QUASI
Due voci per una epistemologia del quasi: Federigo Enriques e Gaston Bachelard
di Mario Castellana
In genere, il ‘quasi’, pur occupando uno spazio non secondario nei meandri della nostra vita che è comunque un ‘garbuglio’, a dirla con Pascal, non ha ricevuto una adeguata attenzione critica nei percorsi di pensiero che faticosamente abbiamo messo in essere nel corso della storia; si potrebbe dire che in tale sede il ‘quasi’ sia stato in modo costante rimosso in nome di quelli che Freud chiamava ‘deliri della coerenza’, tesi a stabilire le regole di una certa razionalità che in quanto presunta tale lo aborriva, come quella messa in piedi in particolar modo dalla seconda Modernità di stampo cartesiano nel senso avanzato da Stephen Toulmin. Ma quando su un reale ‘si mente’ – come ci avvertiva con la sua solita lucidità razionale Simone Weil – prima o poi esso ‘si vendica’ in quanto riappare sotto altre vesti facendo crollare quel poco di certezze da noi con fatica conquistate; e il ‘quasi’ non a caso si fa vivo e si riprende il suo posto quando si convive in modo strutturale con l’incerto, l’ignoto, l’imprevedibile, processo questo frutto anche se tardivo della presa di coscienza critica delle diverse ragioni del reale non più riducibili a punti di vista unilaterali. E dato che anche nel regno delle scienze oggi più che mai, dove a dirla con Mauro Ceruti «è necessario negoziare con l’incerto», il ‘quasi’, da essere ai margini di quel tipo di razionalità impostosi, sta diventando strategico in quanto è un passo decisivo per varcare la soglia della complessità e ‘abitarlo’ nei vari contesti, sia cognitivi che esistenziali, che ci porta nelle diverse pieghe. In tal modo ci si può immunizzare dalle pretese totalizzanti di una ragione ‘paradisiaca’ e ‘babilonese’, per usare ancora delle significative espressioni di Weil, che impone un certo modello, per lo più formale e strumentale, e porta a mettere da parte per sua natura le contraddizioni, gli scarti e le sofferenze con tutte le loro poste in gioco a base della ‘creatività umana’, a dirla con Karl Popper del Proscritto alla Logica della scoperta scientifica. E da tali pretese normative, col non dare il dovuto spazio concettuale al ‘quasi’, non è stata esente la stessa filosofia della scienza o epistemologia – pur nata per dar conto delle diverse ragioni dell’universo scientifico – ai suoi inizi che di solito vengono fatti coincidere con l’affermarsi negli anni Trenta del Novecento di quel prolifico filone rappresentato dalla ricca e non omogenea letteratura confluita nella cosiddetta standard wiew; ma trovano il loro plafond negli intensi dibattiti avvenuti nella cultura europea con la critique des sciences tra i due secoli, che hanno permesso tra le altre cose, pur nella diversità delle posizioni, di farla diventare una disciplina autonoma e patrimonio del pensiero più in generale. Anzi, leggendo una delle opere fondanti tale disciplina, o meglio di quella tendenza che ivi si è imposta, come La costruzione logica del mondo di Rudolf Carnap del 1928 e gli scritti di altri protagonisti del neoempirismo logico, può sembrare che essa, filosofia della scienza, sia nata con l’obiettivo primario, pur teso all’‘unità della scienza’, obiettivo in comune con altre tradizioni di ricerca, di sconfiggere sul terreno teoretico, attraverso l’indispensabile strumento della logica, ogni idea di conoscenza basata sul ‘quasi’ inteso come incerto, privo di coerenza, approssimato e vago e quindi fuori dal contesto della ‘logica della scienza’. Le teorie e con esse le forme di conoscenza con i loro risultati finali sono ritenute provviste di un adeguato senso epistemico solo se prese come ‘sistemi ordinati delle proposizioni ed espressioni scientifiche’; non a caso uno dei padri della disciplina, come Moritz Schlick, fu il promotore della cosiddetta ‘svolta’ linguistica nel portare a termine quella che, sul finire degli anni Cinquanta, Ludovico Geymonat in Filosofia e filosofia della scienza chiamerà ‘rivoluzione convenzionalista’, sorta comunque per liberare l’immagine della conoscenza scientifica da ogni forma di essenzialismo e per far fronte alla pluralità dei punti di vista emergenti in essa dentro ogni stesso ambito di indagine.
