MISURA

È abbastanza noto che la misura conta.
Non voglio dire che conta davvero (a meno di essere al di qua o al di là della coda), ma che si pensa che conta, e questo conta. È sicuro che conta per chi si interroga se la sua misura è giusta (e il primo passo dell’ansia da prestazione nasce da qui) o per chi si chiede se questa misura sarà giudicata congrua da altra persona interessata (e qui c’è il secondo passo). Sulla misura si favoleggia, ci sono pregiudizi razziali ed etnici, e anche pregiudizi legati ad altre misure. Insomma, se la misura diviene un’ossessione è un brutto inizio. Eppure una misura che si apparenta un po’ a quella cui abbiamo voluto alludere è alla base della progettazione degli edifici, anche da molto prima che Le Corbusier mostrasse che l’uomo (in senso proprio) è la ‘misura di tutte le case’, inventando il Modulor. In fin dei conti, l’urbanistica nasce con una giusta voglia di misurare. I metri quadri per persona, la quantità di luce disponibile sono misure indispensabili per progettare gli spazi necessari alla vita sana, per pensare agli standards abitativi, più in là per pensare all’Existenzminimum. Inoltre, per pianificare sono sempre servite molte misure, imponenti quantità di dati, ma anche indici, indicatori, standards; e poi modelli, modelli sempre più grandi, a scala sempre più larga, per inferire dalle misure attuali misure future. Anche se l’ossessione per i numeri poteva far dire: «Un paese progressista deve conoscere il numero delle sue pulci, divise per sesso, gruppi d’età, anno e stagione» (Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, 1932). E persino se l’ossessione per i modelli onnicomprensivi è stata una delle cause per cui, assieme all’acqua sporca della pretesa di pianificare tutto e in modo esatto, si sono buttati via molti bambini; in particolare, si è permesso di sostituire alla volontà di governare il territorio, la misura universale della misura del valore fondiario. E non sarà ozioso ricordare che misura è modus in latino, e che da modus viene ‘modulo’ e ‘modello’.
E nel frattempo era tutta la terra a essere misurata. In piena Rivoluzione francese nasceva il metro, e di lì l’idea di sistema di misura universale, i pesi e le misure.
Anche il tempo, un’entità che scorre, poteva essere afferrato, dominato e servire a misurare la posizione (come mostra la triste storia del povero John Harrison che inventò un cronometro che serviva a misurare la longitudine e che, essendo plebeo, si vide derubato della sua invenzione, non ottenendo ‘misura per misura’).
Nel misurare la terra, di una sfera vera si trattava, ché se si adoperano sfere ‘matematiche’ la misurabilità diventa più complicata e paradossale (anche se si può immaginare che duplicare sfere d’oro utilizzando il paradosso di Banach-Tarski sia un modo interessante di far soldi) sulla base del fatto che: ‘nessuna misura con ragionevoli proprietà può misurare tutto’, e che la misurabilità intesa come possibilità di misurare sta a monte della definizione della ‘funzione misura’.
E a misurare si dedicarono i nuovi uomini di scienza, risalendo fiumi e scalando montagne, prendendo misure nelle campagne, nei deserti, nelle giungle. Pazzi esploratori con l’ansia di capire e di misurare; e prima ancora di classificare, una straordinaria mania che voleva, con quella delle misure, mettere ordine nel mondo. E già Don Giovanni aveva, secondo Mozart e Da Ponte, un catalogo per rappresentare la sua potenza: «In Italia seicento e quaranta; in Almagna duecento e trentuna; cento in Francia, in Turchia novantuna; ma in Ispagna son già mille e tre. V’han fra queste contadine, cameriere, cittadine, v’han contesse, baronesse, marchesine, principesse».
Una misura anche dell’uomo, del suo corpo come misura della sua anima: la frenologia e la fisiognomica hanno goduto a lungo dello statuto di discipline scientifiche (sicuramente Cesare Lombroso avrebbe avuto un h-index impressionante) e sono risultate persino utili per la tecnologia (il bertillonage funzionava per l’identificazione, anche se fu presto reso un po’ obsoleto dall’uso delle impronte digitali. Cesare Lombroso, Alphonse Bertillon e pure il grande statistico sir Francis Galton non esitarono a piegare la misura ai loro pregiudizi ideologici, così Bertillon per giustificare la responsabilità di Alfred Dreyfus a dispetto dei fatti, e sir Galton manipolando un po’ i risultati dei suoi studi sui gemelli per giustificare l’eugenetica. En passant bisogna dire che l’eugenetica piaceva abbastanza anche a sinistra, come dimostra l’esperienza dei socialdemocratici svedesi e quella personale dei coniugi Myrdal: una conferma, se mai servisse, che non vale la