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Le tensioni sollevate dalla presenza degli immigrati hanno molte cause. Tra queste, l’incapacità e l’impossibilità degli Stati nazionali di controllare i flussi, e dei poteri locali di governare i luoghi. Situazione che induce gli individui a focalizzare la propria attenzione, e la propria frustrazione, su dimensioni che essi ritengono ancora di poter controllare, come quella locale. Uno spostamento di sguardo che, unito all’enfasi sulla concezione della sicurezza come incolumità personale e non, anche, come tutela sociale, si traduce nella ricerca di un pretesto contro cui combattere per ricomporre e dare senso all’agire dell’individuo spaesato. L’immigrato è una figura perfetta in questo processo di attribuzione della colpa: è il prodotto visibile, a livello locale, degli effetti della globalizzazione. Il suo arrivo ha sconvolto un mondo che possedeva un proprio centro di gravità – quartiere, paese, città che fosse –, che ne presidiava i confini. Ora quella presenza rende incerti e insicuri sul futuro. Oltretutto l’immigrato viene considerato, a seconda delle circostanze, meno competente, più docile, più esposto: dunque, favorito nella corsa al lavoro in quanto membro di un ‘naturale’ esercito industriale di riserva che, particolarmente in fasi recessive, può diventare concorrente. Nello stupore generale – perché molti si dimenticano persino che il suo lavoro, quando non è ‘in nero’, contribuisce alla fiscalità generale – l’immigrato appare non solo degno di attenzione da parte di agenzie pubbliche ma, come chiunque altro, gode dei servizi del welfare. Infine, ma non certo da ultimo, si comporta da ‘padrone’, perché non si occulta nello spazio pubblico.
Tutte considerazioni che inducono a tracciare un confine inevitabilmente più inafferrabile, ma anche più robusto, verso l’Altro etnico.
L’esclusione, un tempo funzione di competenza delle frontiere esterne, diventa oggi processo interno: nelle coscienze, nell’immaginario, negli spazi urbani. Le nuove frontiere si erigono dentro la città e i paesi, ma anche nelle menti.

Un’identità comunque
Di fronte alla nuova fragilità dei legami sociali, alcuni cercano la risposta alle ansie da insicurezza nell’appartenenza identitaria. Ricerca che può sfociare nel tentativo di ricostruire la comunità, o meglio, un particolare tipo di comunità: una comunità impossibile, composta da soggetti totalmente dipendenti dai processi globali, che tentano di trovare radicamento in uno spazio locale che appare loro finalmente gestibile e difendibile dopo i radicali mutamenti indotti dalla globalizzazione. Uno spazio con confini sicuri, marcato visibilmente, nel quale gli ‘estranei invasori’ non possano entrare. Comunità significa, in questa visione, identicità. Significa comunità mondata da ogni differenza, che a sua volta significa esclusione dell’altro. Se la xenofobia è una ‘pratica di costruzione della comunità’, la paura produce, o vorrebbe produrre, ‘comunità’.
Nell’immaginario collettivo della neocomunità lo straniero, figura ostile eretta a simbolo dalla globalizzazione, è sempre ‘alle porte di casa’, è sempre una minaccia. La protezione dell’incolumità a rischio finisce, così, per assorbire e surrogare la difesa dall’insicurezza insicura e dall’incertezza incerta, come ci ricorda Zygmunt Bauman. Spesso questo aggregato difensivo assume la forma di una comunità solipsistica, composta da individui che si raggruppano in forme labili. Lungi dal costituire comunità ‘reali’, tali aggregazioni disperdono e non concentrano l’impulso socializzante, riperpetuando la solitudine di coloro che le animano, uniti solo dall’ossessione della contaminazione e dal consenso verso una strategia di separazione e di accesso selettivo agli spazi collettivi. Strategia che consiste nel rigettare gli altri fuori dal loro obbligato ‘ghetto’: gli estranei, in particolare gli immigrati, le ‘non-persone’ con cui evitare ogni contatto, alla ricerca di quella stabilizzazione somatica che il nuovo rapporto tra flussi e luoghi rende ormai intrinsecamente impossibile alla ‘coscienza dell’occhio’.
