MISURA

Poco prima della sua scomparsa, del tutto prematura, nel 1990, il fisico teorico di origine irlandese, John Stewart Bell, ha pubblicato sulla rivista «Physics World» un articolo dal titolo Against ‘measurement’: contro la ‘misura’. Il saggio è dedicato a un tema, quello appunto della misura, considerato centrale nella ricerca sui fondamenti della meccanica quantistica.
Bell non sapeva di dover lasciare di lì a poco questa Terra. Ma, per le questioni che ha affrontato, il suo articolo costituisce una sorta di testamento scientifico. Un impegno di lavoro per i fisici che restano: dobbiamo risolvere definitivamente il problema.
Un problema che è fisico, perché assegna all’atto dell’osservare una funzione essenziale nella dinamica quantistica. Ma che è anche filosofico, perché modifica lo statuto ontologico della misura, elevandola da atto di verifica ad atto di generazione della realtà fisica. John Stewart Bell non è una persona qualsiasi. È l’autore di quella famosa relazione, nota come ‘diseguaglianza di Bell’, con cui, a detta di molti, il fisico irlandese si è guadagnato il diritto di sedere – forse unico, insieme a David Bohm, tra i fisici teorici che hanno iniziato la loro attività di ricerca nel dopoguerra – al tavolo della discussione sui fondamenti accanto ai padri fondatori della meccanica quantistica: Niels Bohr, Albert Einstein, Werner Heisenberg, Erwin Schrödinger, Max Born, Louis De Broglie, Wolfgang Pauli, Paul Dirac. Ed è proprio quest’ultimo, il fisico inglese (di origine francese) Paul Dirac, che John Stewart Bell evoca per riproporre ‘il’ tema centrale della misura.
La fisica quantistica nasce nell’anno 1900, quando Max Planck scopre il ‘quanto elementare d’azione’ e l’egemonia del ‘discreto’ che sembra avere ragione su quella del ‘continuo’ nella fisica microscopica. La ‘nuova fisica’ ha un ulteriore formidabile sviluppo quando Albert Einstein spiega, nel 1905, l’effetto fotoelettrico e ‘scopre’ la natura duale, di onda e di corpuscolo, del ‘quanto di energia’, che sarà ribattezzato ‘fotone’. E si consolida nel 1913 quando Niels Bohr spazza via il modello classico ed elabora un modello ‘quantizzato’ dell’atomo e una distribuzione ‘discreta’ appunto degli elettroni nei dintorni del nucleo. Planck, Einstein e Bohr sono perciò considerati i padri fondatori della fisica dei quanti. Ma per tutto questo tempo e per qualche anno ancora – in pratica, un quarto di secolo – manca un modello teorico in grado di spiegare in maniera coerente tutti i fatti osservati a livello microscopico e tenere insieme i ‘lampi teorici’ da loro tre proposti.
Questo modello compatto e coerente, ribattezzato con il nome di ‘teoria della meccanica quantistica’, sarà elaborato nella seconda parte degli anni ’20 e riuscirà a ‘salvare i fenomeni’ della realtà a livello del microcosmo con una precisione che non ha precedenti tra le teorie fisiche. Come peraltro riconosce anche Albert Einstein, che, pur essendo uno dei tre padri fondatori della fisica dei quanti, diventa uno dei più strenui (e acuti) critici della teoria della meccanica quantistica.
Malgrado ne riconosca l’eccezionale capacità di previsione, Einstein ne mette in dubbio la completezza. I rilievi critici del fisico più noto del XX secolo e forse di ogni tempo, sostiene il suo amico e biografo, oltre che fisico, Abraham Pais («Sottile è il Signore…», 1986), nascono da considerazioni squisitamente filosofiche. O, come afferma lo stesso Einstein, da «pregiudizi metafisici». In primo luogo, quello del ‘realismo’ – l’esistenza di una realtà oggettiva, osservabile e indipendente dall’osservatore – messo in discussione proprio dal ‘problema della misura’. Nel corso di vari anni – anzi, dovremmo dire di vari decenni – quei dubbi metafisici sono stati espressi da Einstein in termini fisici così stringenti e rigorosi da alimentare uno dei dibattiti più belli della storia della scienza e da aiutare il suo principale interlocutore, Niels Bohr, a ridefinire con maggior precisione la sua interpretazione del formalismo quantistico, nota come ‘interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica’, che da allora viene considerata l’ortodossia in materia di quanti. Per alcuni il termine ‘ortodossia’ ha assunto un significato letterale. Per cui l’‘interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica’ è diventata una verità indiscutibile. E soprattutto, lamenta Bell, indiscussa.
