MISURA


Intervistato di recente da Michele Smargiassi nel suo blog fotocrazia, Gabriele Basilico, figura di spicco della fotografia contemporanea internazionale, conferma un aspetto fondamentale del suo metodo di lavoro: la misurazione. Ricorda: «Un giorno vidi una mostra dei Becher, con quelle loro collezioni maniacalmente ripetitive di manufatti industriali, come album di figurine, e fu una folgorazione. Capii allora un principio che resta fondamentale per il mio lavoro ancora oggi: con la fotografia non puoi giudicare il mondo, ma puoi fare una cosa molto più necessaria: misurarlo.
Prendere le misure dei luoghi da noi creati è più importante, più urgente che guardarli» (cfr. http://smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it/tag/gabriele-basilico). L’incontro con Bernd e Hilla Becher data a metà anni ’70, il periodo nel quale Basilico inizia a lavorare sul tema della città postindustriale.
Qualche anno fa, nel 2007, aveva affermato: «Da quando la fotografia esiste non ha mai smesso di essere un efficace strumento di misurazione del mondo» (Oltre il paesaggio. Gabriele Basilico 1978-2006, a cura di V. Fagone, 2007). L’idea che la fotografia possa costituire uno strumento di misurazione è al centro della progettualità del documentarismo che indaga le trasformazioni in atto nel paesaggio contemporaneo, del quale Basilico è uno dei grandi protagonisti. Dal punto di vista storico, egli è un ‘misuratore’ del mondo come lo furono Eugène Atget ai primi del Novecento e Walker Evans nel cuore del secolo scorso, come lo sono stati i Nuovi Topografi statunitensi come Lewis Baltz, Robert Adams o Stephen Shore, o quegli straordinari topografi europei che sono stati appunto Bernd e Hilla Becher. Il lavoro di misurazione di Basilico assume come iniziale oggetto di attenzione Milano, la città dove è nato e vive quando non è in viaggio, e si allarga progressivamente alle altre città: ma questo significa anche che la città in quanto tale, questa eccezionale invenzione umana, è presa come metro di misura di un mondo nel quale, attraverso i complessi processi della storia e dell’economia, le cose costruite dall’uomo hanno progressivamente preso il posto di quelle della natura.
Parlando della città di Beirut, Basilico scrive: «Il mio lavoro è quello di fotografare le città […]. Conosco bene la ritualità dei gesti necessari legati all’esplorazione del tessuto urbano. Ma una città ferita, oltraggiata, ha bisogno di una sensibilità tutta particolare, pretende un’attenzione speciale, di partecipazione ma anche di rispetto. Prima ci sono la commozione e il dolore per la tragedia, poi la paura e l’esitazione che precedono l’inizio della pratica rituale della fotografia che esige considerazione e responsabilità. Poi qualcosa succede, forse la città ascolta, intuisce le esitazioni […]. Subentra un silenzio metafisico, una pausa dopo la quale si può agire, osservare, prendere le misure» (Pensa con i sensi, senti con la mente. L’arte al presente, a cura di R. Storr, 2007).
In questo equilibrio si colloca la sua fotografia: non misurazione rigidamente programmata ma, invece, progettata e insieme sentimentale, indagine sensibile rivolta a quell’oggetto complesso che è la città, con la quale egli si pone in dialogo come farebbe con una persona, con un organismo vivente. Si tratta dunque di una lettura di quel vissuto della città che in qualche modo resta impigliato nelle sue architetture, nei progetti che l’hanno disegnata nel tempo. Ancora, in altri suoi scritti, i concetti di misurazione e di equilibrio fra approccio emotivo e impegno documentario si evidenziano come fili conduttori intrecciati, idee che costantemente guidano l’autore nell’affrontare la complessità dei travagliati territori della contemporaneità. Scrive, inoltre, della sua ‘bulimia’ nei riguardi delle immagini, del suo scattare molto, in funzione di una visione dilatata e potenzialmente illimitata dello spazio costruito (G. Basilico, Architetture, città, visioni. Riflessioni sulla fotografia, a cura di A. Lissoni, 2007). Studiare il paesaggio contemporaneo nei suoi significati in continuo mutamento obbliga a scelte importanti, anche in termini non banali di tipo quantitativo. La fotografia, sappiamo, è un frammento, un prelievo dal reale, e questo rende difficoltoso elaborare un progetto di lettura del mondo di tipo veramente comprensivo. Basilico si pone questo problema fin dagli anni dei suoi esordi, quando, per affrontare l’identità della Milano della fine degli anni ’70, sceglie il metodo della serialità: il suo noto lavoro Milano. Ritratti di fabbriche (1980; 2009) è una articolata catalogazione delle fabbriche della città che si incrocia con la narrazione. Il risultato è un vasto insieme di fotografie che oggi consideriamo l’incunabolo di tutte le sue ricerche successive: in esso Basilico compie una campionatura delle fabbriche, emblema di una civiltà che è finita. Quando, successivamente, a metà anni ’80, l’impegnativo incarico all’interno della ‘Mission photographique de la DATAR’, grande progetto di indagine sul