QUASI

Andrea Lucatello intervista Francesca Coin

Quella delle donne è stata definita la ‘rivoluzione incompiuta’. Il suo corso non ha avuto un inizio preciso: si è sviluppato in più periodi storici mostrando, in un tempo che ancora continua, teorie e pratiche, forme e modi, luoghi e parole del tutto diversi da altri movimenti e da altre rivoluzioni. Cosa la contraddistingue? Che tipo di rivoluzione è stata ed è tuttora?

Più che incompiuta, direi fortemente avversata, come lo è stata nello stesso periodo quella delle lotte decoloniali. Lungo il Novecento, sia il femminismo che le lotte decoloniali hanno letteralmente provato a cambiare i rapporti di potere, le urgenze e gli immaginari sociali, portando nel discorso pubblico, in modo dirompente, tutte quelle persone che erano state violentemente represse, zittite, sfruttate e svalorizzate. Nel corso della storia, il ruolo delle donne è stato di fatto ‘invisibilizzato’ e, potrei dire, anche irriso. Se ne trova conferma leggendo i sociologi classici che andrebbero, non dico banditi, ma certamente relativizzati e ridimensionati nel loro peso. Per esempio, nei testi di Émile Durkheim, uno dei sociologi classici che si insegnano ancora agli studenti, ci sono pagine e pagine in cui si deridono le donne.
È stata quindi una rivoluzione che si è imposta nell’opinione pubblica con grande forza, implicando uno spostamento delle priorità sociali e favorendo il decentramento e la legittimazione di nuovi punti di vista. Se oggi viviamo in una società largamente dominata da una spinta reazionaria conservatrice è anche perché la portata storica e la potenza emancipatoria del pensiero femminista (e di quello decoloniale) hanno messo in discussione un ordine considerato inscalfibile, come se si fosse trattato di lesa maestà. Ma le voci impetuose di tanti movimenti femministi continuano in tutto il mondo: sono le uniche in grado di mettere in crisi le autarchie, le dittature e i regimi. Penso al Rojava, all’Iran, a ‘Non una di meno’, nata in Argentina e presente anche in Italia. Lo stesso Black Lives Matter, strettamente legato alla lotta antirazzista, nasce da movimenti femministi neri di donne lesbiche. Anche la definizione di ‘rivoluzione incompiuta’ ha un suo senso, perché il mondo immaginato dalle femministe chiaramente non è ancora qui, altrimenti saremmo in un’altra fase storica. Allo stesso tempo, tuttavia, se si considera quanta violenza, molta di più di quella che si potrebbe concepire, sia stata messa in campo dall’altra parte per annichilire intere comunità e cancellare altrettante soggettività, allora ci si rende conto dei nervi che i movimenti femministi hanno scoperto nell’ordine politico e sociale e, di per sé, questo è già un bell’obiettivo.
L’eredità che ci ha lasciato il pensiero femminista, che vale anche nella sua attualità, nelle sue molteplicità e nelle sue varie diramazioni storiche, è proprio quella di immaginare una società diversa, del tutto opposta al modello di mascolinità incarnato dalla destra internazionale.
Credo che se ci sarà una possibilità, potrà arrivare solo dal movimento femminista. Il desiderio di libertà che i corpi delle donne incarnano non è arginabile, e dal conflitto in atto, pur aspro e difficile, uscirà un’unica direzione che neanche tutti gli autarchi del mondo riusciranno ad arrestare, anche se faranno molti danni ancora per molto tempo.

Il momento più alto del movimento femminista, sia dal punto di vista teorico che da quello degli obiettivi raggiunti, si è realizzato negli anni settanta del novecento. Questo è stato possibile grazie a una congiuntura di vari fattori. La lotta portata avanti dalle donne si è infatti inserita nel più ampio contesto del boom economico avvenuto nei trent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, insieme alla crescita della democrazia, che in molte parti dell’occidente sembrava andare a consolidarsi, alla richiesta di maggiori diritti civili e sociali e di un welfare a sostegno di riforme e servizi proveniente dalla società. Un intreccio tra economia, politica e riforme. Cos’è successo dopo? Che legame c’è stato e c’è ora tra donne, economia e lavoro?

