QUASI

Andrea Lucatello intervista Alessandra Algostino

«Da un legno così storto come quello di cui è fatto l’uomo non si può costruire nulla di completamente diritto». Così Immanuel Kant scriveva sulla nostra impossibilità di raggiungere la perfezione, aggiungendo che «solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura». Questo numero di Multiverso è dedicato a ‘quasi’ e viene da chiedersi che ruolo può darsi il diritto, in quanto scienza sociale, nel processo, di fatto irrealizzabile, di avvicinamento a un possibile orizzonte di giustizia.

Premetterei innanzitutto che il diritto è intrinsecamente ambiguo, o, altrimenti detto, è proteiforme. Il diritto è un fenomeno sociale e, in quanto tale, riflette i rapporti di forza che si instaurano nella società (fermo restando che in quanto parte della realtà esercita sulla stessa anche una funzione conformativa).
La natura del diritto è intrinsecamente ambigua: anche quando si propone di limitare la forza, si fonda proprio sulla forza; esso incorpora in sé strutturalmente una dose di forza. Può dirsi che il diritto non si sottrae alle «oscillazioni vertiginose» del «pharmakon platonico», è nello stesso tempo «veleno e antidoto, male e rimedio», è uno spazio dove i confini rispetto alla violenza sono «labili e incerti», vi sono «ambivalenze che non sempre si sciolgono» (E. Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, Laterza, 2006).
Non solo: come anticipato, il diritto, in quanto recepisce i rapporti di forza, è proteiforme. Il diritto può essere strumento di dominio come di emancipazione; tendere alla giustizia come sancire l’ingiustizia. Il diritto, cioè, come la società, è oggetto di polemos, della guerra per il potere (entro cui si situa anche la lotta per la limitazione del potere), che ne determina la struttura e le trasformazioni. Le tensioni che agitano la società, il rapporto tra aspirazione al dominio e rivendicazione di spazi di libertà, sfociano in differenti costruzioni giuridiche, dando luogo a stati assoluti, autocratici, liberali, socialisti, liberal-democratici, sociali.
Appartengono al diritto la garanzia della libertà personale e il diritto di istruzione, così come, per quanto susciti orrore, la regolamentazione dello sterminio nei campi di concentramento nazisti; è diritto la norma che afferma il carattere legibus solutus di un autocrate così come è diritto il costituzionalismo emancipante. Andando alle radici, può dirsi che il diritto riflette l’ambiguità dell’umano, l’uomo – come osservavate – come ‘legno storto’, ovvero come essere che si incammina «ora verso il male, ora verso il bene» (Sofocle, Antigone); l’uomo è quello che era «nella carlinga, con le ali maligne, le meridiane di morte, … dentro il carro di fuoco, alle forche, alle ruote di tortura», è l’uomo che ha «ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri…» (S. Quasimodo, Uomo del mio tempo, in Giorno dopo giorno, Mondadori, 1947), ma l’uomo è anche quello che dorme «sepolto in un campo di grano», per non «vedere gli occhi di un uomo che muore» (F. De André, La guerra di Piero, 1964). L’«uomo è un processo», il «processo dei suoi atti» (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 10, Einaudi, 1975). Lo stesso diritto costituzionale che nella sua essenza ha la limitazione del potere e la garanzia dei diritti nasce da aspirazioni ideali alla giustizia ma anche dalla consapevolezza del ‘male’: la Costituzione, se vuole essere «la garanzia della libertà di un popolo», deve limitare e regolare il potere perché «un grado di potere troppo grande… è un male quali che siano le mani cui lo si affida» (B. Constant, Principes de politique, Eymery, 1815); i diritti possono essere visti come elementi che «devono contrastare più che riflettere le propensioni naturali degli esseri umani» (così M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, 2003).
Ancora. Il diritto, anche quando esprime la tensione verso la giustizia, sancendo un ‘quasi’ teso verso l’ideale, contiene in sé anche la consapevolezza del cammino da compiere. È il realismo emancipante della nostra Costituzione, che muove dal fatto, dal dato concreto degli ostacoli, dalla presenza di diseguaglianze economiche e sociali, proponendosi di rimuoverle, concretizzando l’eguaglianza sostanziale. Si considera la realtà non per prenderne atto e arrendersi ad essa, ma per trasformarla. È l’immagine della democrazia, che è strutturalmente sospesa fra essere e dover essere, descrizione e prescrizione. La democrazia è esperienza storica ma è anche un quid incompiuto e proiettato verso il futuro. Il ‘quasi’ è insito nella democrazia, come forma di organizzazione sociale in perenne costruzione e stretta tra il rischio di mistificare in forme raffinate ed accattivanti l’esercizio di controllo sociale e potere da parte di élites, politiche ed economiche, e la potenzialità di essere spazio concreto di affermazione di libertà, eguaglianza, emancipazione.
Infine, l’incompletezza del ‘quasi’ nel suo rapporto con il diritto può essere intesa come garanzia che il diritto non si configuri, anche nel suo tendere a un’idea di giustizia, come omologante, instaurando una sorta di ‘dittatura normativa’, ovvero di stato etico. In questo senso il ‘quasi’ può essere inteso come permanenza dello spazio dell’autodeterminazione, personale e politica, del pluralismo e del conflitto. Il ‘quasi’ lascia aperto l’orizzonte della trasformazione, la dialettica dei conflitti, le differenze dell’emancipazione.
Nel ‘quasi’ si può scorgere la garanzia del diritto di disobbedire e di trasformare i rapporti sociali (i diritti che, insieme alla libertà di circolazione, D. Graeber e D. Wengrow, in L’alba di tutto, Rizzoli, 2022, individuano come primordiali).

