QUASI
Il quasi e la legge: la possibilità di un 'diritto gentile'
di Luigi Gaudino
Nel passato, quando mi chiedevano che mestiere facevo, rispondevo: «ricercatore di diritto privato». Le reazioni più frequenti erano: «Ma cosa ricerca un ricercatore di diritto?»; «Ma come fai? Dev’essere di una noia mortale, passare la vita tra tomi polverosi!»; «Dev’essere difficile imparare tutte quelle leggi a memoria».
Queste domande testimoniavano dell’incomprensione, abbastanza diffusa, su cosa sia il diritto, incomprensione che porta a ritenere che ricercatore sia solo chi si muove tra alambicchi, sincrotroni, combinazioni di sostanze chimiche: fisica, medicina, agraria… ma il diritto?
Il diritto, per i più, coincide con la legge. Una materia statica che muta solo quando il legislatore decide di scriverne una nuova o cancellarne una vecchia. Conoscere il diritto significa perciò conoscere la legge, magari a memoria: cosa c’è da cercare (se non sugli scaffali tra i libri di raccolta delle leggi)? L’altra convinzione, frutto di molti equivoci e insoddisfazioni, è che il diritto sia descrivibile in bianco e nero, senza sfumature: comando/sanzione; ragione/torto. Le insoddisfazioni emergono, in particolare, ogni volta che qualcuno vive un conflitto: ci si attende che la legge – la sua lettura – sia in grado di fornire risultati certi, secondo qualche meccanismo automatico. Chi va dall’avvocato per fare causa al vicino molesto, o perché gli hanno graffiato la macchina, si aspetta di sentir rispondere che ha ragione (al 100%) o, nella peggiore delle ipotesi, che ha torto marcio.
Ciò che non si aspetta è il ‘quasi’, l’approssimazione, la probabilità, il forse. È allora che scopre che quando si tratta di passare dalla legge – quella scritta – alla soluzione di un caso della vita, molti altri sono gli attori che entrano sulla scena (il legislatore, i giudici, gli studiosi e altri ancora): la legge, inevitabilmente, va interpretata. Sgomento, scoprirà che non esiste ‘la’ soluzione ma più soluzioni possibili che dipendono da molte variabili. Si lamenterà del fatto che in un caso simile un altro tribunale di un’altra città aveva deciso diversamente. Magari si lamenterà del nostro sistema fermo agli azzecca-garbugli.
È però sufficiente un giro sul web per trovare, in tutte le lingue, migliaia di barzellette feroci sugli avvocati (soprattutto in inglese: i lawyers USA sono infatti i più bersagliati: «Cos’è nero e marrone e sta davvero bene addosso a un avvocato? Un Doberman»): sintomo evidente che la nostra realtà non è diversa dalle altre.
Le quasi 37.000 sentenze che la Cassazione civile ha emanato nel 2023 (segno che, a spanne, 70.000 contendenti ritenevano di aver ragione, al punto di arrivare sino a Roma) forse non trovano riscontro in altri ordinamenti, ma si tratta solo di un dato quantitativo: le raccolte di giurisprudenza negli USA, in Francia o altrove sono ugualmente ricche. Che le leggi siano interpretabili, che il diritto sia materia in costante evoluzione, che la legge sia solo uno dei formanti che concorrono alla definizione della regola operazionale, è un fatto ovunque inevitabile. Certo, nei casi più semplici il gioco violazione/sanzione sembrerebbe funzionare: anche se le migliaia di ricorsi avverso le contravvenzioni da parte di automobilisti indisciplinati fanno sorgere più di un dubbio. Ma, al di là della sua applicazione, tornando alla legge – quella che il Parlamento approva, il Presidente promulga e la Gazzetta Ufficiale pubblica – resta la convinzione che essa lavori esclusivamente con gli strumenti obbligo/divieto/sanzione: se uccidi vai in galera, se non paghi l’assicurazione dell’auto verrai multato, se causi un danno risarcisci, e così via.
