MISURA

Luigi Gaudino intervista Ugo Mattei

Gaudino. Quando abbiamo pensato al tema della misura, sentivamo l’esigenza di sottolineare l’importanza della moderazione, del giusto mezzo, del contenimento, in risposta a tutto quello di eccessivo e urlato che c’è stato e c’è ancora oggi in Italia. Non si può trascurare, d’altra parte, la potenza dell’eccesso, quando questo appare creativo e vitale. Di che tipo di eccesso e di che tipo di misura avremmo bisogno oggi?

Mattei. Il senso del limite è il grande assente nella grammatica della modernità.
L’ideologia della crescita è oggi il nemico principale della misura. Credere nella possibilità della crescita infinita in un pianeta in cui le risorse sono finite è una pura follia, che si spiega soltanto come prodotto della rimozione psicologica della morte, caratterizzante la cultura occidentale del presente. Oggi si ragiona soltanto sul ‘qui e ora’, si rimuove la storia e si costruisce un eterno presente, rinnegando il passato e rinunciando a progettare un futuro più giusto, equilibrato, e soprattutto di vita e non di morte. Moderazione e giusto mezzo sono idee intimamente connesse alla questione della giusta distribuzione delle risorse, un tema che sottopone a critica radicale proprio l’ideologia della crescita e l’insieme degli apparati coercitivi e culturali che la sostengono. Solo con la giustizia nell’accesso alle risorse potrà esserci futuro. Una buona politica deve mettere al centro la distribuzione, mentre la questione della produzione (che cosa produrre e come) deve essere resa funzionale proprio al raggiungimento di una tale società giusta e fondata su moderazione, sobrietà, senso del limite e responsabilità.
Nell’attuale situazione sembra impossibile indirizzare i processi politici verso la via della salvezza. E qui sono necessarie due strategie: una consiste nello sviluppo di una cultura critica che spinga tutti, da subito, a vivere nell’equilibrio, nel rispetto e nel senso del limite (ad esempio, rifiutando la pratica di mangiare carne, o impegnando la propria vita a difendere i beni comuni).
L’altra è la messa in campo di atti rivoluzionari, personali e collettivi, anche estremi, che facciano esplodere le contraddizioni del capitalismo estremista che ci governa. Serve un uso controegemonico tanto dell’estremismo quanto della moderazione.

Gaudino. Giustizia/equità, merito/uguaglianza, legalità/diritto. Sono termini ‘pesanti’, storicamente carichi di significato – in diritto, in politica, in economia –, e che esprimono valori e aspirazioni anche in contrasto fra loro. Tutto ciò appare spesso ignorato dai protagonisti del dibattito mediatico. Quale pericolo si nasconde dietro la banalizzazione dei concetti? E cosa si può fare per tornare a dare un senso a queste parole, e a ciò che dietro di esse si nasconde?

Mattei. Purtroppo il dibattito mediatico è corrotto dal predominio dell’interesse privato sull’etica pubblica. Oggi le corporations dominano la politica e, direttamente o per suo tramite, tutti i mass media. È lo ‘spettacolo integrato’ di cui parlava, da vero precursore, uno dei più grandi intellettuali che la Francia abbia prodotto nel Novecento, Gui Debord. Nello ‘spettacolo integrato’ nulla ha un senso univoco e le parole plastiche, quelle vaghe e idonee a produrre ideologia dominante si impongono. Le ‘coppie’ sopra indicate non sfuggono a questo destino. Per quanto concerne giustizia, equità, legalità e diritto ho indagato questo aspetto, insieme a Laura Nader, nel mio libro Il Saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali (2010). Di nuovo, soltanto lo sviluppo sostenuto di una cultura critica militante che coniughi idee teoriche a pratiche politiche di liberazione può farci superare la trappola delle parole plastiche. Ma anche qui c’è un’azione diretta che mi sento di raccomandare di fare subito! Spegnere la televisione, non comprare i giornali borghesi, leggere e salvare «il manifesto»!

Gaudino. Tra i 556 deputati dell’Assemblea costituente che, eletta nel 1946, diede poi vita alla Costituzione italiana, Giuseppe Dossetti può tranquillamente essere ricondotto alle personalità di ispirazione maggiormente moderata. Eppure, nei lavori di commissione preparatori, presentò una proposta per un articolo che si rifaceva al principio di resistenza, che così recitava: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Ora, se la Costituzione di un Paese può considerarsi l’unità di misura per la condivisione di un patto di convivenza tra le diverse componenti di una comunità, c’è da chiedersi quali possano essere considerati i casi in cui non è chiaro chi, tra quelle diverse parti, stia o meno rispettando quanto è stato preso come punto di riferimento comune. In questa prospettiva, quando la disobbedienza può essere ritenuta non una rottura, ma un richiamo a quella cultura etica che sta alla base della cittadinanza democratica? Stando a queste regole, chi è il vero disobbediente? E su quali criteri oggettivi si può legittimare una violazione della legge? Nella stabilità di un sistema, che ruolo può quindi avere la disobbedienza?

