QUASI
Quasi reale
di Ioannis Schinezos
Giugno 2016. Mi trovo nuovamente nella mia città dopo anni di assenza, città che ormai mi fissa estranea voltandomi le spalle. Molti i contatti persi, lunghe file di incertezze, bisogna iniziare da zero. Le parole e le immagini unico mio rifugio sicuro. Lunedì mattina sul presto – ricordo – nemmeno la più esile traccia di nuvola nel cielo. Sto preparando il mio zaino fotografico per una breve escursione a caccia di piante nella campagna vicina, ma stavolta, stranamente, non è la razionalità a guidare la mia mano. Me ne rendo conto, mi sembra un azzardo, ma non faccio resistenza: lascio fuori gli obiettivi macro, da sempre utilizzati per riprendere la flora, e ci infilo un teleobiettivo. Un potente teleobiettivo e null’altro? Sì, mi suggerisce un’invisibile presenza. Borsa chiusa. Le strade cominciano ad animarsi ma presto abbandono la folla per infilarmi in uno sterrato e poi nel bosco. Silenzio roboante, lame di luce, ombre dense. Monto il teleobiettivo sul treppiede e disinserisco ogni automatismo della fotocamera. È ancora quella strana irrazionalità a guidarmi, una forza che ormai assecondo senza oppormi – anzi, spesso mi spingo oltre. Un coro di voci echeggia dentro di me suggerendo con fermezza di riprendere come non ho mai fatto, accostarmi all’imprevisto, amare l’errore: arrivano così immagini mosse, stravolte, fuori fuoco, con esposizioni alterate. E così per l’intera mattina di riprese.
E così per un mese intero. Per diversi mesi.
Lo schema ottico dei potenti teleobiettivi non si accorda con le piante, è adatto per riprendere la fauna selvatica, uccelli e mammiferi, da lunga distanza. Utilizzati con le piante, generano quindi risultati imprevedibili, persino decisamente pregevoli. Il reale diventa non definito, le forme non-forme, il fermo diventa mosso come portato via dalla brezza, i colori danzano in modo paradossale.
L’errore va evitato, ovviamente, in fotografia – non è ammesso. Ogni obiettivo, nel suo campo di applicazione, afferma l’approccio ortodosso. Stavo percorrendo il binario sbagliato, dunque, utilizzando un’ottica sbagliata con impostazioni sbagliate, ma quella strana e forte corrente mi stava trascinando via senza che io potessi alzare resistenza alcuna.
Inizialmente non mi interessava perché stavo riprendevo in quel modo: i risultati erano piacevoli e fuori dal comune, le stampe ricavate spettacolari e nelle mostre strappavano appalusi. Ma per quale ragione inseguivo con tanta dedizione l’errore, perché all’improvviso desideravo alterare la realtà naturale che avevo davanti? Per necessità espressive, si direbbe, d’accordo, ma perché?
Per carattere non amo rimanere in superficie, anche se infilarsi in vicoli bui costa fatica e dolore. Scavare dentro la mente in cerca di una ragione non è mai semplice, e alle volte non si trova nemmeno un esile filo a cui aggrapparsi per iniziare. Ora siamo a metà novembre, un anno e mezzo più tardi, in una galleria d’arte. La città immersa in una nebbia fittissima. È l’inaugurazione della mia mostra Astrazioni naturali – così recita l’invito. Sto fissando le mie stampe appese sul muro e cerco ancora di assegnare un perché a quelle immagini. E come per miracolo la risposta arriva: il periodo delicato che allora stavo attraversando, lo spaesamento, le incertezze. Desideravo alterare la realtà, evitavo di guardarla negli occhi, il mondo mi scorreva davanti pieno di distorsioni ed io, senza difese, ricorrevo all’errore per esprimermi. In galleria la gente dialoga amabilmente con un bicchiere di vino in mano. Nulla è per caso, mi dico, nemmeno una spettacolare fotografia quasi reale, mossa e fuori fuoco.


