà obbliga’. Lo Stato moderno è nato proprio chiedendo al cittadino, in cambio di sicurezza, una condotta basata sulla responsabilità. Le cose poi sono andate in modo tale che oggi pensiamo, anche in buona fede, di essere responsabili di quello che facciamo e di essere immuni dalla violenza – perché di questa si occupa lo Stato –, e ci consideriamo sempre innocenti ed estranei a qualsiasi prepotenza. È importante ricordarsi, però, che sia lo Stato, che se ne è appropriato, sia ciascuno di noi con le proprie azioni, commette continuamente violenza. Mentre siamo immersi nei discorsi della cultura dell’umanesimo, allo stesso tempo partecipiamo della violenza che viene praticata, in ogni momento, nella complessa macchina che è il nostro pianeta ma, a causa dello stato di anestesia che ci caratterizza, pensiamo di esserne estranei. La responsabilità, invece, dovrebbe sempre indurci a considerare il dolore che si può produrre esercitando qualsivoglia potere. Essere responsabili significa anche capire che la corteccia che ci siamo messi addosso per autoproteggerci da tale dolore deriva in parte dalla vecchia cultura dei confini nazionali, che nell’Ottocento ha, di fatto, legittimato gli interessi particolari rispetto agli interessi del mondo.

Pacini. Rispetto ad altri Paesi occidentali, l’Italia, Paese fortemente televisivo, è qualche passo indietro nella cultura della rete e delle comunicazioni digitali. Cosa ne pensate?

De Kerckhove. In Italia, la percentuale di persone connesse continua ad essere tra le più basse dell’Europa, ma questo non è grave ed è facilmente rimediabile. I francesi, per esempio, in poco tempo hanno recuperato un ritardo di cinque anni. Il vero problema è il rapporto fra la televisione e internet. L’Italia è letteralmente soggiogata dalla televisione, che continua ad essere un prodotto di cultura di massa con un elevato potenziale di condizionamento sia politico che sociale, capace di ridurre le capacità di interpretazione, di critica e di risposta individuali. È per questo che oggi i governi si pongono il problema di controllare internet e la sua interattività, arrivando fino a stabilire dei limiti ai diritti delle persone. Sta succedendo in Italia con il decreto Alfano sulle intercettazioni e le relative ricadute sulla rete; succede in Corea come in Cina, dove il cyber-controllo è più pesante, ma anche in Francia e in Inghilterra si ama molto sorvegliare. Il fascismo elettronico potrebbe imporsi velocemente, ma credo che tutti i tipi di censura e di controllo che avvengono in rete trovino una loro risposta, e Twitter è quella più recente. L’idea di chiudere la tecnologia wi-fi o di limitarne soltanto l’accesso va, tuttavia, nella direzione opposta al principio della condivisione dell’intelligenza, che si affermerà nonostante i tentativi del sistema di acquistare più potere nella rete.

Abruzzese. Continuiamo a parlare della rete come se tutto fosse cominciato ieri, ma non è così. Tempo fa, un editore come Castelvecchi pubblicò, in forma ridotta, La vita dopo la televisione, di George Gilder, un americano che negli anni ’80 parlava dell’era della rete – un vero americano, un John Wayne, un texano arrabbiato, sostenitore dell’America della frontiera, dura e tosta, che deve governare il mondo. Per lui la rete rappresentava una nuova opportunità per sbarazzarsi dei vecchi difetti e per impostarne di nuovi. Anche adesso la rete mantiene una spinta anarcoide-resistenziale, ma rischia di ricadere nella stessa doppiezza di cui dicevo prima rispetto alla democrazia, da una parte fonte di libertà ed emancipazione, dall’altra terreno di dominio e di controllo. All’uso del computer noi siamo arrivati tardi, ma siamo avanzatissimi nell’uso del cellulare: in questo abbiamo bruciato tutte le tappe, e il fatto che praticamente tutto sta convergendo sul telefonino ci dà ora ampi margini di recupero. Per quanto riguarda la televisione, va detto che ancor oggi essa rappresenta un forte freno alla maturazione della nostra società e che è preoccupante, in Italia, il perdurante attestarsi della politica, delle imprese e dei mercati sulla comunicazione generalista piuttosto che sulla rete. Bisogna inoltre dire che i new media sono anche la conseguenza di quello che per alcuni decenni è successo nella televisione, dove, anche se in modo poco percepibile, è esistita una comunicazione che non andava soltanto dallo schermo allo spettatore, ma comprendeva anche le risposte che lo spettatore dava allo schermo. La curva della nostra televisione, da quella tradizionalista a quella di intrattenimento, via via sino ad arrivare a quella che molti di voi deprecano e trovano assolutamente orrenda, come quella dei reality show, rappresenta il destrutturarsi della televisione unidirezionale, sostanzialmente autoritaria, al massimo educativa. Una televisione in cui si confondono le cose, perché sia lo spettatore che il consumatore entrano a far parte, in prima persona, dello spettacolo. Il nostro dibattito politico si è, di fatto, bloccato al trauma delle elezioni del 1994, vissuto come punto di catastrofe di un decennio di iper-offerta televisiva, risultato del passaggio dal monopolio pubblico a un regime misto pubblico-privato, e dell’introduzione del telecomando, che consentiva di passare da un programma all’altro. Negli anni ’80 l’Italia è stata così sommersa dalla civiltà dei consumi, l’equivalente di ciò che successe nelle grandi città, come Parigi, Londra e New York, nell’Ottocento. La televisione è stata la nostra metropoli. Possibile che nessuno si sia accorto che stava emergendo un tipo di figura sociale che si era sentita costantemente esclusa dai saperi istituzionali, dalle tradizioni nazionali, dalle culture alte? Forse, se si fosse fatta una simile riflessione, sarebbe stato più facile arginare gli effetti deteriori di tale trasformazione e comprendere il processo, come diceva McLuhan, per cui quando c’è il maelström la cosa più importante è buttarsi dentro e saper seguire il vortice. Noi non abbiamo saputo seguire il vortice.

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