Paul Dirac, pur essendo stato uno dei protagonisti della nascita e dello sviluppo della teoria, non fa parte della schiera degli ortodossi a oltranza. Secondo lui, l’attuale formulazione della meccanica quantistica può e deve essere discussa. Egli pensa, naturalmente, che la «formulazione di alcune parti serie della meccanica quantistica» sia «esatta». Nel senso, matematico e logico, di «rigorosamente fondata», non nel senso filosofico di «vera». Dirac e tutti i padri del formalismo sanno che i modelli teorici in fisica non sono una descrizione autentica della realtà, né tantomeno ‘verità’, ma sono il modo ‘più economico’ (dunque rigoroso) per ‘salvare i fenomeni’ noti. Il formalismo quantistico in molte delle sue parti fondamentali rappresenta dunque per Dirac il modo di gran lunga ‘più economico’, e più logicamente e matematicamente fondato per ‘salvare i fenomeni noti’ del mondo a livello microscopico. Tuttavia, egli non si nasconde che la meccanica quantistica, nonostante la sua precisione e la sua rigorosa formulazione matematica, abbia alcune difficoltà concettuali irrisolte. Anzi, come ricorda John Stewart Bell, Dirac individua due diverse classi di difficoltà della meccanica quantistica: quelle di prima e quelle di seconda classe. Le difficoltà di seconda classe sono, in buona sostanza, gli infiniti che compaiono quando si cerca di coniugare la meccanica quantistica all’altra grande teoria della fisica, la teoria della ‘relatività generale’ di Albert Einstein, e di elaborare una teoria quantistica relativistica dei campi. Dirac è profondamente disturbato da quegli infiniti. E non pensa che le procedure di ‘rinormalizzazione’ (una sorta di trucco matematico), pur efficaci, siano la soluzione ultima del problema. Deve esserci una soluzione più profonda sul piano concettuale, sostiene. Una soluzione da cercare subito, perché a portata di mano. Per questo egli si impegna a lungo, in prima persona, e sprona altri a lavorare per superare le difficoltà di seconda classe della meccanica quantistica.
Le difficoltà di prima classe, dice Dirac, sono quelle relative al ruolo dell’‘osservatore’ e al concetto di ‘misura’, ovvero ai problemi che Einstein definiva di «oggettività» e di «realismo» della teoria quantistica. Come il fisico tedesco, Dirac pensa che siano queste le difficoltà di gran lunga più rilevanti e che per superarle la teoria dovrà assumere un aspetto molto diverso rispetto all’attuale formulazione della meccanica quantistica. Tuttavia, a differenza di Einstein, Dirac ritiene che questi problemi non siano ancora sufficientemente maturi per una soluzione. E che, nel programma di lavoro dei fisici teorici, vadano lasciati per ultimi. Tenuto conto che il tentativo di risolverli avrebbe disperso grandi quantità di energia intellettuale e che, malgrado queste difficoltà di fondo, il formalismo nella pratica quotidiana dei fisici sperimentali funzionava molto bene. Ora, la posizione di Paul Dirac rispetto ai fondamenti della meccanica quantistica può sembrare opportunista. E, forse, lo è. Ma una soluzione alle difficoltà concettuali e fondative di una teoria scientifica va cercata solo quando si pensa ci siano realistiche possibilità di trovarla? Questo approccio può essere discusso. E, magari, contrapposto alla generosità senza calcoli (che qualcuno definisce velleitaria) con cui, ad esempio, quelle difficoltà di prima classe della meccanica quantistica Einstein ha affrontato subito, e in un isolamento pressoché assoluto. Tuttavia, l’opportunismo di Dirac non è affatto cinico, tutt’altro. Lo scienziato anglo-francese dimostra una grande onestà intellettuale quando riconosce che i formidabili problemi dell’‘osservatore’ e della ‘misura’ esistono e che sono difficili da risolvere. In definitiva, vi sono almeno tre autorevoli fisici teorici – John Stewart Bell, Paul Dirac e Albert Einstein – che, sia pure da prospettive e con aspettative diverse, considerano quello della ‘misura’ il problema aperto più importante nella teoria principale della fisica contemporanea, la meccanica quantistica.

La Luna quantistica
In cosa consiste questo problema? Nulla meglio dell’aneddoto raccontato dal fisico Abraham Pais ce lo può rivelare con parole semplici e immagini efficaci:

Deve essere stato attorno al 1950. Camminavamo, io e Einstein, lungo la strada che dall’Institute for Advanced Study conduceva alla sua abitazione, quando a un tratto egli si fermò. «Veramente è convinto – mi chiese – che la Luna esista solo se qualcuno la guarda?».

