MISURA
Homo. ‘Misura di tutte le cose’?
di Sabrina Tonutti
Parafrasando liberamente George Orwell, potremmo dire che ogni specie (animale) è unica, ma quella umana, comunque, lo è di più! A sostenere tale affermazione non è solo il senso comune, che con le sue pratiche quotidiane conferma una volontà di separazione dell’uomo da tutti gli altri animali, ma anche quella serie di teorie e metanarrative che esaltano la centralità della figura umana nella natura.
Certe dichiarazioni, indifferenti alle più recenti evidenze scientifiche, presentano una visione talmente dicotomica della realtà da farci pensare, come modello di riferimento, a una tassonomia che segue il modello della scala naturae. Eppure, un secolo e mezzo è passato da quando Charles Darwin ebbe a sottolineare come le differenze fra l’uomo e gli altri animali fossero di grado e non di genere, e come «una differenza di grado, per quanto grande, non giustifichi il collocare l’uomo in un regno a sé stante», né la presunzione di attribuirsi il titolo di ‘orgoglio della creazione’.
L’approccio continuista e gradualista, assieme al pensiero popolazionale, tuttavia, fatica ancora a scalfire il paradigma antropocentrico di aristoteliana memoria. Fu Aristotele, infatti, a cristallizzare la visione degli animali non umani come aloga zôa (‘senza ragione e senza parola’) e a segnare la loro differenza radicale rispetto all’uomo. Da tale teorizzazione dicotomica discende, già con Aristotele, l’esclusione degli animali (o, meglio, dei non portatori di logos) dalla sfera di considerazione morale. Sostiene il filosofo nella Politica che l’uomo ha per natura il diritto di sopraffare gli animali, e contro gli animali feroci esso conduce una ‘guerra’ che è tanto ‘naturale’ quanto quella contro gli ‘schiavi naturali’, nati per essere governati. Come pure tutte le donne, continua Aristotele, con parole che forse piacquero anche a Oscar Wilde, il quale ebbe a dire: «Le donne apprezzano la crudeltà più di qualunque altra cosa. Esse conservano meravigliosamente gli istinti primitivi. Noi le abbiamo emancipate, ma esse rimangono schiave, obbedienti egualmente al loro padrone. Esse amano essere dominate». Schiavi e padroni, differenze di specie, di classe, di genere, e subordinazione. Tornando all’antica Grecia, è qui che l’antropocentrismo si declina in androcentrismo classista: come gli animali diventano strumenti di un uomo ‘misura di tutte le cose’ (espressione che uso qui con licenza, rispetto all’accezione di Protagora), così anche altri esseri, gli schiavi e le donne, varianti difettive del paradigma, ricadono in una categoria di assoluta subalternità. Scrive Aristotele nell’Etica nicomachea che non c’è alcun legame di amicizia o giuridico tra uomo e animali, e neppure con lo schiavo, perché non hanno nulla in comune.
Donne, animali e schiavi (ma anche il ‘barbaro’ e, transitoriamente, il bambino) si ritrovano nella stessa categoria di esclusione a esperire la condizione di non-normatività rispetto al paradigma-uomo, che è: maschio, adulto, greco e libero. Non a caso, esiste un legame storico che affratella i movimenti di liberazione dei nostri tempi: la lotta antisessista, antispecista e antischiavista. Alla teorizzazione della discriminazione tali movimenti oppongono una riflessione sui diritti dei ‘diversi’, dei ‘subalterni’. Si pensi alla sintesi elaborata dall’ecofemminismo antispecista di Carol J. Adams, o alle battaglie contro la schiavitù e insieme contro il maltrattamento degli animali avanzate da figure come William Wilberforce nell’Inghilterra degli inizi dell’Ottocento.
Il logos, inteso nella sua caratterizzazione esclusivamente umana, è stato dunque uno dei primi elementi utilizzati come ‘misura’ per valutare chi includere nella/escludere dalla sfera del riconoscimento di certi diritti. Se Aristotele fu l’artefice di questa architettura dicotomica, non sono mancate le voci di dissenso. Si pensi a Teofrasto, a Plutarco, o a Porfirio, che contestano il riferimento al linguaggio umano come misura per valutare gli animali: sarebbe come se i corvi, afferma Porfirio, sostenessero di essere i soli a possedere un linguaggio e che noi uomini siamo privi di ragione perché pronunciamo parole inintelligibili. Tuttavia, rispetto a tali posizioni, il paradigma antropocentrico si è via via consolidato, portando con sé la negazione di rilevanza etica della vita animale, fino a trovare rielaborazione nella dottrina di Agostino e nella Scolastica di Tommaso d’Aquino (dove la differenza radicale fra uomini e animali è segnata da un potente e insondabile marcatore, il possesso dell’anima), come pure, più in generale, nell’umanesimo.
Ancora oggi, dopo che alla riflessione sull’uomo hanno contribuito ricerche di zoosemiotica, etologia, neuroscienze e human-animal studies, mostrando l’esistenza di capacità cognitive e di linguaggio molto interessanti in altre specie animali, tuttavia la dicotomia ‘uomo/tutti-gli-altri-animali’ si arrocca attorno al paradigma separativo.
