QUASI
Quasi come noi. Gli storici e il passato
di Roberto Bondì
Ogni vera storia è storia contemporanea: così recita la celebre formula crociana, ed è una formula sbagliata. A Benedetto Croce sembrava «evidente» che il presupposto dello studio di un fatto passato non potesse essere altro che un interesse del presente, per cui – sono parole sue – il fatto passato, unificandosi con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma appunto presente. In realtà, non c’è quasi niente di evidente in questa tesi, se non la banalissima circostanza per cui chi nel presente si occupa del passato vive, con tutte le conseguenze epistemologiche del caso, nel presente.
Certo, la comprensione dei percorsi intricati delle idee – che, secondo la felice descrizione di George Boas, finiscono spesso in luoghi nei quali la logica non le avrebbe mai collocate – può gettare luce sul presente rendendo chiari i modi nei quali si è giunti a pensare quello che pensiamo oggi. Chi si attiene al presente e all’attuale – scriveva a metà Ottocento Jules Michelet – l’attuale non lo capirà. Ma, come insegnava lo storico delle idee Paolo Rossi, chi studia il passato cerca di dare una risposta a un problema storico e, semplicemente, non è affatto necessario che questa risposta sia di qualche utilità al presente.
Arthur O. Lovejoy, cui Rossi si richiamava, pensava a ragione che la storia fosse per un certo verso una branca dell’antropologia: studiare il passato significava contribuire allo sforzo che gli esseri umani compiono di ubbidire all’imperativo delfico. Dal punto di vista di Lovejoy, la storia delle idee, la disciplina che aveva fondato, aveva tra le sue funzioni quella di gettare luce sul funzionamento e sulla variabilità della mente umana.
Se – e questa volta l’evidenza sembra esserci – quella funzione è decisamente rilevante, si tratta, nel caso degli storici, di cercare di conoscere quelli che ci hanno preceduto nella misura in cui non sono noi, ma soltanto quasi come noi. Anche loro, come noi, hanno teorizzato, immaginato, ricordato e sperato, ma lo hanno fatto nei modi più disparati e, tanto più disparati sono questi modi, tanto maggiore è l’interesse dello storico e la sua difficoltà a comprendere.
Molti filosofi pensano di poter dialogare sui presunti eterni problemi filosofici con i grandi pensatori del passato come se parlassero a dei loro colleghi. Mancano – direbbe Nietzsche – di «senso storico», hanno in odio la «rappresentazione stessa del divenire». Pensano che tributare «onore» a una cosa significhi destoricizzarla e trasformarla in una mummia, ma «quando adorano, questi signori che idolatrano il concetto, uccidono, impagliano». Certi filosofi, sia analitici sia continentali, come accoglienti padroni di casa, invitano a cena – mettiamo – Platone, Aristotele, Tommaso, Cartesio, Kant, Hegel e Marx e pensano di poter conversare con loro, come farebbero con i loro contemporanei, su quelle che il filosofo inglese Michael Dummett chiamava «questioni genuinamente filosofiche». Agli occhi, ingenui, di Dummett, tali questioni sarebbero suscettibili di risposte «vere». Per indicare le «verità filosofiche» non parlerebbe – bontà sua – di «teoremi filosofici», dato che «il ragionamento filosofico non è mai stringente come quello matematico». Ad ogni modo, lo studio dei testi del passato deve essere condotto secondo lui «con gli occhi puntati alla ricerca della soluzione ai nostri problemi».
Quest’ultima affermazione di Dummett riassume con efficacia quello che gli storici non fanno e ritengono che non si debba fare. Dimenticare chi siamo, come e che cosa pensiamo e i nostri problemi – o meglio sforzarsi di farlo perché è chiaro che può essere soltanto un’idea regolativa – è la prima regola della comprensione del passato. Al contrario di questi filosofi, gli storici hanno ben chiaro il senso dell’alterità e sono abituati ad avventurarsi, senza provare particolare disagio, in territori che sono soltanto quasi familiari, quando non sono per nulla familiari. In questi territori non cercano conferme o genealogie e isolano problemi che hanno per loro un interesse in sé. Fanno un mestiere che non ha niente in comune con quelli del filosofo-vate da un lato e del filosofo-costruttore di argomenti dall’altro. Sanno da sempre – ad esempio attraverso le riflessioni settecentesche dello storico della filosofia Johann J. Brucker – che quando si valuta il sapere che sta alle nostre spalle sulla base delle esigenze del presente si generano «mostri»: così è stato nel caso dei profeti degli antichi Ebrei trasformati in professori di filosofia, nutriti dallo studio dell’odierna enciclopedia.
Chi è andato a scuola da Paolo Rossi, che ha intitolato le sue riflessioni sul mestiere dello storico Un altro presente (Il Mulino, 1999), ha imparato che quello di cui si occupano gli storici non è il nostro passato ma appunto un altro presente. E se il territorio in cui si avventura lo storico non è il suo passato ma un altro presente, si troverà di fronte non la ripetizione dell’identico ma l’alterità, la diversità, la differenza. Toccherà con mano che «non è solo il futuro a essere imprevedibile»: «Quando scoprono nuovi sentieri – ha scritto Rossi – gli storici mostrano che è imprevedibile anche il passato. Che anche il passato è pieno di cose nuove e sconosciute. Che anche esso sfugge alle classificazioni, alle pretese nonché all’arroganza di molti filosofi».
Rossi utilizzava spesso, modificandola e integrandola, una metafora, che risale agli anni Trenta del Novecento, dello scienziato polacco Ludwik Fleck, e presentava la ricerca storica come caratterizzata da una convinzione di fondo: il passato è un luogo allo stesso tempo «di provvisori “accordi” e di forti e altrettanto persistenti “disaccordi”», somiglia a un luogo «in cui parlano contemporaneamente molte persone, che hanno idee diverse e che le esprimono in lingue differenti, cambiando spesso interlocutore». Lo storico è impegnato – ma l’impresa è davvero ardua – nella ricostruzione dei significati di quella conversazione e cerca di tenersi lontano da storie di comodo.
Tutto questo sfocia in una lezione salutare, perché impone il cosiddetto copernicanesimo cognitivo che agisce come un farmaco antinarcisistico. Qui Rossi si richiamava alle riflessioni del filosofo Nicholas Rescher che, in un testo sui Limiti della scienza, aveva insistito sul fatto che non c’è niente di cognitivamente privilegiato nella nostra posizione nel tempo, niente di epistemicamente privilegiato in ogni presente, compreso il nostro. Dovremmo ricavarne che l’inadeguatezza delle interpretazioni di chi ci ha preceduto è equivalente all’inadeguatezza delle nostre interpretazioni agli occhi di chi verrà dopo di noi. Il copernicanesimo cognitivo rende inevitabile il decentramento nella storia del mondo e prescrive modestia e umiltà intellettuale.
Si tratta, purtroppo, di qualità sempre meno di moda. Il dibattito culturale continua – come si sa – a nutrirsi di contrapposizioni rigide e di arroganti semplificazioni. Da questo punto di vista, il richiamo alla storia ha oggi più senso che mai.