Ecco, il ‘problema della misura’ in meccanica quantistica, tutto sommato, può essere ridotto alla questione: ‘dov’è la Luna quando nessuno la osserva?’.
Ai non esperti del mondo dei quanti la domanda può sembrare bizzarra. Nessuno dubita che la ‘nostra’ Luna, quella grossa e macroscopica che illumina la notte, sia lì, nel cielo, anche se né Einstein, né alcun fisico, né noi, né alcun altro la guarda. La Luna è lì, in una precisa posizione dello spazio, e si muove con una determinata velocità orbitando intorno alla Terra, anche se nessuno effettua una qualsivoglia misura. La ‘realtà’ della Luna, sembra persino pleonastico affermarlo, è indipendente dalla misura.
Non è così nel mondo dei quanti: la ‘Luna quantica’ non è lì – in un punto preciso dello spazio e con una velocità definita – se qualcuno non la guarda. Se non c’è un osservatore che misura, ad esempio, la sua posizione e/o la velocità con cui si sposta. La realtà oggettiva della ‘Luna quantica’, sembra bizzarro affermarlo, dipende da una misura.
Questo almeno ci dice la meccanica quantistica. L’‘interpretazione di Copenaghen’ della teoria, dunque, eleva lo statuto ontologico del concetto di misura dalla condizione di ‘inessenziale’ rispetto alla realtà macroscopica (la Luna è lì se nessuno ne misura la posizione) alla condizione di ‘co-essenziale’ della realtà microscopica (la Luna quantica è lì solo se qualcuno ne misura la posizione). Nel mondo dei quanti la misura è un’operazione, per così dire, reificatrice. È la misura che, addirittura, genera la realtà. Per un realista convinto qual è Einstein – nel mondo dei quanti ‘deve’ esistere una realtà oggettiva indipendente dall’osservatore e dalle sue misure – l’idea che ‘la Luna non sia lì’ quando nessuno la guarda (effettuando una misura) è fonte di irrimediabile disagio. Einstein considera la nuova ontologia della misura un’idea semplicemente inaccettabile. E spenderà molti anni della sua vita, spesso in un clamoroso isolamento, per cercare di completare la meccanica dei quanti. In realtà, anche Paul Dirac e John Stewart Bell, sia pure manifestando un minore fastidio filosofico, ritengono quella dello statuto ontologico della misura il più grande problema aperto della meccanica quantistica e, quindi, della fisica. Ma dove e quando nasce il problema? Il problema della misura nasce tra la Germania e la Danimarca, tra Göttingen e Copenaghen, nel marzo 1927, quando il giovane Werner Heisenberg, 26 anni appena, pubblica l’articolo sul Contenuto visualizzabile della cinematica e meccanica quantistiche teoriche e propone le sue famose ‘relazioni di indeterminazione’, dimostrando che non è possibile conoscere con precisione assoluta contemporaneamente la posizione e la quantità di moto di un elettrone o di qualsiasi altra particella quantistica.
In realtà, il risultato non inaugura solo il problema della misura in meccanica quantistica. Ma sancisce in modo definitivo, almeno a detta di ‘quelli di Copenaghen’ (ovvero coloro che collaborano con Niels Bohr, fondatore dell’Istituto di fisica teorica nella capitale danese), la fine del determinismo in fisica. Come dirà lo stesso Heisenberg: «Mediante la meccanica quantistica viene stabilita definitivamente la non validità della legge di causalità». Il perché è presto detto. «Nella formulazione netta della legge di causalità: ‘Se conosciamo esattamente il presente, possiamo calcolare il futuro’ è falsa non la conclusione, ma la premessa. Noi non possiamo in linea di principio conoscere il presente in ogni elemento determinante». Le ‘relazioni di indeterminazione’ di Heisenberg fanno compiere un passo decisivo verso la formulazione definitiva del formalismo quantistico, ovvero verso la definizione di quella che oggi si chiama ‘teoria della meccanica quantistica’. Cosicché quasi tutti i fisici, commenta Abraham Pais, sono felici di pagare l’oneroso prezzo della rinuncia alla causalità rigorosa pur di ottenere la formidabile capacità di comprendere la fisica dell’atomo. Quasi tutti. Ma non tutti. Soprattutto, non Einstein.