Oltre alla ragione e al linguaggio (inteso come competenza grammaticale), storicamente altri elementi sono stati proposti a sostenere questa supposta radicale diversità. Si pensi all’uso di attrezzi, sbandierato, a sua volta, come la prova ultimativa della posizione privilegiata dell’uomo all’apice della scala evolutiva. Ebbene, anche in questo caso ci sono state confutazioni: il paleontologo Louis S.B. Leakey, quando Jane Goodall nei primi anni ’60 descrisse l’uso di attrezzi da parte degli scimpanzé del Parco Gombe in Kenya, sembra abbia replicato: «Ah, ora dobbiamo ridefinire il concetto di ‘attrezzo’ e ridefinire l’uomo – oppure accettare che gli scimpanzé siano considerati umani!». Ma il parossismo della distinzione e della separazione essenzialista si è anche esteso, riverberandosi all’interno della famiglia umana, e ha portato alla necessità di distinguere il modo di utilizzare attrezzi da parte dell’uomo moderno rispetto a quello dei suoi antenati, gli ominidi. Anche qui, recenti studi hanno dimostrato come nel Pleistocene venissero prodotte dagli ominidi sculture d’avorio, e come attrezzi di pietra fossero forgiati circa due milioni e mezzo di anni fa dai nostri avi. Fu allora che iniziò il percorso che ha condotto alla tecnologia e alle produzioni artistiche cui noi oggi ci riferiamo con l’iniziale maiuscola. L’uomo, come inteso oggi, sarebbe quindi anche ‘misura’ di discriminazione all’interno della propria storia evolutiva? Ominidi e primati non umani ricadrebbero nella stessa categoria, rispetto al paradigma dell’uomo moderno?
La biologa Lynn Margulis, di fronte al dato della vicinanza genetica fra noi e le scimmie antropomorfe africane, suggerisce una ristrutturazione tassonomica in cui noi umani rientreremmo nella superfamiglia degli Hominoidea assieme a scimpanzé e gorilla, mentre orangutan e gibboni, dai quali ci separammo oltre dieci milioni di anni fa, ricadrebbero in altre due sottofamiglie. Ma la Margulis non è l’unica a invocare ravvedimenti nella classificazione paleoantropologica. Fra gli altri, la paleoantropologa Elizabeth E. Watson ha proposto di raggruppare uomo, scimpanzé e gorilla all’interno non solo della stessa famiglia, ma anche dello stesso genere Homo. La denominazione che ne risulterebbe sarebbe la seguente: Homo sapiens, Homo niger e Homo gorilla. Se questa proposta provocatoria fosse accolta, commenta Telmo Pievani, «significherebbe che sulla Terra esistono tre specie del genere Homo, una delle quali ha l’abitudine di sterminare, di vivisezionare e di rinchiudere negli zoo le altre due». Delimitazioni dei diritti discendono infatti dall’istituzione di separazioni tassonomiche, come anche dalla reificazione di altri tipi di confini. Già limitandoci allo spunto datoci da Pievani (le azioni di sterminare, vivisezionare e rinchiudere negli zoo), potremmo stendere un lungo, triste elenco di sopraffazioni ritenute legittime in nome della superiorità di chi le ha perpetrate, e non solo nei confronti degli animali, vittime per elezione. Nel Rinascimento l’‘arte’ di sezionare esseri viventi valicò il confine di specie, coinvolgendo figure come gli eretici e i condannati a morte. Nel Cinquecento, Leonardo Fioravanti, medico dissidente di Bologna, confessò di aver praticato, durante i suoi viaggi, l’anatomia sui vivi, solo però su saraceni ‘infedeli’. Quanto invece all’esposizione di ‘esemplari’ viventi, la storia ci insegna che quegli stessi zoo che propongono oggi al pubblico finzioni naturali con animali ‘de-animalizzati’ hanno visto coinvolte altre categorie di esseri da mostrare nel catalogo delle diversità: si trattava di ‘esemplari’ di altre razze umane (si vedano, ad esempio, le esposizioni di tipi etnici ideate a fine Ottocento da Carl Hagenbeck, in cui apparivano specimen di inuit, indiani sioux, somali, samoiedi, aborigeni australiani, masai, ecc.). Umani per appartenenza di specie, ma animali per condizione. Una condizione segnata da un altro potente marcatore, il possesso di ‘cultura’, termine tanto vago e, per certi versi, indefinibile in via ultimativa, che si è prestato a un utilizzo quasi fideistico, partendo da una definizione del termine ristretta, specialistica e, soprattutto, antropocentrica. Il primatologo Craig Stanford dichiara che il vero problema non è se le scimmie, nostri parenti più prossimi, abbiano o meno cultura, ma se gli studiosi della cultura, che considerano la stessa una sorta di ‘proprietà privata’ dell’uomo, siano in realtà disposti ad accettare una definizione più estesa del concetto. Anche qui, il riferimento a una specializzazione tecnica e a capacità psico-sociali molto avanzate ha posto anche dubbi, ad esempio, sull’estensione del concetto ai cosiddetti popoli ‘primitivi’, agli albori delle scienze dell’uomo. Confini