QUASI

Quando un ragazzo decide di studiare fisica ha l’ingenua pretesa di riuscire a capire come funziona l’universo. Bastano un paio d’anni di studio, il tempo di arrivare alla meccanica quantistica, per comprendere di aver peccato di presunzione.

La meccanica quantistica descrive il mondo dell’infinitamente piccolo, un posto in cui particelle elementari sono quasi-onde, le costanti della natura sono quasi-costanti, il vuoto è quasipieno, l’universo quasi-stabile, e la teoria che descrive tutto questo spiega quasi-niente dell’universo conosciuto. Tutto ha inizio nei primi anni del Novecento, quando fisici del calibro di Einstein, Born, Planck, Heisenberg e molti altri, muovono i primi passi verso la comprensione di fenomeni microscopici formulando una nuova rivoluzionaria teoria, chiamata meccanica quantistica.

Come tutte le teorie rivoluzionarie, la meccanica quantistica rappresenta un radicale cambiamento di pensiero rispetto alla teoria precedente, la meccanica classica, figlia di Galileo e fondata su principi vicini all’esperienza quotidiana. Secondo la meccanica classica ripetendo più volte lo stesso esperimento si otterrà sempre lo stesso risultato; in realtà si vedrà come la natura sia molto meno noiosa.

Per capire la profondità della meccanica quantistica bisogna ragionare sul concetto di probabilità. È uso comune definire la probabilità di un evento come il numero di eventi favorevoli rispetto al numero di eventi totali. Questa definizione è intuitiva quando si vuole ad esempio calcolare la probabilità che esca una carta di cuori in un mazzo di carte francesi: si sa che nel mazzo ci sono 54 carte, e 13 sono di cuori; la probabilità è quindi un quarto, il 25 percento.

Tuttavia, ci sono fenomeni per i quali non si conoscono le condizioni a priori e non è possibile procedere empiricamente per esperimenti ripetuti: l’esempio più calzante sono le previsioni del tempo. Quando si vuole pianificare una gita, la prima cosa che facciamo è aprire la nostra app del meteo preferita e, cercando di scoprire come sarà il tempo, leggiamo le probabilità di avere una bella giornata di sole. Ma come viene definita questa probabilità visto che la giornata passerà una e una sola volta? Per rispondere, dobbiamo sviluppare un ‘gedankenexperiment’ un esperimento mentale. Immaginiamo di poter fermare il mondo in un determinato istante e di farne tante copie, tutte uguali una all’altra. Poi lasciamole progredire autonomamente, monitorando la loro evoluzione; aspettiamo una certa quantità di tempo e per ciascuna copia osserviamo il meteo nel week-end. Se al momento della partenza iniziale le condizioni per ciascuna copia erano identiche, il meteo che osserviamo in tutte le versioni create sarà sempre lo stesso.

Ma il mondo è complesso, e un battito d’ali di una farfalla può causare una catena di eventi che portano a un week-end piovoso, come sa bene chi è addetto alle previsioni meteorologiche. Quando si studiano le variabili atmosferiche non si ha la conoscenza perfetta di tutte le condizioni iniziali. Possiamo produrre quindi delle copie mentali che non sono identiche dall’inizio ma che variano di poco una dall’altra. Questi piccoli cambiamenti generano previsioni con esiti diversi. Contando quanti weekend soleggiati in ciascuna copia abbiamo rispetto al numero totale saremo in grado di calcolare la probabilità di avere un meteo favorevole o sfavorevole. È quindi l’ignoranza sulle condizioni iniziali a generare incertezza sul modello. Nella vita reale, queste copie mentali non sono altro che simulazioni generate al computer da algoritmi che creano delle stime sulle previsioni meteo.

Se in meccanica classica è l’ignoranza l’origine della probabilità, quando si parla invece del mondo microscopico, regolato dalla meccanica quantistica, è la natura stessa ad essere probabilistica. Ovvero, se si ripete tante volte un esperimento a condizioni iniziali identiche, il risultato finale sarà differente. Le copie mentali di un esperimento di fisica quantistica, per le stesse condizioni iniziali, portano a risultati finali diversi. Ed è così che per la meccanica quantistica, il ‘quasi’ non indica più solamente uno stato non propriamente noto o approssimativo, ma diventa parte integrante della teoria stessa. Se vi sembra assurdo, non preoccupatevi, persino Einstein inizialmente rimase perplesso ed esclamò la famosa frase: «Dio non gioca a dadi con l’universo». La natura probabilistica della teoria è formalizzata dal principio di indeterminazione di Heisenberg: non si può conoscere con infinita precisione la velocità e la posizione di una particella allo stesso tempo, non importa quanto siano sofisticati gli strumenti sperimentali. Il motivo è che le particelle non sono solo oggetti puntiformi, ma sono anche onde di probabilità. Solamente quando quest’onda viene osservata, allora da un insieme di possibilità, diventa una cosa sola, un punto. Questo concetto è noto come il collasso della funzione d’onda, ed è uno dei principi cardine della meccanica quantistica. Il lettore più scettico potrebbe pensare che tutto questo sembri un’interpretazione filosofica della natura piuttosto che una teoria fisica; gli darò un esempio per convincerlo del contrario: le stelle.