«No, non posso credere che la Luna non sia più lì, nel cielo, quando smetto di guardarla». Il fisico tedesco inizia a scuotere, incredulo, la testa mentre vede allontanarsi lungo pericolose strade filosofiche l’irrequieta figlioletta, la fisica quantistica, di cui pure si sente uno dei padri. Ed è davvero difficile considerare la scettica ironia di Einstein, il suo bisogno di un quadro coerente del mondo, la sua strenua difesa del realismo cosiddetto ‘locale’, come la più grande e radicale eresia della fisica contemporanea. A rigore, tuttavia, occorre dire che il problema del realismo o della misura ha sì origine nella formulazione delle ‘relazioni di indeterminazione’ di Heisenberg, ma diventa chiaro e pregnante solo dopo l’interpretazione che il tedesco Max Born ha dato dell’equazione fondamentale della meccanica quantistica: la cosiddetta ‘equazione d’onda’ con cui a partire dal 1926 uno dei padri del formalismo, l’austriaco Erwin Schrödinger, ha formalmente descritto il moto di una particella quantistica attraverso, appunto, una funzione d’onda. Solo che l’austriaco, esponente dell’‘ala realista’ della fisica quantistica, è convinto che la sua ‘equazione d’onda’, proprio come avviene in meccanica classica, descriva il moto reale di una particella quantistica. E invece no, dimostra Born. A differenza delle equazioni tipiche della meccanica classica, l’equazione di Schrödinger non descrive affatto il moto reale delle particelle quantiche, ma definisce solo la densità di probabilità di trovarle in un certo stato, ad esempio in un certo luogo o dotate di una certa velocità, nel momento in cui i fisici effettuano una misura, ovvero quando le particelle vengono osservate. Torniamo al nostro esempio, la Luna di Einstein. Le equazioni della meccanica classica consentono di prevedere con assoluta certezza sia dove sarà il satellite naturale della Terra tra cinque minuti o tra cinque secoli, sia di seguirne la traiettoria, ammesso che se ne conoscano con sufficiente precisione la posizione e la velocità. Le equazioni della meccanica quantistica, invece, non consentono di dire con altrettanta certezza dove sarà, trascorsi cinque minuti o cinque secoli, l’elettrone dell’atomo di idrogeno che in questo momento sta viaggiando con la Luna, abbarbicato in cima a una delle alte montagne lunari. Tutto quello che riescono a dirmi è quanta probabilità c’è che, effettuando una misura, lo ritrovi su quella montagna, nel vicino cratere o persino nella mia tasca, qui sulla Terra. Solo quando, trascorsi i cinque minuti o i cinque secoli, andrò a cercarlo, l’elettrone apparirà: sulla montagna lunare, nel cratere o persino nella mia tasca, qui sulla Terra. Ma se ora, in questo preciso istante, può trovarsi (sia pure con diversa probabilità) in tanti posti così diversi e distanti l’uno dall’altro, un attimo prima della mia misura, l’elettrone, dove stava? Quale traiettoria ha seguito per spostarsi della montagna selenica alla mia tasca?
La teoria dice che queste domande non hanno risposta. Non ha senso chiedersi dov’è l’elettrone prima (e dopo) una misura. Non ha senso chiedersi quale traiettoria abbia seguito, perché quella traiettoria semplicemente non c’è. Il formalismo della meccanica quantistica suggerisce che l’elettrone, prima della misura, si trovava in una superposizione (o sovrapposizione) di tutti gli stati possibili. Cioè, in qualche modo, si trovava contemporaneamente sulla montagna, giù nel cratere e anche nella mia tasca. Solo la misura rende attuale la sua posizione. Anzi, rende attuale una delle infinite posizioni possibili. Max Born vive e lavora a Göttingen, in Germania. Ma per una di quelle stranezze che costellano la storia, compresa quella delle idee, la sua passa come l’‘interpretazione di Copenaghen’ della meccanica quantistica. La ragione è che l’interpretazione di Born è fatta propria dal gruppo, maggioritario, di fisici teorici che aderiscono alla visione di Niels Bohr e della sua ‘scuola di Copenaghen’. Una visione del mondo quantistico che ha almeno tre punti critici. In primo luogo, essa comporta la revisione del concetto di ‘realtà oggettiva’. La fisica classica ha sempre riconosciuto una realtà oggettiva a ciascuna tra le infinite particelle dell’universo. Nella descrizione matematica della meccanica classica ogni particella è infatti caratterizzata a ogni istante da valori netti e distinti degli osservabili, cioè di ciascun parametro fisico. Invece, la fisica quantistica riconosce la realtà oggettiva solo di alcune proprietà statiche delle particelle (massa, carica elettrica), ma nega una realtà oggettiva, cioè caratterizzata in ogni istante da valori netti e distinti, alle proprietà dinamiche (posizione, velocità, energia).