Eppure, nello stesso 1928 e in un’altra tradizione di ricerca epistemologica come quella francofona – impegnata sin dalla stagione cartesiana a ridefinire i contorni concettuali di quella che veniva chiamata philosophie mathématique con la decisa presa in carico delle implicazioni apportate dalle geometrie non-euclidee e dai primi risultati negativi di Henri Poincaré – appare un primo testo di Gaston Bachelard, Essai sur la connaissance approchée; tale opera non a caso è portatrice di una diversa atmosfera concettuale in quanto tutta incentrata sull’elogio dell’approssimazione: «l’approssimazione è l’oggettivazione incompiuta. La rettificazione è una realtà o, meglio, è una vera e propria realtà epistemologica in quanto è il pensiero stesso in atto nel suo dinamismo profondo». Tutto ciò costituisce le basi di un processo veritativo cosciente sia della sua strutturale insufficienza sia del suo progresso, e si presenta come un percorso teso a rendere una idea, come quella di approssimazione per molto tempo espulsa dai binari che portano all’oggettività, vera e propria categoria di pensiero e ritenuta condizione primaria dell’essere stesso della scienza. E in tale accezione approchée è sinonimo di ‘quasi’ e sta a indicare la strutturale incompiutezza o ouverture di fondo che caratterizza ogni singola teoria per i continui e conseguenti processi di ‘rettificazione’ messi in atto nella storia di ogni scienza; ogni passo compiuto, pur in presenza di inevitabili errori, è un passo verso qualcosa di diverso ed il ‘quasi’ ivi implicito è frutto di quella tensione essenziale, in termini kuhniani, verso il novum che viene così a modificare il già acquisito e a ‘riorganizzarlo’ concettualmente grazie alla capacità di dire un deciso ‘no’ al passato, come verrà ribadito in un’altra opera del 1940 dal significativo titolo La philosophie du non. Tale opera si potrebbe rinominare ‘la filosofia del quasi’, dove è in atto quella che viene chiamata synthèse transformante, dove l’ultima teoria messa in campo raccoglie e passa in rassegna tutti i ‘quasi’ ereditati, li rielabora, li ‘rettifica’, li trasforma cambiandoli a volte in modo radicale col dare loro un nuovo senso epistemico con l’approdare a sua volta a un altro ‘quasi’. E ogni percorso di filosofia della scienza o lavoro storico-epistemologico, nel prendere in esame le trasformazioni dei singoli ‘profili’, come vengono chiamati da Gaston Bachelard, dei concetti scientifici col loro specifico portato di un ‘quasi’, ha il compito di fare emergere tale dimensione come una loro strutturale ‘anima’, per usare una significativa espressione di Schlick presente in Teoria generale della conoscenza del 1918. E così i singoli capitoli di tale prima opera si possono leggere come il progressivo ingresso del ‘quasi’, preso appunto come approché, per il portato di ulteriori possibilità dentro lo stesso ‘granitico impero delle matematiche’ che sembrava impermeabile alla storia, a dirla con Hermann Weyl; ed esso non viene visto, pertanto, come una ‘patologia della verità matematica’, per usare una nota metafora di quel gruppo di matematici riunitisi sotto il nome di Nicolas Bourbaki a proposito dei lavori di Riemann. Nelle opere successive viene esteso in modo programmatico come una chiave ermeneutica, per capirne meglio i cambiamenti di fondo, ai lavori di Dmitrij Mendeleieff e poi allo stesso pensiero fisico in seguito a una particolare lettura della relatività generale e del più sofisticato apparato matematico della nascente meccanica quantistica e di quello di Paul Dirac in particolar modo; il mettersi da parte di Bachelard, sulla scia di quella che chiamava vera e propria schola quantorum, lo ha portato a leggerne la portata epistemica implicita con altri strumenti e con un lessico anche diverso da porlo negli anni Trenta-Quaranta fuori dal circuito impostosi con la filosofia della scienza standard. E tutto questo è stato il frutto dell’attenzione accordata al quasi/approché che, nell’introduzione a Le nouvel esprit scientifiquedel 1934, viene assumere decisamente la fisionomia concettuale del complesso, tale da far dire non a caso ad Edgar Morin prima nel 1985 che Bachelard è stato l’unico filosofo della scienza del primo Novecento ad arrivarci e poi a considerarlo ‘uno dei suoi dieci filosofi’.