disciplinari e tassonomici, questi, che sono nel contempo anche politici, sottolinea la filosofa statunitense Donna Haraway, in quanto sono costruiti in base all’istituzione di differenze (i vari dualismi: natura/cultura, uomo/animale, sesso/genere). Emerge come la verifica dei rapporti fra natura/cultura e fra specie umana e altre specie sia stata tradizionalmente condotta in base a una rigida definizione di ‘cultura’ data a priori, cucita come un abito addosso all’uomo, e rispetto alla quale qualsiasi prestazione animale risulta appartenere a un ambito diverso. Proprio perché diversa è l’appartenenza di specie. Ed è questo il concetto attorno al quale si è articolata la più recente teorizzazione della superiorità dell’uomo rispetto agli altri animali. È innegabile che la specie umana sia ‘unica’, ma cosa significa questa affermazione? In realtà, come osserva il filosofo Michael Peters, ogni specie è ‘unica’. L’uomo, però, viene considerato tale in un senso molto più misterioso: la sua unicità sarebbe data dalla sua umanità e dalla sua non-animalità. «Questa osservazione – scrive Peters – è tanto profonda quanto l’affermazione che i gatti sono definiti non dalla loro animalità, ma dalla loro felinità». Per ricapitolare, alla nozione di ‘specie’ siamo giunti dopo una breve e non esaustiva rassegna che ha elencato la ragione, il linguaggio, l’uso di attrezzi, l’anima e la cultura come ‘misure’ di diversità. Con la nozione di ‘specie’ è l’appartenenza a un taxon a scavare lo spartiacque fra l’uomo e le altre specie animali, in quella prospettiva che è stata definita, appunto, ‘specista’ (prima dallo psicologo Richard Ryder e poi da Peter Singer, il filosofo di Animal Liberation). Con conseguenze etiche fondamentali. In molti discorsi attorno alla supremazia dell’uomo e all’etica, è l’appartenenza di specie, e non la capacità di soffrire (e neppure il possesso della ragione), a segnare la limitazione dei diritti alla vita e alla non sofferenza degli esseri viventi. La natura pregiudiziale di tale affermazione si dimostra nella valutazione della posizione, in questa architettura, dei cosiddetti ‘casi marginali’ (neonati, gravi disabili psichici, persone non in possesso di certe facoltà intellettive): tali esseri godrebbero dei diritti fondamentali non tanto perché possono soffrire, appunto, ma in nome della loro appartenenza a una categoria tassonomica, quella della specie Homo sapiens. A questo proposito, va rimarcato come la nozione di ‘specie’ non rispecchi una realtà naturale dai confini netti, quanto piuttosto i nostri modi di classificare ciò che ci circonda, e le loro criticità. Ci rammenta il filosofo della scienza John Dupré che le specie non sono ‘unità dell’evoluzione’, bensì ‘unità della classificazione’, e che sulla stessa definizione del termine non esiste accordo fra gli studiosi. Con ‘specie’ si indica, solitamente, un gruppo di individui interfertili, isolato da altri individui. Ma l’isolamento riproduttivo della specie non coincide con quello dei singoli membri della specie. Inoltre, tale criterio di classificazione si rivela inutile per le specie asessuate, perché implicherebbe che ogni organismo asessuato debba essere considerato una specie a sé stante. Ci sono, poi, altri riscontri zoologici che incrinano la compattezza e la solidità di tale nozione, si pensi alle cosiddette ‘specie ad anello’. Esemplare è il caso del gabbiano reale e del più piccolo gabbiano dalla testa nera, i quali rappresentano due specie distinte in alcuni luoghi, ma non in altri. All’interno di questa specie si verifica infatti una graduale variazione di caratteristiche genetiche via via che ci si sposta geograficamente da una popolazione all’altra, tanto che fra gruppi contigui questi gabbiani sono simili tra di loro in misura sufficiente da risultare interfertili; mentre ai due capi del continuum della stessa specie (cioè in popolazioni distanti nello spazio) ciò non avviene, mettendo in crisi l’applicazione stessa del concetto di specie per questo gruppo di animali.
Il biologo Richard Dawkins fa notare come nel caso di questa specie ad anello i passaggi intermedi esistono ancora, mentre per altre i passaggi intermedi devono essersi estinti in passato. Ebbene, cosa ci può suggerire la trasposizione di tale fenomeno alla specie umana? Dal momento che tutte le specie correlate sono potenziali specie ad anello, quanto complessa diventa la relazione fra l’uomo e i suoi parenti filogenetici più prossimi, viventi (le antropomorfe) o estinti (gli ominidi)? Quale approccio etico ne deriverebbe, se, anziché estinti, i precursori di Homo fossero oggi in vita? In quale categoria verrebbero collocati? E, soprattutto, quali ‘misure’ sarebbero invocate, per stabilire l’applicazione di certi diritti?