In secondo luogo, tale concezione implica la rinuncia alla descrizione dei parametri fisici nello spazio e nel tempo. Ovvero, rinuncia alla ‘località’ e propone la ‘non separabilità’ delle componenti di un sistema quantistico. Un nuovo esempio chiarirà il concetto. Consideriamo due particelle quantistiche immaginarie: due (micro)trottole che, in un dato istante, interagiscono tra di loro. Ammettiamo che per un principio fisico (diciamo quello di ‘esclusione’ di Pauli) una trottola ruoti su se stessa da destra verso sinistra e l’altra sia obbligata a girare nel verso opposto. Bene, questo sistema quantistico è descritto da un’unica funzione d’onda, ovvero da un’unica funzione di probabilità. Ora facciamo allontanare le due trottole. Una la teniamo qui sulla Terra, l’altra la mandiamo su un’altra galassia, a milioni di anni luce di distanza. Poi cerchiamo di verificare in quale dei due versi possibili sta ruotando quella sulla Terra. All’atto della misura la funzione d’onda, dicono i fisici quantistici, collassa. Una sola delle diverse potenzialità diventa attuale. Ogni trottola, che prima si trovava in una condizione di sovrapposizione di tutti gli stati possibili (ovvero ruotava contemporaneamente in ambedue i sensi), ora ruota in un verso solo, reciprocamente e rigidamente complementare al verso in cui ruota l’altra. La nostra trottola qui sulla Terra ruota da destra verso sinistra? Ebbene, dice la meccanica dei quanti, nel medesimo istante sarà possibile verificare che l’altra trottola, a milioni di anni luce di distanza, rispetta il ‘principio di esclusione’ e ruota nel verso contrario. Perché? Perché un unico sistema quantistico non è separabile. Non riconosce la ‘località’. Si comporta, cioè, come se lo spazio non esistesse. O, se volete, ammette l’azione istantanea a distanza. Il guaio è che possiamo immaginare l’intero universo come un unico sistema quantistico la cui funzione d’onda, a rigore, non è separabile. Lo spazio e il tempo con cui quotidianamente abbiamo a che fare sono dunque illusioni? Tutto è implicato con tutto, in un ordine olistico imperturbabile?
Un altro punto critico nella ‘interpretazione di Copenaghen’ della meccanica quantistica riguarda la misura e il problema micro-macro. Abbiamo detto che un istante prima di effettuare la misura della posizione di un microscopico elettrone, che cinque minuti fa apparteneva a un atomo su una montagna lunare, la particella si trova in una sovrapposizione di stati e cioè, contemporaneamente, sulla montagna della Luna, in un cratere del satellite naturale e nella tasca della mia giacca. Mentre non c’è dubbio che la Luna, quella macroscopica, è lì in un’orbita a 400.000 chilometri di distanza dalla Terra. La fisica dei quanti ci dice, dunque, che la realtà macroscopica è definita e indipendente dall’atto della misura. Mentre quella microscopica è indefinita e dipende all’atto della misura. Abbiamo anche detto che i fisici ‘realisti’ non riescono ad accettare questa dicotomia tra il micro e il macro e questo sbriciolamento della realtà oggettiva. Ed è proprio nel tentativo di ridicolizzarla che Erwin Schrödinger propone un paradosso, quello del ‘gatto vivo e morto’, destinato a diventare la metafora forse più famosa della storia della meccanica quantistica. Mettiamo un gatto in una scatola nera, fuori dalla nostra possibilità di osservarlo, propone Schrödinger in un esperimento ideale. Colleghiamo la scatola a un sistema, quantistico, che, se attivo, è in grado di ucciderlo. Ad esempio, che il sistema sia legato in qualche modo a un atomo radioattivo, anch’esso chiuso nella scatola nera. Quando l’atomo decade, emette un fotone e libera il veleno contenuto in una boccetta. Io non so, né posso sapere, il momento preciso in cui l’atomo decadrà. Cosicché, sostiene la meccanica quantistica, il felino se ne sta chiuso nella scatola nera, invisibile ai vostri occhi, in una sovrapposizione dei due stati possibili di vita e di morte finché non effettuate una misura e lo osservate. Fino a quando nessuno lo osserva, il gatto è ‘vivo e morto’, nel medesimo tempo. Solo quando aprite la scatola nera e cercate di osservarlo, il gatto si ritroverà in uno solo degli stati possibili, e sarà o vivo o morto.