Le stelle brillano grazie a processi di fusione nucleare. La fusione nucleare avviene quando due nuclei sono abbastanza vicini da fondersi insieme, rilasciando una grande quantità di energia. Per semplificare pensiamo al nucleo come a un singolo protone, una particella di carica positiva. Avendo carica uguale i protoni si respingono; più sono vicini tra loro, più la forza repulsiva sarà forte, creando una barriera invalicabile tra due particelle, chiamata barriera Coulombiana. Mettiamo ora tanti protoni in una scatola tutti vicini tra loro: ognuno di essi respinge l’altro. Secondo la meccanica classica nessuno di essi potrà mai superare la barriera Coulombiana e fondersi con l’altro, ma per la meccanica quantistica, invece, poiché i protoni non sono solo particelle, ma anche onde di probabilità, è possibile che per una fluttuazione una di esse superi questa barriera, innescando così la fusione nucleare tra i due nuclei, tramite un fenomeno quantistico chiamato effetto Tunnel. Potete pensare all’equivalente macroscopico di questo fenomeno come a un oggetto che, lanciato contro un muro, riesce a passarci attraverso. L’effetto Tunnel esiste perché è la natura stessa ad essere probabilistica.

È grazie a questo effetto che le stelle brillano.

Facciamo ora un salto alla fisica contemporanea, quella che avviene al CERN di Ginevra, il centro di ricerca che ospita il più grande esperimento di fisica delle particelle mai esistito: un tunnel sotterraneo di circa 30 chilometri di circonferenza, in cui facciamo scontrare protoni a energie elevatissime. Grazie a queste collisioni possiamo tornare indietro nel tempo e studiare la fisica nei primi istanti dell’inizio dell’universo, subito dopo il Big-Bang. Di vitale importanza per gli esperimenti al CERN è la produzione e lo studio del bosone di Higgs, una particella elementare scoperta nel luglio del 2012 che valse il premio Nobel ai fisici che la teorizzarono più di vent’anni prima. Per capire il bosone di Higgs dobbiamo ricordarci che una particella non è solo un punto, ma anche un’onda (di probabilità). Non bisogna dunque pensare al bosone di Higgs come a un punto ben localizzato, bensì come a un campo che permea tutto l’universo. In effetti, questo è vero per ogni particella elementare. Per la fisica moderna, infatti, il vuoto è quasi pieno, permeato da campi di particelle elementari che interagiscono tra loro, che si annichiliscono e ricreano perpetuamente, in una danza senza tempo. Per i più curiosi, l’effetto più lampante che spiega questo fenomeno, chiamato polarizzazione del vuoto, si chiama effetto Casimir, ed è stato sperimentalmente verificato intorno l’inizio degli anni Duemila.

Ma torniamo al campo di Higgs. Questo campo ha un ruolo particolare poiché genera la massa di tutte le particelle elementari. La massa, infatti, non è una proprietà intrinseca, ma è una proprietà dinamica che deriva dalla forza di interazione che c’è tra una particella elementare e questo campo. Ad esempio, il fotone, il quanto di luce, non interagisce con il campo di Higgs e quindi non ha massa, e viaggia con la velocità massima possibile nell’universo: la velocità della luce. Le particelle che hanno una massa propria, invece, interagiscono con questo campo, acquistano una massa, e viaggiano a velocità minori di quella della luce. Proprio come un oggetto che, lanciato in mare, perde velocità.

Il bosone di Higgs ha lui stesso una massa, ma come viene generata? Tramite l’interazione che ha con se stesso, un po’ come quando il mare interagisce con le sue stesse correnti producendo vortici. Questa auto-interazione del bosone di Higgs è una delle misure cardine degli esperimenti al CERN, e resterà materia di studio per i decenni a venire. Visto che il campo di Higgs produce la massa di ogni particella, pensate cosa potrebbe accadere se la densità di questo campo improvvisamente cambiasse. La massa delle particelle elementari sarebbe differente; con una massa differente non si potrebbero formare gli atomi e, a seguire, tutta la materia. Sarebbe la fine dell’universo per come lo conosciamo. Da calcoli teorici si è dimostrato, intorno al 2011, che la probabilità che questo fenomeno accada non è nulla, ma fortunatamente molto piccola. I fisici chiamano questo concetto meta-stabilità dell’universo oppure universo quasi-stabile. Se vi sentite confusi, pensate che questa teoria descrive solamente il 5% della materia dell’universo conosciuto. Il restante, è ancora oscuro, ma questa è un’altra storia, o quasi...

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