Ma è da tenere presente che Gaston Bachelard riprende e sviluppa quella che si può considerare a sua volta una prima decisa tappa verso questa presa in carico in sede epistemica del quasi/approché avanzata da Federigo Enriques in Scienza e razionalismo del 1912; in essa, il matematico ed epistemologo italiano, in seguito al confronto critico con quelli che vengono chiamati ‘geometri-pensatori’ nei Problemi della scienza del 1906 come Riemann, Helmholtz, Grassmann, Klein e Poincaré e con lo stesso Ernst Mach, scrive: «il valore obiettivo della razionalità del sapere consiste in ciò che il processo della Scienza è un processo di approssimazioni successive illimitatamente proseguibile». Nello stesso tempo, con l’obiettivo di cogliere ‘il valore della scienza’ contro i vari ignorabimus dell’epoca e di combattere la nascente ‘reazione idealistica’ contro di essa, Enriques la prende in carica come autentica impresa cognitiva dove la messa in campo dell’idea di approssimazione porta a coglierne un’altra e non secondaria specifica ‘anima’, quella storica ritenuta fondante, tale da parlare in seguito di una ‘epistemologia dai fondamenti storici’; e in tal modo, come poi Bachelard, grazie al ruolo assegnato al quasi/approché, allontana da essa l’idea, considerata sino ad allora negativa, di imperfezione o inachèvement, visti invece come fattori determinanti per arrivare, come dirà in Per la storia della logica del 1922, al ‘più vero’ e in ambito matematico al ‘più rigoroso’, in quanto non esiste il ‘vero’ o il ‘rigoroso’ in assoluto, ma dei processi verso il vero e il rigoroso: «la scienza appare ad ogni momento imperfetta in ogni sua parte, processo che si sviluppa correggendo ed integrando se stesso e non sistemazione di acquisti immutabili, che si aggiungono semplicemente gli uni agli altri». E il ‘più’ in Enriques viene a giocare il ruolo del ‘quasi’, anzi si potrebbe dire senza nessuna esagerazione, che esso dia voce al ‘quasi’ o sia il suo specifico grido per liberarlo dalle prigioni di una certa razionalità epistemica e dargli il dovuto spazio dentro le non lineari vicende della ragione scientifica, fatta di molti ‘non’, alcuni individuati già negli ultimi capitoli dei Problemi della scienza; in tal modo si fa nascere un vocabolario di termini che in sede epistemica, già a partire dallo stesso termine ‘problemi’, sono invisi alle posizioni normative, vecchie e nuove che siano, in quanto introducono in modo non tanto laterale punti di vista che stanno a indicare la strutturale incompiutezza, la rinuncia sistemica al certo, le delimitazioni del certo e tra le stesse scienze e teorie. In tal modo, si può considerare la stessa storia della scienza un progressivo processo di auto-delimitazioni successive, per parafrasare l’espressione ‘enriquesiana’, dove una scienza, o una teoria al suo interno, nascono delimitando lo spazio concettuale di quelle precedenti e, nel delimitarle, le rafforzano nel loro specifico ambito col permettere così di fare emergere le proprie specificità che non potevano venire a galla con i rispettivi ‘quasi’ se fossero rimaste chiuse nel recinto esistente. Così dei percorsi di epistemologia del quasi forniscono un’ottica decisamente post-positivista e critica delle visioni vetero e nuove neo-empiriste della scienza che il più delle volte giustamente sono emerse ed emergono per combattere le interpretazioni deformanti dei cambiamenti scientifici specialmente di quelli in atto, ma si rivelano in certi casi carenti nel non cogliere il ‘significato’ della loro portata ‘qualitativa’ e delle diverse nuances in essi implicite, per usare delle espressioni sia di Enriques che di Bachelard. Come alcuni protagonisti del nascente neo-empirismo logico daranno alle stampe nel 1928 il noto Manifesto di filosofia scientifica dando così inizio ufficiale all’avventura della filosofia della scienza, i testi di Enriques e di Bachelard, presi insieme, si possono considerare come il corrispettivo ‘Manifesto della filosofia dell’‘approssimazionalismo’, sempre in ambito epistemologico, grazie a una diversa lettura delle complesse vicende storico-concettuali delle matematiche da Bernhard Riemann ai lavori di Hermann Weyl e del loro ruolo nell’ambito del pensiero fisico dei primi decenni del secolo scorso. Per questo si potrebbe dire che il 1928 è ‘l’anno d’oro’ della filosofia della scienza, in analogia con quelli che vengono chiamati dagli storici della scienza ‘anno d’oro’ della matematica a fine Ottocento e ‘anno d’oro’ della fisica nei primi anni del secolo scorso in quanto si è dato l’avvio a due tradizioni di ricerca con obiettivi diversi, dove in quella che diventerà standard il ‘quasi’ è un illustre sconosciuto, mentre nell’altra riceve una dignità epistemica non di poco conto.
E un confronto odierno con queste due voci pionieristiche dell’epistemologia del quasi e, nello stesso tempo del ‘quasi/complesso’, può servire da un lato a non considerare sul terreno storico marginali tali percorsi e, dall’altro, può fornire degli strumenti ermeneutici utili per cogliere meglio il senso epistemico del quasi dovunque esso si annida nelle pieghe più avanzate del pensiero scientifico; e per evitare che riceva una non adeguata attenzione critica, come è successo anche nel recente passato, è necessario attrezzarsi sul terreno storico-metodologico col continuare a forgiare il nostro ‘arsenale ermeneutico-epistemologico’, come lo chiama Dario Antiseri, di categorie di pensiero che gli diano il dovuto spazio e soprattutto siano all’altezza dei suoi diversi enjeux, per usare un significativo termine di Gilles Châtelet, impegnato a sua volta a comprendere la portata veritativa dei diagrammi nel pensiero fisico-matematico da Grassmann a Maxwell e Hamilton e a gettare le basi di un discorso epistemologico decisamente non analitico. Oggi, un punto di vista del genere è da più parti richiesto a gran voce, voce non del tutto ascoltata, e proviene soprattutto da certi ambiti del pensiero biologico dove non caso il ‘quasi’ è più di casa e ha bisogno di un surplus continuo di riflessione per essere individuato in quanto non si limita ad essere una semplice nuance del vivente, ma un momento costitutivo dei suoi non lineari eventi; per questo è più che mai necessario farlo decisamente entrare nel nostro ‘piccolo Pantheon portatile’, per usare il titolo di un’opera di Alain Badiou, nel fare da guida in modo più razionale e non casuale nei vari contesti in cui si opera.