Mattei. Dossetti, con gli standard reazionari di oggi, non sarebbe per nulla un moderato, né penso, francamente, che lo fosse al suo tempo! Il pensiero cattolico sociale, allora come oggi, è all’avanguardia nella battaglia per i beni comuni e nella costruzione di un’alternativa di cittadinanza attiva. Pensa a padre Alex Zanotelli, don Andrea Gallo o don Luigi Ciotti! E ve lo dice un materialista storico! In ogni caso, anche se non entrato in Costituzione, il diritto di resistenza presenta caratteri pre-costituzionali, fondativi e costituenti, quindi fa parte di quegli aspetti profondi e strutturali della politica. Tracciarne i limiti non è perciò compito accademico, ma è la storia che lo fa. Se la Resistenza italiana fosse stata sconfitta, oggi i nostri eroi costituenti sarebbero morti in prigione come terroristi. Se la resistenza riesce a trasformarsi in politica, essa svolge in ogni caso un ruolo fondamentale nel mantenere vivo e genuino un ordine costituzionale, il quale, se vittoriosamente resistito, perde il suo carattere di ordine; se non riesce, invece, essa altro non è che il comportamento antigiuridico di qualche individuo. Oggi la resistenza verso la violenza neoliberale presenta sicuramente i tratti della politicità, sicché mi pare stiamo entrando, anche grazie alla crisi, che sveglia le coscienze dal delirio di onnipotenza, in una fase di scontro finale perché in ballo c’è il futuro di tutti noi. Vi sono episodi e luoghi in cui si vedono già i tratti salienti di un conflitto destinato a generalizzarsi. La Val di Susa è luogo di resistenza eroica. I resistenti sono indicati come ‘violenti’ o terroristi dai dispositivi del potere costituito. Ogni fase costituente o ricostituente conosce, ovviamente in modo variabile a seconda dei contesti, questi passaggi.

Gaudino. La rappresentanza politica è sempre stata la misura del rapporto fra elettori ed eletti. Ora assistiamo a una sua profonda crisi: è un problema di leggi elettorali, di fiducia nel sistema politico, o dobbiamo piuttosto pensare a nuove forme di partecipazione?

Mattei. La rappresentanza è morta. Uccisa dal mutato rapporto di forza fra il settore privato controllato dalle grandi corporations globali e la sovranità dello Stato. In tutto l’Occidente, oggi il primo è incomparabilmente più forte del secondo, lo domina interamente. Il governo tecnico è l’‘epifania’ italiana di questa fine della rappresentanza politica liberale. La partecipazione deve conseguentemente rifondarsi. Come? Credo che sia essenziale considerare morti, insieme alla rappresentanza, anche i partiti. Ciò non ha nulla a che fare con l’antipolitica, perché la voglia di partecipazione alla politica nel Paese è molto forte e sostenuta. Occorre mettere in campo forme di organizzazione della soggettività politica che siano del tutto nuove, aperte, plurali, antiburocratiche, antiverticistiche, inclusive, non intrappolate nel leaderismo. Forme capaci di dare esito politico all’anelito di partecipazione tramite la valorizzazione di tutte le soggettività. Il movimento che ci ha portato alla vittoria referendaria dello scorso giugno costituisce una buona pratica, un esempio di come tale organizzazione aperta possa portare a esiti maggioritari in tutto il Paese. Oggi dobbiamo pensare a una rete di liste di cittadinanza politica attiva, non liste civiche ma politiche, raccolte intorno ad un metodo nuovo e ad alcuni obiettivi di trasformazione profonda e di lungo periodo della società. In campo esistono molte pratiche politiche plurali: dal movimento ‘No TAV’ all’esperienza di lotta per la cultura come bene comune del Teatro Valle occupato (e alle molte altre occupazioni che si ispirano a quella pratica costituente), fino al ripensamento politico della pratica sindacale portata avanti con coraggio dalla FIOM. Diamoci dieci punti comuni, chiari e non ambigui, un modello organizzativo aperto, e lasciamo che ciascuno concorra liberamente e con responsabilità all’obiettivo comune. Faremo da subito la differenza!

Gaudino. Si parla molto, in questi anni, di ‘beni comuni’: ma cos’è che rende un bene ‘comune’? Quali sono gli interessi in gioco?  E che importanza essi rivestono sotto il profilo della riappropriazione del potere di controllo diretto delle risorse da parte dei cittadini?

Mattei. I beni comuni sono la più importante grammatica di un cambiamento possibile. Essi vanno difesi, innanzitutto, da quel saccheggio ostentatamente legale che discuto con Laura Nader nel libro. La pratica del ‘comune’, fondata sull’uguaglianza radicale nell’accesso e sulla decisione sempre condivisa, riduce ad unità teorica la grande e desiderabile varietà delle prassi.  Tale riduzione ad unità teorica delle diverse prassi è la cifra della novità di percorso e di obiettivi. Sostenibilità, riproduzione, riconversione qualitativa dell’economia! Quante suggestioni e quanti obiettivi percorribili nell’immediato ci sono consegnati dalla consapevolezza dei beni comuni! Nel volume Beni comuni. Un manifesto (2011) traccio le grandi linee teoriche di questa rivoluzione. Che può vincere, a patto che si comprenda che i beni comuni non sono categorie merceologiche, ma esperienza di conflitto e di partecipazione attiva di tutta una comunità ecologica, che via via, in una grande rete tessuta dal basso, può trasformare la nostra intera esperienza globale.  Per tessere questa tela dei beni comuni occorre difendere il senso e la radicalità di questo termine, che altrimenti rischia di essere usurpato dal discorso dominante.  I beni comuni sono la nuova frontiera della rappresentanza e della democrazia. Vale la pena dedicare la vita alla loro difesa. Il bello e la qualità comincia per tutti qui e adesso.

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