paesaggio contemporaneo voluta dallo Stato francese (G. Basilico, Bord de mer, 1990), lo porta sulle coste del nord della Francia, Basilico compie una svolta metodologica e sceglie la veduta come importante sistema visivo per affrontare la grandezza e la complessità dello spazio costruito. Dopo la catalogazione applicata alle fabbriche, la vastità della veduta che permette allo sguardo di spingersi fino all’infinito risponde all’esigenza di misurare lo spazio tra terra e mare: tutte le cose del paesaggio, una accanto all’altra, in modo definito e ‘totale’, vi sono rappresentate. È un lavoro di lenta lettura del mondo, di ‘comprensione’ nel senso letterale del termine. Non è un caso che dopo averla impiegata in questa importante occasione, la veduta diventi una modalità ricorrente nella sua opera. Se essa è palese protagonista nella ricerca su Beirut di cui si diceva, torna poi successivamente nel lavoro svolto a San Francisco e nella Silicon Valley (G. Basilico, Silicon Valley, 2008) o a Mosca (G. Basilico, Mosca verticale, 2008), la ritroviamo anche qua e là quasi in ogni sua ricerca recente, da Roma, a Istanbul, a Rio de Janeiro (G. Basilico, Roma, 2008; Istanbul 05 010, 2010). La veduta rappresenta la forma più compiuta della visione descrittiva del mondo, il modo più equidistante e per così dire meditativo, fondato com’è sul punto di vista dall’alto, privilegiato e assoluto, che consente la piena contemplazione e l’accoglimento quasi materno dell’immagine del mondo dentro l’inquadratura.
Nel tempo, Basilico ha utilizzato la veduta in versione più o meno ampia, alternandola a sguardi più ravvicinati degli spazi urbani, a riprese frontali o scorciate, ponendola dunque al centro del suo lavoro, come un perno intorno al quale si muovono le altre immagini, in alcuni casi anche sperimentando riprese dall’alto e talvolta ruotate, che mettono in evidenza la plasticità del paesaggio.
Un’altra esperienza di misurazione è rappresentata da un progetto particolare dal titolo Sezioni del paesaggio italiano, svolto nel 1997 insieme a Stefano Boeri (G. Basilico e S. Boeri, Sezioni del paesaggio italiano, 1997). Si tratta di un dialogo tra urbanistica e fotografia volto a restituire il senso dello spazio abitato attraverso l’individuazione di porzioni di territorio italiano giudicate emblematiche per l’analisi di importanti fenomeni che hanno caratterizzato lo sviluppo della città contemporanea: una tendenziale mappatura, un atlante di luoghi diversi, individuati per tipologie e analizzati trasversalmente. Dieci anni più tardi, nel 2007, Basilico ha realizzato una grande installazione della lunghezza di un chilometro lungo il perimetro del grande cantiere di Porta Nuova a Milano, a cavallo di via Melchiorre Gioia, una delle zone della città che sono in via di più radicale trasformazione. In quest’opera di public art consistente in una sequenza di forti ingrandimenti in bianco e nero di fotografie di Milano poste direttamente nella strada, la città per anni fotografata e la città reale si confrontavano nel corpo vivo del tessuto urbano, fra le auto, i passanti, il rumore, le strutture dei cantieri. Questa volta la misurazione prendeva la forma di un dialogo diretto tra la città fisica e la sua immagine. In quella occasione, Basilico dichiarava: «Sono un medico visivo, mostro le ferite della città. […] Io mi soffermo sul corpo della città per trarne immagini da meditare. Ascolto con gli occhi. Con sguardo estetico e compassionevole […]» (Un chilometro di Basilico, «ViviMilano», supplemento del «Corriere della Sera», 23 ottobre 2007).
Il tema dello sguardo contemplativo e della pietas verso i luoghi della contemporaneità così segnati dal caos, impediti ad avere una identità, talvolta sofferenti, è un’altra questione che innerva l’opera di Basilico: esercitare uno sguardo di comprensione nei riguardi del destino storico che ha progressivamente privato gli uomini contemporanei della bellezza del mondo. La propensione a vedere il tessuto della città come corpo, come insieme di parti funzionanti, o mal funzionanti, o malate, e a registrarne le eventuali emergenze, è dunque un altro tema importante che permette al suo lavoro di procedere su un piano concettuale e contemporaneamente emotivo.
Nel tempo Basilico ha insistito sul tema della città che perde la sua identità di luogo del trionfo della cultura industriale per diventare luogo della trasformazione post-industriale, post-moderna. Insistere ha significato percorrere e ripercorrere lo spazio, andare e ritornare nei luoghi, confrontarli tra loro, indagarli, tentarne davvero una misurazione. Proprio grazie a questa prolungata e sistematica osservazione delle città e delle strutture del mondo Basilico ha costruito un corpus di lavoro potente, un vastissimo insieme di rappresentazioni che aiuteranno chi verrà dopo di noi a capire, attraverso l’immagine dei luoghi, chi erano gli uomini che hanno abitato la terra nel periodo in cui essa è stata dominata e plasmata da un’economia così veloce e sfrenata.

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