«La strada maestra è qualcosa che si allunga all’infinito, come la vita umana, come il sogno umano. La strada maestra racchiude un’idea». Ai Demoni di Fëdor Dostoevskij, ormai più di dieci anni fa, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare e Gustavo Zagrebelsky, tre costituzionalisti, assieme a Maurizio Landini e a don Luigi Ciotti, si erano ispirati per invitare tutti a recuperare, nel dibattito pubblico e politico, l’idea che sta alla base della nostra costituzione. Qual è questa idea?

La Costituzione ci affida l’idea di una società da costruire, una società fondata su alcuni principi: l’uguaglianza, la solidarietà, la garanzia di diritti e doveri, la pace, l’antifascismo. È un progetto di trasformazione della società, un cammino verso l’emancipazione personale e collettiva. Sono i due obiettivi dell’uguaglianza sostanziale, il cuore della Costituzione (l’articolo 3, comma 2): il «pieno sviluppo della persona umana» e l’«effettiva partecipazione» alla vita della società.
È il riconoscimento delle differenze al netto delle diseguaglianze. I diritti sociali assicurano la liberazione dal bisogno e la possibilità di agire una libertà effettiva; i diritti di libertà garantiscono l’esercizio della partecipazione, del conflitto e del dissenso, che costituiscono l’anima della democrazia e la mantengono viva.
La Costituzione è un progetto da attuare, verso cui tendere, che ci racconta di una alternativa concreta rispetto all’esistente. È un disegno armonico, con al centro l’idea di una persona che è tale in una relazione solidale con altri, l’homo dignus, che si contrappone alla figura dell’homo oeconomicus, l’imprenditore di se stesso, che in una solitudine autoreferenziale persegue il proprio successo nel contesto di una società destrutturata nel legame sociale e nei corpi intermedi. È un progetto che prevede la limitazione, il controllo e l’indirizzo dell’economia da parte della politica (articoli 41 e 42), la redistribuzione delle risorse (articolo 53).
La Costituzione, ancora, ci affida la costruzione di una comunità di diritti e doveri fondata sull’eguale riconoscimento di tutte le persone, che siano o non siano cittadini, una comunità inclusiva e aperta. Ne discende un ampio riconoscimento del diritto d’asilo (articolo 10, comma 3) e la costruzione di una comunità internazionale dove la guerra è ripudiata e si perseguono pace e giustizia fra le nazioni (articolo 11).
Non sono affermazioni ireniche o illusorie, ma norme che madri e padri costituenti hanno voluto sancire, quali fondamenti e obiettivi del nuovo patto sociale, nato dalla Resistenza e dalla lotta di liberazione, nel diritto ‘più alto’, sovraordinato ad ogni altro. Certo, resta, come dicevamo, che il diritto è un fenomeno sociale: se il progetto di trasformazione non è sostenuto da forze sociali e politiche non può veicolare alcun assalto al cielo ma viene relegato all’empireo dei buoni propositi. Ma qui sta il compito di ciascuno di noi.

Se pensiamo alle leggi che più di altre hanno contribuito all’attuazione di molti principi e valori presenti nella nostra costituzione, il pensiero va alle grandi riforme degli anni settanta. Non era successo prima e non è tornato a succedere dopo, anzi, oggi quelle conquiste sembrano destinate al congelamento. Ci sono dei casi per cui si può dire che le leggi adottate risultano coerenti con il mandato della costituzione? Oppure, casi in cui per quel ‘quasi’ su cui indaghiamo, possiamo dire che la direzione di quelle leggi è quella buona ma che non sono state compiute del tutto? O casi in cui da quel ‘quasi’ ci stiamo allontanando?