Insomma: l’idea è sempre quella di un diritto ‘duro’, secco, che mira a evitare o a imporre comportamenti sotto minaccia di conseguenze spiacevoli. Per fortuna le cose non stanno così, almeno non sempre e, soprattutto, là dove la complessità e la delicatezza delle situazioni, degli interessi, dei valori, dei diritti in campo non consentono – almeno nelle società di impronta liberale – imposizioni secche, interventi con la mannaia. Da tempo si parla di diritto ‘mite’, o di diritto ‘gentile’ e – soprattutto a livello internazionale – di soft law contrapposta a hard law. Si tratta di concetti fra loro diversi, utilizzati in campi diversi. Ciò che li accomuna è l’idea di creare delle regole non strettamente impositive; regole capaci di adattarsi alle situazioni reali, di evolversi, di spingere verso comportamenti che si ritengono coerenti con determinati valori condivisi (rispetto della persona nelle sue molteplici dimensioni: dignità, libertà, vita, salute…).
Possiamo fare l’esempio dell’art. 2 della nostra Costituzione («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale»).
La formula è abbastanza chiara – quanto agli indirizzi – ed elastica – quanto al suo contenuto – e ha consentito agli interpreti di allargare progressivamente il novero dei ‘diritti inviolabili dell’uomo’, facendo di questo articolo una sorta di ombrello di ampiezza variabile idoneo a offrire protezione a tutti gli interessi la cui emersione ha caratterizzato, nel corso del tempo, la nostra società: dalla riservatezza, all’identità personale, ai rapporti affettivi diversi da quelli rigidamente disciplinati dal codice.
Pensiamo poi ai possibili strumenti – diversi dagli interventi autoritativi – che organizzazioni internazionali, quali la World Health Organization, possono mettere in campo per favorire l’adozione volontaria di determinate misure sanitarie attraverso un’opera di convincimento.
Un esempio di ‘diritto gentile’, costruito in modo da consentire di fare cose buone mediante regole che – se conosciute e applicate – sono in grado di migliorare la condizione di tutte le persone coinvolte, è rappresentato dalla legge 219/2017 (‘Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento’).
Il titolo con cui viene presentata è riduttivo poiché – a leggerla con attenzione – è facile capire che ciò che la legge disegna è un panorama completamente innovativo dei rapporti nel campo della salute, con vantaggi per tutti i soggetti convolti: i pazienti e la loro cerchia affettiva, i medici, gli infermieri e l’intera équipe. Il testo non è lungo e chiunque è in grado di leggerlo in pochi minuti. Però in esso quasi ogni parola e ogni frase hanno un peso specifico in grado di rivoluzionare il rapporto (che la legge definisce ‘di cura e fiducia’) tra pazienti e medici (e tutte le altre persone coinvolte, dall’uno o dall’altro lato). Per esemplificare, proviamo a immaginare una situazione classica e vedere cosa cambia tra l’approccio abitudinario (spesso, ma non sempre, e ovunque diffuso) e quello disegnato dalla legge 219.
Il signor Tizio si è sottoposto a un’indagine diagnostica e si reca dallo specialista per conoscerne gli esiti.
Il medico lo accoglie seduto alla scrivania; ha una certa fretta (la sala d’attesa è gremita). Saluta brevemente il paziente e passa direttamente al punto. Con gli occhi fissi sul referto aperto sullo schermo del PC informa il paziente: «L’analisi ha evidenziato un tumore. Siamo a uno stadio iniziale. Le terapie possibili sono A, B e C. Ognuna ha vantaggi e svantaggi. Io consiglierei A. Se vuole la metto in lista. Ora le stampo i moduli del consenso. Li legge, li firma e ci vediamo tra qualche giorno. Purtroppo oggi non ho molto tempo ma, se ha bisogno di me, mi chiami pure».
Il paziente, in uno stato emotivo probabilmente poco sereno, prende in mano quei fogli e lascia la stanza.
Non sappiamo – e non lo sa nemmeno il medico – chi sia quella persona. Preparazione culturale, valori esistenziali, fragilità emotiva. Vive da solo? Ha una famiglia? Sarà in grado di comprendere cos’è scritto in quei fogli che continua a tenere in mano mentre percorre il corridoio dell’ospedale? Magari firmerà quelle pagine (consenso informato) e si sottoporrà alla terapia A, senza conoscere (a meno della ricerca di un secondo o un terzo parere) se una delle alternative avrebbe potuto offrire esiti più in sintonia con le sue esigenze, i suoi desideri, il suo atteggiamento verso il gioco costi/benefici.
