QUASI

Scrive nel 1931 il grande intellettuale Walter Benjamin: «La natura che parla all’occhio è diversa dalla natura che parla alla macchina fotografica»; nel 1979 l’artista e teorico Franco Vaccari prosegue: «Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui»; e ancora, il filosofo Vilém Flusser nel 1983 afferma: «La macchina fotografica fa ciò che il fotografo vuole che faccia, sebbene il fotografo non sappia che cosa succede dentro la scatola nera».

Sono punti di vista teorici che hanno illuminato la nostra comprensione del mezzo fotografico. In momenti storici diversi, essi hanno sottolineato l’autonomia della visione messa in atto dall’apparato tecnico stesso rispetto alle decisioni del fotografo e hanno posto l’attenzione sul fatto che la fotografia non è, come è stato creduto, un coerente prolungamento dello sguardo umano, ma una visione altra, inedita, che ha a che vedere con la dimensione dell’inconscio, molto diversa da quella della consapevolezza e del controllo cosciente: una dimensione che l’intenzionalità non può dominare. A ogni atto fotografico, un nuovo mondo si svela: un mondo che è simile a quello che il fotografo può istintivamente desiderare di rappresentare, può progettare di cogliere, può voler raccontare, ma che nella sua vera sostanza egli può solo in parte prevedere e governare, poiché si esprime compiutamente in un modo per molti aspetti inaspettato e capace di rendere l’immagine nata da quell’atto qualcosa che solo in parte, o per nulla, rispecchia la visione umana.

L’avverbio quasi significa all’incirca, approssimativamente, pressappoco, più o meno. Sembra perfetto per indicare il gap esistente tra visione umana e visione della macchina.

Decontestualizzazione di un manifesto pubblicitario, la ricerca che Davide Scaramuzza conduce dal 2022 in modo continuativo, si può dire quotidiano, in un certo senso rituale, si basa su un insistente lavoro di scavo dentro manifesti pubblicitari incontrati dall’autore nelle sue giornate, nella sua vita, lungo le strade. L’estremo avvicinamento fotografico alle figure, agli oggetti, agli spazi, ai colori, alle forme presenti nei manifesti, ne disperde il senso, li annienta nel loro significato originario, ne distrugge totalmente la funzione. Le inquadrature racchiudono forme e colori che non possono neppure essere definiti dettagli: sono meno di dettagli, sono frammenti. La caratteristica dei manifesti, ingombranti protagonisti del nostro mondo del tutto mercificato, è quella dell’evidenza, talvolta sfacciata, la loro forza quella di imporsi all’attenzione, colpire, attrarre, sedurre (chissà se in un mondo complesso come l’abbiamo costruito essi riescono ancora a fare questo), ingannare, proprio in virtù della facilità di approccio che impongono e della loro aggressività visiva. Nelle immagini di Scaramuzza, all’opposto, non troviamo che vaghe sembianze, come apparizioni, forme sfumate, solo accennate, colori che non appartengono a precisi oggetti ma sembrano nati da sé stessi, sinuosità e cavità di luoghi o corpi immaginari, specie di drappeggi, ipotesi di eventuali paesaggi di collina, di mare, di cielo (cose plausibili che vediamo semplicemente per il nostro bisogno di verosimiglianza, per la nostra paura di non capire, di non identificare ciò che è davanti ai nostri occhi). Ciò che vediamo in realtà è qualcosa di non chiaro, che rasenta il possibile, che ricorda più o meno qualcosa, ma che, in fondo, non è nulla. Vivono nel mondo del quasi. Soprattutto, queste immagini non hanno più nulla a che vedere con dei manifesti pubblicitari. Ciò che la macchina ha registrato non è ciò che vedono i nostri occhi, ora, e non è ciò che vedeva il fotografo mentre agiva, fotografando mentre camminava nei suoi pensieri, verso la sua meta di quel giorno. Come indagando il profondo della nostra interiorità non sarà mai del tutto possibile capire che cosa troveremo, così se scaviamo dentro le immagini, se chiediamo alla macchina di guardare cose minime da vicino, questa ci avvicinerà alla materia, alle sparse forme, entrerà nei colori, ma ci farà perdere per sempre di vista il contesto, il senso originario, proiettandoci verso altri mondi, verso significati altri difficili da raggiungere, sotto il dominio del caso, dell’arbitrio, del generico, del quasi.

DAVIDE SCARAMUZZA

multiverso

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