Personalmente, ho incontrato il femminismo negli Stati Uniti, dove nei primi anni Duemila ho passato sette anni. Per me, quelli sono stati anni di grande solitudine e mi è stato molto di aiuto il pensiero femminista delle donne nere perché era un pensiero che partiva proprio dalla condizione che stavo vivendo. Audre Lorde, poeta e saggista, si chiedeva, riferendosi ad Angelina Weld Grimké che morì da sola in un appartamento di New York nel 1958, «cosa avrebbe potuto significare in termini di sorellanza e sopravvivenza se ognuna di noi avesse saputo dell’esistenza dell’altra: se io avessi avuto le sue parole e la sua saggezza e se lei avesse saputo che ne avevo bisogno. È fondamentale che ognuna di noi sappia che non siamo sole». In quegli anni di solitudine politica nel Sud degli Stati Uniti, queste parole mi hanno aiutato molto.
Negli anni Settanta l’azione dei movimenti femministi ha costretto il governo, di impronta keynesiana, a cedere alle sue richieste, allargando lo stato sociale con un’attenzione alla scuola, alla cura, ai servizi per l’infanzia e alla sanità che ha cambiato le democrazie occidentali.
Se guardiamo a cosa succede adesso, compresa la ridicola battaglia contro il cosiddetto woke, si va verso l’idea di stato ‘minimo’, una vera e propria teoria di stato che si limita a spendere solo per la polizia e l’esercito, tagliando tutti i costi e i servizi di welfare richiesti dalle donne, dagli immigrati, dai disoccupati o dalle generazioni più giovani. Per tornare negli Stati Uniti, il cosiddetto Project 2025 del nuovo governo Trump si propone in modo più o meno velato di smantellare il welfareannullando indennità, sussidi e congedi: di fatto, cancellerà tutti i programmi, per quanto problematici o insufficienti, collegati alla questione del diversity, equity, and inclusion. Il problema, alla radice, è che i ricchi debbano pagare le tasse per finanziare la sanità o l’istruzione ai poveri. Si tratta di una questione, a tutti gli effetti, ottocentesca. I ricchi non vogliono farlo. E in questo contesto si sta delineando un’idea di stato antisociale per ricchi e oligarchi con ambizioni coloniali. L’opposto di quello che ha chiesto il femminismo.

Come puoi occupare il posto che vorresti, se il mondo ti è precluso? Il mito ci ricorda Ulisse in viaggio e Penelope a casa. Il diritto alla mobilità non è solo poter prendere un mezzo di trasporto, ma anche poter far tardi alla sera o viaggiare da sole. Come si fa a non sentirsi estraniate e come si sta evolvendo il concetto di spazio pubblico?

Su questo, innanzitutto mi conforta che anche una parte di uomini rivendichino un ruolo maschile diverso all’interno della società, con ragionamenti seri e un imbarazzo sincero rispetto alla tradizione e alla cultura misogina. Purtroppo, poi, nella vita vera, la paura di tornare a casa da sole la sera noi donne ce l’abbiamo ancora. In una sua canzone, recentemente molto condivisa dal movimento ‘Non una di meno’, Giulia Mei dice «Voglio essere libera» e, tra le cose da cui vuole essere libera, c’è quella «di uscire la sera, tornare da sola, senza la paura persino del tipo della spazzatura», che magari è lì solo per lavorare.
Quando torno a casa, se è tutto buio, guardo ogni ombra ed è un riflesso condizionato. Non ho conosciuto una donna che non lo fa, a livello conscio o inconscio. È ovvio che servirebbe una trasformazione culturale, ma le difficoltà ci sono anche perché c’è una parte della società che detesta l’idea di essere detronizzata dal suo piedistallo patriarcale. Poi nelle periferie manca l’illuminazione pubblica. Si persegue l’inclusione, ma si dimentica che questo significa anche accesso alla casa, al trasporto pubblico, alla sanità e all’istruzione. In Italia, purtroppo, violenza e femminicidi sono un problema quotidiano. L’idea che serva un’inversione di rotta è giusta, ma è ingeneroso chiamarla così, perché c’è una parte della società che lavora da decenni nella direzione giusta e un’altra che la combatte.
L’intellettuale afroamericano James Baldwin diceva che «il mondo è tenuto insieme dall’amore e dalla passione di pochissime persone», sostenendo con questo che l’amore non è mai stato un movimento diffuso e che è l’amore di poche persone che porta avanti tutto. Ed è così: ci sono poche persone, o anche tante, che fanno un lavoro abnorme per compensare chi sta dalla parte opposta.

Il cambiamento passa sempre anche attraverso linguaggi estetici. Letteratura, teatro, arti visive: che rapporto ha le creatività con le istanze e i movimenti delle donne? Il mondo dell’arte, come diceva Carla Lonzi, è ancora colonizzato dal potere e dall’immaginario maschile?

La questione è quella dell’egemonia culturale, che conosciamo bene fin dalla sua teorizzazione fatta da Antonio Gramsci. Per capire cosa possa significare oggi, basta vedere come, arrivata al governo, la destra ne abbia fatta una vera e propria missione. Gran parte delle posizioni apicali di enti e istituzioni culturali è stata assegnata a personalità di area, così come gran parte dei finanziamenti all’arte passa per lo più sotto la stretta vigilanza del Ministero della Cultura. Non mi pare che questo sia sufficiente per costruire un orizzonte di senso nell’immaginario collettivo. Carla Lonzi abbandonò il suo lavoro di critica ribellandosi alla logica patriarcale diffusa nel mondo dell’arte e scegliendo di occuparsi e di fare altro. Direi che negli ultimi decenni le donne da quell’assoggettamento se ne siano definitivamente allontanate, nella letteratura, nella musica, nel cinema e nell’arte, nonostante le resistenze conservatrici che tutt’ora esistono e che ci sono anche a sinistra, se si pensa che si svolgono ancora panel che danno la parola esclusivamente agli uomini. Trovo, invece, da parte di poetesse, scrittrici, registe, musiciste e di tante altre donne che si esprimono attraverso l’arte, una grande freschezza e una grande capacità di rompere, di ispirare, di innovare con una forza che si fa via via più contagiosa, travolgente e trascinante. Basti pensare al successo di C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi, che per la sua attualità ha riscosso tanto successo anche tra le nuove generazioni. Questo è magnifico.