legge della ‘retroattività dei principi morali’ (per fare un piccolo, ma non inutile détour: non c’è dubbio che Thomas Jefferson fosse razzista e Voltaire antisemita; sappiamo poi che Karl Marx metteva incinta la serva e si faceva ‘coprire’ da Friedrich Engels per evitare il biasimo sociale ‘borghese’; Albert Einstein sfruttava le mogli e ha abbandonato una figlia; George Simenon e John F. Kennedy si facevano portare qualche prostituta ogni giorno; e difficilmente Lewis Carrol potrebbe sfuggire oggigiorno ad un’accusa di pedofilia. Del resto ‘nessun uomo è un grand’uomo per il suo maggiordomo’, e in generale, come diceva Woody Allen, «nessuno potrebbe scommettere sullo stato delle proprie mutande»).
Con il grande sir Galton (che non è meno grande come statistico perché era un sostenitore convinto e radicale della selezione forzata della specie umana; così come il Céline delle pulci non è scrittore meno grande nonostante il suo feroce antisemitismo) e con Alfred Binet inizia poi l’avventura di misurare direttamente l’anima, o meglio l’intelligenza, con le molte tecniche per calcolare questa ineffabile essenza umana; i cosiddetti test per l’IQ costruiscono un’entità nel momento stesso in cui la misurano (una costruzione scientifica analoga a quella sociale; per citare Simone de Beauvoir, «non si nasce donne, si diventa»).
C’è stata, insomma, un’epoca con le sue colpe e i suoi meriti, in cui si è passati dal «mondo del pressappoco all’universo della precisione» (Alexander Koyré) e – tutto sommato – non è stato (solo o soprattutto) un male. Il male non sta nel misurare, può stare nell’usare le misure al posto della valutazione e della scelta. Si può fare della misura la base di una filosofia o di un approccio alla vita. Con Orazio (porcellino del gregge) si potrebbe dire in una versione moderata dell’epicureismo: «C’è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta» («Est modus in rebus, sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectus»). Ma chi dice qual è la giusta misura, dove si trova l’aurea mediocritas? Si può fare della misura il feticcio per dare una risposta apparentemente oggettiva, ma in realtà forsennatamente ideologica ai molti problemi di identità e di ruolo della scuola e dell’università, come la cosiddetta ‘cultura della valutazione’ (sic!).
Da professore universitario, da professore di urbanistica, da direttore di un Dipartimento di Architettura non posso trattenermi dal dire la mia, su questo punto. Intanto, non si capisce perché mai un docente (dal latino docere, ovvero ‘insegnare’) dovrebbe essere valutato solo per come ricerca e non per come insegna (e, perché no, per come coopera alla gestione della sua istituzione): mi è capitato di scrivere che la valutazione non è mai una mera misurazione (numero di pubblicazioni, numero di citazioni, livello della rivista; gradimento da parte degli studenti o numero di ore di insegnamento; numero di incarichi organizzativi; numero di convenzioni o conto-terzi), anche se alcuni dati, alcuni indici, alcuni indicatori aiutano.
La valutazione ha bisogno senz’altro di qualche criterio oggettivo, ma quale? E qui potrebbero far paura alcuni dati: nel 2010, secondo il calcolo di The SCImago Journal & Country Rank (SJR), l’Italia era all’ottavo posto nel mondo per numero di articoli con una media di 1,72 citazioni per articolo; nel 1996, primo anno della rilevazione, era al settimo posto (nel frattempo ha fatto irruzione la Cina, che ha conquistato il secondo posto, ma che nel 2010 aveva una media di 0,67 citazioni per articolo prodotto), ma con una media di 18,32 citazioni per articolo; nel 2010 erano presi in considerazione 73.562 articoli italiani (di cui 67.459 citabili) e nel 1996 ce n’erano 36.847 (di cui 35.685 citabili). Da queste misure si dovrebbe desumere che l’obiettivo vero è quello di aumentare ancora gli articoli scritti (sono raddoppiati in 15 anni) oppure quello, mettiamola così, di aumentare gli articoli letti (le citazioni per articolo si sono ridotte a meno del 10 per cento di quelli di 15 anni prima)?
Ecco perché misurare serve alla decisione solo se si ragiona sulle misure.
Ripeto, sono molto convinto dell’utilità delle misure, in alcuni casi mettere insieme dei numeri può fornire – se li si sa scegliere e rappresentare – un modo semplice e forte di capire e interpretare. Mi viene in mente la mappa della campagna di Russia di Napoleone proposta da Charles Joseph Minard nel 1861, in cui un insieme di misure descrive e spiega l’esito di quella guerra con una chiarezza di enorme impatto; ma dietro c’era un’interpretazione.
Già: misurare non basta. E a volte non serve: anche per ‘quella’ misura.

multiverso

11