Immaginiamo ora cosa accadrebbe applicando la legge 219. Il medico lascia la sua sedia e fa accomodare il paziente. Sa già cosa dice il referto. Guardando chi ha di fronte cerca di metterlo a proprio agio e gli parla. Cerca di capire, prima di svelare la diagnosi, chi è la persona con cui sta parlando. L’età, la personalità. Si tratta di un ex primario di cardiologia o di un fioraio con poca dimestichezza con il gergo sanitario? L’obiettivo – è la legge che parla – è giungere a fornire un’informazione completa e comprensibile a quella persona su tutto ciò che la riguarda fino, eventualmente e ove il paziente lo voglia, a coinvolgere le persone a lei vicine. Il medico comunicherà l’esito delle analisi, la diagnosi; illustrerà le possibili terapie; consiglierà quella che ritiene più idonea (ammettendo magari che ciò dipende dalla propria maggiore esperienza in una certa tecnica), informerà circa la possibilità di un secondo parere e indirizzerà verso altre strutture. Questo e tanto altro, all’interno di una ‘relazione di cura e fiducia’ che non conduce a una mera firma su fogli prestampati predisposti in ‘medichese’ dagli uffici legali ma è il punto di arrivo di un percorso complesso.
Questo medico si comporta così non tanto – o non solo – per la propria personale sensibilità ed empatia, ma perché – è ancora la legge – sin dall’Università, e poi nel corso della sua vita professionale, è stato formato sui temi della comunicazione.
Non ha fretta, perché l’organizzazione è stata improntata al rispetto della regola secondo la quale ‘il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura’.
Ove poi il paziente dovesse – come suo diritto – rifiutare quanto proposto, il medico non si limiterà a prenderne atto ma chiarirà quali sono le conseguenze di tale decisione e continuerà la sua opera di sostegno, anche attivando i servizi di assistenza psicologica. Nessuno spazio, quindi, per l’abbandono del paziente riottoso.
Può darsi, poi, che la prognosi sia infausta. In questo caso, oltre all’ovvia delicatezza della comunicazione, il sanitario potrà parlare di un altro strumento previsto dalla legge 219: la pianificazione condivisa delle cure. Questa consente di individuare, nel dialogo continuo, le cure più vicine alle esigenze del paziente e rispettose della sua volontà. Cure che possono essere aggiustate finemente man mano che l’esperienza della malattia prosegue, fino a stabilire il da farsi nel momento in cui l’interessato venisse a trovarsi nella condizione di non poter più manifestare direttamente la propria volontà. I suoi desideri verranno rispettati e il dialogo con i sanitari potrà continuare attraverso la nomina di un fiduciario.
Resta da chiedersi per quale ragione i medici, gli infermieri e le strutture (pubbliche e private, precisa a legge) dovrebbe adottare questo modello. Come detto all’inizio, la legge è espressione di un diritto gentile e offre strumenti per fare cose buone. Applicarla sarebbe vantaggioso per i malati e le loro famiglie, per le stesse strutture. I vantaggi riguardano certamente i profili dell’efficacia degli interventi, dell’umanizzazione delle cure, del rispetto della dignità dei malati, delle competenze e dell’autonomia professionale dei medici. Ma non sono i soli: basta immaginare la riduzione di diagnosi e terapie poco utili ed efficaci che una buona relazione è in grado di favorire (evitando gli atteggiamenti difensivi), oppure la riduzione di un contenzioso che spesso è frutto della scarsa comunicazione che crea negli utenti frustrazione e voglia di rivalsa.
La legge non contiene minacce esplicite per chi la ignori. Dov’è il ‘diritto duro’? Perché allora fare la fatica di applicarla?
In realtà sullo sfondo la sanzione non manca. Non informare in maniera piena e comprensibile, non rispettare le volontà, non impostare un corretto rapporto di cura e fiducia costituirebbero violazione dei diritti (vita, salute dignità, autodeterminazione) che la legge pone quali suoi obiettivi. Una violazione che porterebbe a una dichiarazione di responsabilità civile, e al risarcimento del danno non patrimoniale. Ciò chiuderebbe la vicenda con la sconfitta e l’insoddisfazione di tutti. Meglio, molto meglio – come si è cercato di evidenziare in queste pagine – lasciarsi spingere gentilmente a fare le cose buone che la legge 219/2017 immagina.