Questa condizione è assurda, sostiene Schrödinger, sia perché il gatto detiene simultaneamente e per un tempo indefinito due ‘proprietà incompatibili’, come la vita e la morte, sia perché non solo lo stato quantico di un fotone, ma persino la vita del gatto macroscopico dipendono da un osservatore. Anzi, dall’atto stesso dell’osservazione. Dalla misura. E noi sappiamo che nel mondo reale un gatto morto non può tornare a vivere solo perché qualcuno inizia a rimirarlo. In conclusione, sostiene il fisico austriaco, se la meccanica quantistica porta a simili paradossi insostenibili c’è qualcosa che non funziona. Quindi la meccanica quantistica deve rivedere i fondamenti che la conducono in questi vicoli dell’assurdo. In particolare, deve rivedere il ruolo che assegna alla misurazione e all’osservatore. Ma non tutti i fisici si lasciano irretire da questa apparente e irrimediabile assurdità. John von Neumann, nel suo libro sui Fondamenti matematici della meccanica quantistica (1932), non ha difficoltà a indicare nell’operazione di misura l’atto centrale della vicenda quantistica. Per l’intera scuola di Copenaghen non è affatto assurdo che sia l’osservatore a detenere le chiavi della ‘realtà’, persino della vita e della morte, del mondo dei quanti. «La critica più forte che muovo a von Neumann – dirà il filosofo Karl Popper – riguarda proprio il ruolo che egli assegna all’osservatore. La teoria proposta nel suo libro, che ha influenzato non poco Niels Bohr, non è realistica. Secondo loro la realtà fisica è solo una costruzione mentale. Il risultato delle nostre misure. E questo non ha assolutamente senso. Chi ha vissuto la tragedia di Hiroshima e Nagasaki ha potuto constatare che le due città sono state davvero distrutte. La loro distruzione è stata il risultato di effetti quantistici. Non della loro misura». Di avviso opposto è Eugene Paul Wigner. Il fisico ungherese si dice convinto che solo l’operazione di misura sia in grado di far collassare la funzione d’onda e di far ‘vivere o morire’ il gatto di Schrödinger. Ma è anche persuaso che quell’operazione di misura non sia affatto un’impresa banale, alla portata di tutti. La misura non può essere effettuata da qualsivoglia osservatore, ma solo da uno ‘speciale’. Un osservatore dotato di coscienza. Wigner sostiene in buona sostanza che la realtà cosmica esiste nella sua forma attuale non in assoluto, ma perché c’è un essere dotato di coscienza, l’uomo, a osservarlo. È l’uomo, con le sue misure coscienti, che crea la realtà. Certo, il gatto di Schrödinger e il suo ‘assurdo’ comportamento sono solo un paradosso. Uno dei tanti che accompagnano il dibattito sui fondamenti della meccanica quantistica. E l’idea di Wigner è soltanto un paradosso portato all’estremo. In realtà, un fisico riesce pure ad immaginare come un elettrone, un fotone, o un qualsiasi altro dei tanti corpuscoli-onda che popolano il microcosmo, possa avere nel medesimo tempo una serie di ‘proprietà incompatibili’ nel nostro mondo quotidiano. Ma neppure i più creduloni tra noi potranno mai accettare l’idea che il nostro gatto di casa si comporti come quello di Schrödinger e sia ‘vivo e morto’ quando nessuno lo osserva. Nel macrocosmo, nel mondo delle nostre esperienze quotidiane, qualsiasi gatto, anche quello di un fisico quantistico, ‘o è vivo o è morto’. Non è mai ‘vivo e morto’. Niente e nessuno, neppure un gatto, può avere simultaneamente due ‘proprietà incompatibili’. Dov’è allora l’errore? Perché c’è un salto logico tra micro e macro? È per rispondere a questi tre punti critici che l’‘ala realista’ reagisce e cerca di elaborare una spiegazione alternativa alla meccanica quantistica secondo l’‘interpretazione di Copenaghen’. Vi riesce David Bohm, che nel 1952 mette a punto un formalismo più deterministico – oggi noto come ‘interpretazione di Bohm’ della meccanica quantistica o ‘teoria delle variabili nascoste’ – sulla base della cosiddetta ‘onda pilota’ di Louis De Broglie. Nel nuovo formalismo di Bohm la questione della misura non è più così centrale. Nella ‘teoria delle variabili nascoste’ di Bohm la realtà quantistica è indipendente dalla misura.