Come osservate, c’è stato un ‘quasi’ nel segno della Costituzione negli anni Settanta; è il decennio del ‘disgelo costituzionale’, con lo Statuto dei diritti dei lavoratori (legge n. 300 del 1970), la disciplina del referendum (legge n. 352 del 1970), i provvedimenti relativi all’istituzione delle Regioni (1968-1970), la legge sul divorzio (legge n. 898 del 1970), la riforma del diritto di famiglia (legge n. 151 del 1975), la legalizzazione dell’aborto (legge n. 194 del 1978), la legge ‘Basaglia’ e la chiusura dei manicomi (legge n. 180 del 1978), l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978). Sono riforme nel segno della Costituzione, passi verso un ‘quasi costituzionale’.
Vorrei evidenziare un punto: le variabili che sostengono il cammino verso l’attuazione della Costituzione sono molte, dal contesto politico-partitico a quello geopolitico, ma mi piace sottolinearne una, il ruolo dei movimenti, operai come studenteschi; per dirlo con le parole di Rosa Luxemburg, emerge come sia il «movimento delle masse», con la sua «pressione», «un potente correttivo» del «“faticoso meccanismo delle istituzioni democratiche”» (R. Luxemburg, La Rivoluzione russa, 1918). Con l’arrivo degli anni Ottanta, la Costituzione è progressivamente (ri)-sepolta sotto un pesante strato di permafrost, dimenticata, svilita, neutralizzata. Non solo il percorso di attuazione si arresta, ma vi è una progressiva regressione nelle conquiste ottenute e il paradigma costituzionale viene sostituito dai dogmi del capitalismo neoliberista, che tracima dal campo economico a quello politico, sociale, giuridico e antropologico.
L’allontanamento dal ‘quasi’ colpisce la democrazia politica come la democrazia sociale, accontentando la Commissione Trilaterale che lamenta l’«eccesso di democrazia» (M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975) e la J.P. Morgan (The Euro area adjustment: about halfway there, 28 May 2013), che critica le costituzioni dei paesi del Sud Europa perché prevedono esecutivi deboli, proteggono i diritti dei lavoratori e il diritto di protesta. Le crescenti pretese egemoniche di un neoliberismo vieppiù pervasivo, che colonizza i territori e le coscienze, con la sua resilienza – preciso: ‘resilienza’ è una ‘parola oscura’, in quanto indica una capacità di adeguamento che tende a riprodurre l’esistente – che passa dal finanzcapitalismo di una libera concorrenza senza vincoli a un welfare neoliberale che non disdegna protezionismo e salvataggi di Stato, sino al keynesismo bellico dell’ultimo Rapporto Draghi, stringono la democrazia in un abbraccio che non è ‘insieme vitale e mortale’, come lo definiva Norberto Bobbio, ma mortale.

‘Quasi’ è una parola che, pur sembrando innocua, scalfisce le certezze e l’assoluto, evocando sfumature, differenze e moltitudini. In un saggio apparso su «Mondoperaio», Bobbio scriveva che «non vi è alcun gioco che stabilisca che soltanto una delle parti debba sempre vincere. Un gioco in cui non vi sono almeno due parti in conflitto non è un gioco ma un solitario, in cui uno gioca da solo senza avversari e può quindi continuamente cambiare le regole senza che alcuno glielo impedisca». Che ruolo ha il conflitto nel diritto e, in senso più lato, nel discorso pubblico e politico?