In Elogio del margine, Bell Hooks scrive che «la lingua è anche un luogo di lotta». Recentemente, soprattutto per spinta delle nuove generazioni, si è sentita l’esigenza di un linguaggio più attento, utilizzando asterischi, schwa o femminili inclusivi. È difficile che la lingua cambi con questa o quella forzatura. Ha bisogno dei suoi tempi. Però, queste forzature, incontrandole, sono d’intralcio e fanno comunque riflettere. Cosa può dirci a riguardo?

In questo caso ci vedo un doppio aspetto, uno politico e uno linguistico. Dal punto di vista linguistico, è chiaro che lo schwa(ə), l’asterisco o il they in inglese consentono di impedire che le persone non binarie vengano cooptate dentro il maschile sovraesteso, e cioè nello stesso spazio linguistico in cui venivano ricondotte le donne. Così come le donne sono state a lungo ‘invisibilizzate’, anche questa comunità ha storicamente subito un’esclusione che non si verificava solo nello spazio linguistico ma riguardava anzitutto i diritti civili politici e sociali. Nei luoghi di lavoro, per esempio, le persone trans incontrano ancora problemi significativi: ottenere un impiego può essere difficile e anche persone che iniziano una transizione dopo aver firmato un contratto a tempo indeterminato vengono spesso marginalizzate, discriminate o addirittura licenziate. Ciò accade perché, culturalmente, non siamo ancora arrivati a una società aperta alla diversità.
Transfobia, razzismo e misoginia esistono: è un dato di fatto. In passato, le persone nere, le donne e le persone trans non erano nemmeno considerate pienamente umane. I testi dell’epoca ne parlano usando metafore mostruose: le donne erano descritte come demoni a forma di donna, le persone migranti rappresentate come vampiri e lo stesso valeva per le persone trans. Oggi, però, sta emergendo una consapevolezza che porta con sé un processo di autodefinizione. Un processo ancora in evoluzione: così – e vengo all’aspetto linguistico – come le donne si sono dovute scontrare con chi diceva che ‘assessora’ fosse sbagliato perché esisteva solo ‘assessore’, oggi ci troviamo in un dibattito che si chiede come si possa rompere il linguaggio per permettergli di descrivere un mondo che già esiste.
L’uso dello schwa (ə), dell’asterisco o della troncatura è ancora in discussione e nessuna di queste soluzioni è completamente soddisfacente. Leggere o scrivere un testo in cui ogni parola termina con lo schwa (ə) può risultare complesso. È giusto, dunque, che ci sia un dibattito, perché contribuisce a mettere in luce questioni che prima venivano ignorate. Affrontarlo significa anche riconoscere le strutture di oppressione ancora presenti: razzismo, misoginia, omolesbobitransfobia. È necessario affrontarlo perché è una forma di apprendimento e di pedagogia politica.

Nei social, si sta diffondendo quello che si chiama microfemminismo, ossia la condivisione di piccole azioni e piccoli gesti, apparentemente neutri, ma capaci di innescare meccanismi di cambiamento. Una predisposizione non nuova, soprattutto in situazioni difficili, di marginalità, povertà ed emergenza. Che contributo possono dare esperienze, esempi e comportamenti di tutti i giorni nel trasmettere la forza, di altre e altri, di agire in prima persona?

I social, con tutte le loro ambiguità, hanno sicuramente favorito la nascita di una controcultura femminista molto diffusa e capillare. Influencer, attiviste e collettivi digitali portano avanti battaglie con grande creatività. La preoccupazione, tuttavia, nasce quando queste esperienze restano confinate alla sola dimensione virtuale. Ciò che mi spaventa di più è che, senza una collettività reale dietro, il rischio è che l’attivismo digitale lasci le persone sole di fronte a situazioni difficili. Chi combatte quotidianamente contro la violenza sulle donne, per esempio, può trovarsi esposto ad attacchi, ritorsioni o addirittura a procedure giudiziarie. E se non esiste una rete solidale che protegge e sostiene diventa tutto più complicato.
L’attivismo del passato aveva di buono che le persone si incontravano, si toccavano, si abbracciavano. Se qualcuno crollava, c’era sempre qualcuno pronto a preparargli un piatto di pasta. Oggi, invece, davanti a uno schermo si può crollare e si è soli. E questo fa paura. Quindi sì, il digitale è importante, ma dobbiamo esserci anche con il corpo, soprattutto nelle periferie e nei luoghi più isolati, dove il cambiamento è più difficile.

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