La ‘diseguaglianza di Bell’
Cerchiamo, ora, di riassumere il dibattito sui fondamenti della meccanica quantistica. A partire dagli anni ’50 esistono due teorie alternative per spiegare il mondo dei quanti. Una, probabilistica, è quella proposta dalla ‘scuola di Copenaghen’. L’altra, deterministica, è la ‘teoria delle variabili nascoste’ proposta da David Bohm. La prima è la più accettata dai fisici. Perché ha un enorme successo pratico: si è rivelata la teoria più precisa della fisica. Tuttavia, è molto lontana dal senso comune e, secondo alcuni, logicamente contraddittoria, perché spesso porta a paradossi logici. L’altra teoria, quella di David Bohm, è meno accettata dai fisici. Eppure essa descrive con la medesima efficacia dell’altra teoria il mondo dei quanti, recuperando la causalità rigorosa e, soprattutto, eliminando la necessità dell’osservatore per dare corpo alla realtà quantistica. La teoria di Bohm, tuttavia, deve essere ancora esplorata nelle sue conseguenze logiche. Entrambe le teorie, quella probabilistica e quella deterministica, hanno un problema da risolvere: l’aporia micro-macro. Gli oggetti del mondo quantistico, sia nella teoria di Copenaghen sia in quella di Bohm, hanno un comportamento diverso dagli oggetti del mondo macroscopico. E poiché non c’è una soglia, né fisica né logica, che separa il micro dal macro, c’è bisogno di spiegare questa aporia. La situazione è certo confusa. E, per certi versi, ha ben ragione Karl Popper a parlare del «gran pasticcio dei quanti». Almeno fino a quando il fisico irlandese John Stewart Bell, a metà degli anni ’60, non porta un minimo di chiarezza. Con un teorema di impossibilità destinato a diventare famoso come la ‘diseguaglianza di Bell’ e ritenuto come uno dei più grandi contributi di ogni tempo alla teoria quantistica. John Stewart Bell è rimasto colpito, in senso favorevole, dalla teoria di Bohm. La teoria «rende conto completamente di tutti i fenomeni quantistici» ed è deterministica e «realista», nel senso che elimina del tutto il ruolo e la necessità dell’osservatore nel mondo dei quanti. «Allora – si chiede – cos’è che non va in essa?». Cosa non funzioni nella ‘teoria delle variabili nascoste’, Bell lo scopre nel 1963: è una teoria non-locale. O, detta in altri termini, annulla lo spazio. Perché eventi che si verificano in un certo punto dello spazio, ad esempio qui sulla Terra, possono avere conseguenze immediate nella più remota delle galassie. Insomma, reintroduce nella fisica quell’azione istantanea a distanza che la relatività di Einstein aveva escluso.
In definitiva, Bell ritrova nella ‘teoria delle variabili nascoste’ di Bohm il medesimo carattere di non-località che nel 1935 Albert Einstein, Boris Podolsky e Nathan Rosen avevano ravvisato nella teoria probabilistica di Born e Bohr. A questo punto si chiede se la natura «non stia cercando di dire qualcosa». E se quello della località non sia il problema centrale della fisica quantistica. Così nel 1964 elabora (e nel 1971 aggiorna) il suo teorema. Egli dimostra che non è possibile, in linea di principio, spiegare i fenomeni quantistici in ambito locale. Detto in altro modo, che non è possibile elaborare una ‘teoria locale delle variabili nascoste’. L’unico tipo di ‘realismo’ compatibile col mondo dei quanti è quello che accetta la non-località e, quindi, l’azione a distanza. Qualcuno ha affermato che, col suo teorema, Bell ha definitivamente dimostrato che Einstein aveva torto. In realtà, Bell ha dimostrato solo che Einstein non poteva avere completamente ragione. Il teorema di Bell, infatti, non esclude affatto una descrizione deterministica e realistica del mondo dei quanti. Richiede ‘solo’ che questa descrizione sia ‘non-locale’. Non esiste un oggetto quantistico isolato con proprietà definite. Esistono soltanto sistemi quantistici dove i singoli oggetti hanno perduto completamente la loro individualità. Solo il sistema possiede una proprietà. Ma anche accettare ‘solo’ gli entanglements, la correlazione, tra gli oggetti quantistici e l’ordine olistico non è facile, per un realista affezionato all’idea di separabilità. «Questo carattere della meccanica quantistica – commenta Erwin Schrödinger – è di una importanza sinistra». Il fatto è che il modo normale con cui accadono le cose nel nostro mondo (macroscopico) è conforme all’azione locale e del tutto contraria ai risultati di Bell. «Prima di rinunciare a un principio intuitivamente così soddisfacente come quello dell’azione locale bisogna riesaminare l’intera situazione in maniera molto più esauriente e approfondita di quanto non sia stato fatto finora», scrive Karl Popper. Anche se, avverte, i due principi del realismo e della località sono del tutto diversi. Occorre attendere ulteriori conferme prima di accettare la fine del localismo. Ma, in ogni caso, sostiene Popper, il realismo e l’indipendenza della realtà dalla misura possono convivere benissimo anche con l’azione a distanza: «Penso, a differenza di Abner Shimony, che non ci sia la benché minima ragione che il realismo venga intaccato da questi nuovi esperimenti, anche se il loro risultato dovesse mostrare che la località è insostenibile». Ma, che lo si accetti o no, il teorema di Bell ha avuto una clamorosa conferma di natura sperimentale nel 1982, a opera del francese Alain Aspect. Il quale, misurando la polarizzazione dei fotoni in un sistema quantistico, ha rilevato la violazione delle diseguaglianze di Bell in pieno accordo con le previsioni della meccanica quantistica e ha mostrato la non separabilità, la correlazione o, se si vuole, un’azione a distanza tra i fotoni del sistema. Negli ultimi anni le osservazioni di Aspect sono state più volte ripetute e sempre confermate.