La storia è «storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, 1848). Il conflitto o, forse meglio, i conflitti attraversano la storia, ne costituiscono la spina dorsale e il diritto ritrae il loro precipitato.
Il conflitto innerva la storia e il diritto, alimentando, di quest’ultimo, la natura proteiforme, in senso diacronico, così come in senso sincronico, dando luogo a una lotta per il diritto. Oggi è quanto mai acceso il conflitto per l’egemonia nella produzione giuridica, con lo scontro fra il costituzionalismo novecentesco (e il diritto internazionale ad esso connesso), e le fonti fluide, liquide (per utilizzare la fortunata espressione di Zygmunt Bauman), del neoliberismo, o, come terribilmente mostrano i crimini compiuti da Israele a Gaza e la loro (almeno al momento) impunità, il ritorno tout court della legge del più forte. Il diritto che tende alla giustizia, il diritto costituzionale e il diritto internazionale dei diritti umani, sono sospesi su un abisso. Se le richieste della Corte internazionale di Giustizia e della Corte penale internazionale, quando argomentano l’esistenza di un rischio plausibile di genocidio e chiedono un mandato di arresto per Netanyahu, continueranno a incontrare il silenzio complice di molti Stati, quale credibilità potrà ancora avere il diritto internazionale? I diritti, nell’ineffettività, nel doppio standard, nell’orrore di un genocidio consumato in diretta, nella passività con cui si assiste a morte e distruzione, perdono se stessi.
Quando il quasi viene applicato all’umano e si disumanizzano persone – i palestinesi, come i migranti – riesumando logiche coloniali (invero mai scomparse), i diritti si rivelano privilegi e la disumanità che accompagna la loro violazione si riverbera su tutti. Allora, occorre riprendere il conflitto. Il conflitto consente l’espressione dei subalterni, degli oppressi, delle vite di scarto (Zygmunt Bauman), dei dannati della terra (Frantz Fanon), ne riconosce l’esistenza e la legittimazione a lottare per la propria dignità e autodeterminazione. Il conflitto, dunque, produce riconoscimento, inclusione ed emancipazione. È emancipazione in sé e veicola emancipazione. Il conflitto è il motore che anima la dialettica della storia; è un elemento dinamico, che rende possibile la trasformazione. Chi avversa il conflitto tende a mantenere lo status quo, le relazioni di dominio e di diseguaglianza esistenti: «sono in ogni repubblica due umori diversi, quello del popolo e quello de’ grandi», «tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro» (N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1531).
È attraverso i conflitti che nascono i diritti, si esercitano e si preservano. Il conflitto è il fondamento della democrazia; insieme a una visione all’insegna della complessità, rende vivo il pluralismo; con la mobilitazione e l’attivismo che reca con sé sconfigge l’apatia, l’indifferenza, la passività, favorendo la partecipazione, che della democrazia è il cuore. Preciso: il conflitto si pone in antitesi alla guerra. Si situa nell’orizzonte della complessità e della differenza, del riconoscimento reciproco, della discussione e della convivenza, mentre la guerra tende alla semplificazione identitaria, a una artificiale e coartata omogeneità, alla delegittimazione del nemico, e, in definitiva, alla sua eliminazione.

La Costituzione italiana è invidiata anche perché è scritta bene ed è lontana dal linguaggio e dal verbo prettamente giuridici. Quel ‘quasi’ ritorna ancora perché è un testo che ci fa immaginare, mette in moto speranza e voglia di fare, ci fa pensare collettivamente, ci fa vedere che il domani è il senso dell’oggi. Cosa può dirci di questa caratteristica della nostra Costituzione? Quanto potrebbe darci e dirci ancora?

La Costituzione è un progetto di alternativa, una trasformazione da attuare; Piero Calamandrei la definiva una rivoluzione promessa. Delinea un agire presente che consente di immaginare un futuro diverso. Tuttavia, c’è un ‘ma’ pesantissimo: come abbiamo osservato ante, è una Costituzione inattuata e neutralizzata. Il bilancio in tal senso è negativo, ma il progetto resta valido: è – ancora – una Costituzione da attuare. I principi che essa sancisce, uguaglianza, solidarietà, pace, il riconoscimento del conflitto, l’orizzonte della trasformazione ed emancipazione che veicola, sono ancora nostri compagni nella resistenza alla deriva bellica e autoritaria che ci avvolge. Non è un caso che la Costituzione sia sterilizzata, oltraggiata e violata dalle forze di governo, ma sia una presenza viva nelle isole di insorgenza sociale che illuminano la società. Ricordo un caso, fra i molti, la guerra in Ucraina: l’articolo 11 (il ripudio della guerra) è del tutto assente dal discorso politico istituzionale, ma è una presenza assidua nelle piazze contro la guerra.
La Costituzione oggi vive come antagonista, nei movimenti, nelle lotte dei lavoratori, nelle occupazioni degli studenti, nelle azioni degli ambientalisti. Resta, dunque, un paradigma di riferimento, una utopia concreta per cambiare l’esistente, una speranza giuridicamente sancita.
Siamo, dicevamo, quasi in una autocrazia: la Costituzione è un progetto concreto contro quel quasi e apre all’oltre che possiamo immaginare.
Il ‘quasi’ è quello di una barbarie che sta oscurando il cielo della democrazia, dei diritti, dell’umano e dell’ambiente, ma è anche altro. Il ‘quasi’ è uno spiraglio aperto sulla trasformazione: lo è sempre, in quanto consente di sfuggire alla cappa dell’assoluto e mantenere l’inquietudine della ricerca; lo è ancor di più nel presente, quando rappresenta la distanza minima che ci separa dallo scivolamento in un capitalismo autoritario, senza limiti. Ecco, ancora, un’accezione del ‘quasi’: evoca il conflitto e ci ricorda il senso del limite, il limite inteso come, con un paradosso solo apparente, apertura degli orizzonti.
Esercitiamo le possibilità del quasi, ricordando il monito di Erich Fromm (La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, 1982): «nell’attuale fase storica, la capacità di dubitare, di criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro per l’umanità e la fine della civiltà».

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