L’autodifesa comunitaria che assume volto ‘securitario’, localista o etnico, esprime, oltre che la pretesa di un nuovo tipo di esistenza politica, una palese assenza di spazio pubblico. Simili forme di aggregazione nascono, infatti, anche per effetto della destrutturazione dei contesti collettivi, istituzionalizzati e centralizzati, di identità che, nel tempo della modernità liquida, svuota il luogo occupato in precedenza dalla politica. Svuotamento favorito dalla lunga egemonia di dottrine che veicolano l’idea dello ‘Stato minimo’ e quella della superiorità del mercato sulla polis, privilegiando il consumatore a scapito del cittadino. La globalizzazione accentua il processo di spoliticizzazione. Nello spazio in cui operano il capitale, la finanza, l’informazione globale, non esistono istituzioni di governo e nemmeno ‘cittadinanza’. Mentre il concetto di potere globale indica una realtà tanto inafferrabile quanto concreta nella sua deresponsabilizzata capacità di produrre decisione, quello di ‘cittadinanza globale’ resta vuoto. Il potere globale si separa dalla politica, fluisce e si muove liberamente, mentre le istituzioni restano vincolate al territorio, ma senza quella capacità di incidere che avevano in passato.
Lo sguardo localistico è, anche, il tentativo di riempire questo vuoto; anche perché in quella dimensione la sicurezza, o almeno un aspetto di essa, sembra finalmente a portata di mano. Individuare colpevoli visibili, ritenuti i maggiori responsabili del caos e della frammentazione sociale causata dall’accelerazione globale e dalle sue ‘conseguenze secondarie o irriflesse’, permette da un lato di sfuggire a un crescente senso di impotenza; dall’altro, di cercare di riscrivere il patto che lega una comunità al territorio, stabilendo un nesso tra politica e responsabilità – anche se l’ordine locale sembra funzionare esclusivamente come ordine pubblico, fatto valere essenzialmente verso le ‘nuove classi pericolose’, nelle quali gli immigrati sono collocati ascrittivamente.
Nel momento in cui i cittadini appaiono frastornati dalla crisi di sovranità degli Stati nazionali e dalla loro incapacità di affrontare fenomeni su scala globale, ‘fare qualcosa’ a livello locale sembra ricostruire, attraverso una nuova regolazione normativa disciplinare che ha come oggetto gli immigrati, un legame qualsiasi. In realtà la rifondazione del potere locale a partire dall’antagonismo nei confronti dello straniero non risolve alcun problema. Nessuno può promettere un’esistenza sicura agli insicuri, tanto meno un futuro certo attraverso l’uso della politica come ars persecutoria.
La ricerca di un’identità collettiva che offra sicurezza nell’era dell’insicurezza passa, dunque, anche per l’illusorio tentativo di ricostituire una comunità essenzialmente pulita da ogni diversità, nonostante di quell’ipotetica comunità non siano più definibili nemmeno i confini. Le neocomunità reattive hanno poco in comune con le ‘comunità locali’ del passato; il territorio non è più luogo dello spirito comunitario ma, semmai, bacino di raccolta di individui privi di radicati legami reciproci. Gli spazi locali hanno perso la capacità di generare e imporre significati all’esistenza. Essi vengono a dipendere da decisioni prese altrove, sottratte ai vincoli locali.
La ricerca dell’identità a partire dal localismo fattosi disciplinare si rivela, dunque, un illusorio tentativo di restaurare un equilibrio perduto. Quelle identità neocomunitarie, che si presuppongono naturalmente condivise, sono, in realtà, sottoprodotti di un’attività artificiale di definizione di confini. Ogni tentativo di ricostruzione produce, al massimo, un surrogato di comunità, che placa solo temporaneamente le ansie individuali e collettive generate dai processi di trasformazione globale. Anche se, in presenza di attivi imprenditori della xenofobia, questa mobilitazione scatena effetti politici da non sottovalutare.

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