Dopo John Stewart Bell (e Alain Aspect) diventa finalmente chiaro che la fisica quantistica pretende una modifica sostanziale della nostra visione del mondo: la non separabilità dei sistemi quantistici, la correlazione olistica, l’azione a distanza. Non è un prezzo da poco. Anzi, è un prezzo che, secondo alcuni (Karl Popper, ad esempio), mette in contraddizione la fisica quantistica con la relatività ristretta: l’azione a distanza viola il principio secondo cui nulla nel nostro mondo può superare la velocità della luce. In realtà, è possibile dimostrare che, anche in un sistema quantistico correlato, nessuno può trasmettere informazioni con una velocità superiore a quella della luce. E ciò, sostiene ad esempio Abner Shimony, rende almeno pacifica la coesistenza tra la struttura dello spazio-tempo della relatività ristretta e la non-località della meccanica quantistica.

Il problema micro-macro
Resta aperto il problema dell’aporia tra la realtà non-locale del mondo microscopico e la realtà locale del mondo macroscopico. Dove nasce questa aporia? Perché un vero gatto, fuori dalla metafora di Schrödinger, si trova sempre in un unico stato? Perché è sempre ‘o vivo o morto’? Perché è in un punto ben localizzato anche se non c’è nessuno a guardarlo? «Finora alla domanda tutti hanno sempre risposto: perché i gatti veri sono macroscopici», nota John Stewart Bell. Cioè in modo elusivo. La verità è che non sappiamo rispondere a questa cruciale domanda. Anche se ci sono molte ipotesi in campo.
Una di queste ipotesi è il ‘modello di riduzione dinamica’ proposto nel 1985 dagli italiani Gian Carlo Ghirardi, Alberto Rimini e Tullio Weber. Il modello, matematico, si basa sull’idea che, per venire a capo della metafora di Schrödinger, occorra modificare la dinamica di Schrödinger. L’evoluzione della funzione d’onda, infatti, non è (non sarebbe) lineare, come prevede la nota equazione proposta dal fisico austriaco, ma è soggetta all’influenza di effetti di tipo statistico. In altri termini, la funzione d’onda è soggetta, in tempi del tutto casuali, «a processi spontanei che corrispondono alla localizzazione nello spazio dei microcostituenti di ogni sistema fisico». La frequenza di questi processi è molto piccola a livello atomico, per cui la localizzazione di una singola particella quantistica resta indefinita. Nulla cambia, cioè, nella sovrapposizione degli stati in cui si trova un singolo elettrone ‘non osservato’, cioè non perturbato. Se un gatto quantistico fosse composto da una particella, sarebbe davvero ‘vivo e morto’ contemporaneamente quando non c’è nessuno a osservarlo. La frequenza del meccanismo di localizzazione di Ghirardi, Rimini e Weber aumenta però col numero dei costituenti di un sistema fisico. Un gatto vero è costituito da un numero molto alto di particelle quantistiche. La loro frequenza di localizzazione è elevatissima. Cosicché la sovrapposizione degli stati quantistici del ‘sistema gatto’ è virtualmente soppressa anche quando l’animale non è perturbato, cioè osservato. O meglio, come nota Bell, il gatto di Schrödinger «non riesce ad essere simultaneamente vivo e morto che per una esilissima scheggia di secondo». Anche se per la nostra mente l’idea di quell’esilissimo attimo in cui vita e morte convivono e l’idea che la ‘capacità reificatrice della misura’ diventi solo altamente improbabile nei sistemi con un numero sufficientemente di particelle restano inafferrabili quanto l’universo infinito.

multiverso

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