QUASI
Quasi sulla strada giusta
di Franco Michieli
Davide Molinaro intervista Franco Michieli
Come spiega nel suo libro Per ritrovarti devi prima perderti, da anni lei ha scelto di muoversi nella natura, imparando gradualmente a fare a meno della tecnologia per vivere appieno l’immersività dell’avventura. Nel momento in cui rinunciamo alla strumentazione tecnica per orientarci stiamo rinunciando non solo alla comodità, ma anche alla precisione e ci viene perciò richiesto uno sforzo in più. In compenso, il torpore inebetito della comodità si riscatta nell’urgenza della sopravvivenza e la chiusura perfetta propria della precisione si umanizza nell’apertura imperfetta del vagare e della vaghezza. Secondo lei, saper abbracciare questo sforzo o lasciarsi guidare da indicazioni quasi precise può restituirci un sentimento della vita e della presenza che oggi facciamo difficoltà a trovare? Perdere l’esigenza di precisione e comodità può essere un buon modo per ritrovarsi?
La precisione è un concetto legato più che altro alle attività tecnologiche dell’uomo. Nel momento in cui ci troviamo a compiere gesti quasi esclusivamente corporei, senza utensili complessi, senza venire teleguidati e senza dover eseguire un esercizio programmato, l’idea stessa di precisione perde significato. Viene naturale adattare l’azione, e di conseguenza il pensiero, a ciò che ci si presenta innanzi istante dopo istante, con le sue parti di incertezza e di ignoto. Aderire umanamente alla realtà, che continua a mutare e a lanciarci nuovi stimoli, ci porta spontaneamente all’approssimazione.
Viaggiare a piedi togliendo comodità e certezze quali mappe, bussola, orologio e cellulare mi ha insegnato ad apprezzare sempre più la bellezza e la forza dell’inaspettato. Forse è una dimensione difficile da capire in astratto, ma una volta vissuta ci conquista; diventa un desiderio profondo, perché esalta la nostra umanità: scopriamo di avere in noi doti e sensibilità dimenticate che sanno condurci fra gli eventi in modo molto più armonico e appassionante rispetto a quando ci affidiamo a guide esterne o a protesi tecnologiche. Non solo: se sfuggiamo al narcisismo, comprendiamo presto che a funzionare così bene non sono io individuo, ma la relazione diretta tra le mie doti e il divenire che mi circonda. È la relazione personale che funziona, che apre strade vere e fa trovare mete! In questo senso, esercitare l’approssimazione come metodo di ricerca dona serenità e non ansia, perché l’eventuale deviazione è fonte di nuova comprensione; è parte di una via in fase di creazione, che si può correggere non appena appare un nuovo punto di riferimento.
L’esplorazione che ho vissuto in tanti viaggi e che continuo a cercare è dunque ‘esplorazione della relazione’: arrivare quasi a perdersi, condizione in cui tanto da me stesso quanto dalla natura emergono potenzialità sconosciute e straordinarie, ma in realtà normali perché frutto di milioni di anni di evoluzione all’interno della natura. Col tempo mi sono reso conto che questa filosofia di apprezzamento dell’imperfezione rende molto più serene anche le relazioni umane.
Il verbo ‘approssimare’ deriva etimologicamente dal latino ad-proximare e suggerisce un ‘andare verso’, un ‘farsi vicini’ che insiste sulla durata del movimento, un lavoro procedurale a tentativi sempre provvisori in cui ci si perde e ci si ritrova continuamente, ma che non giunge mai a pieno compimento. Tuttavia, in un senso più fenomenologico, ‘riavvicinarsi’ alla natura significherebbe riscoprirne le modalità di percezione che aprono a uno spazio relazionale di co-partecipazione e di riconoscimento, una percezione empatica della vita dei luoghi. Sulla base di queste interpretazioni, cosa significa per lei approssimarsi alla natura? Ricorda un’esperienza in cui è stato così vicino all’ambiente naturale da sentirsene parte?
La prospettiva di avvicinarmi alla natura ha rappresentato per me una motivazione fortissima fin da quando ero bambino. Nell’infanzia sentivo un forte legame con gli animali, che poi si è allargato a tutta la Terra.
Al tempo stesso, questo desiderio di riavvicinamento è stato spesso stimolato da percezioni negative dei comportamenti umani, che mi hanno indotto a chiedermi: non si potrebbe agire in altro modo? Da ragazzo, è stato questo insieme di motivazioni a farmi partire per il primo lungo viaggio, la traversata alpinistica delle Alpi iniziata poche ore dopo l’esame di maturità liceale, nel 1981. Ero convinto che una permanenza di quasi tre mesi nel divenire delle montagne mi avrebbe trasformato e rivelato molte verità. Perciò, per restare in intimità duratura con le Alpi, decisi di passare le notti all’aperto, solo con saccopiuma e stuoia, senza portare con me la tenda e il fornello. Recuperare il ritmo del cielo, esponendomi all’alternanza di sole, stelle e nubi, è stata la scelta decisiva, che ha generato un’intimità profonda tra me e l’ambiente. Allora, come poi altre volte in viaggi anche più lunghi e selvaggi, mi sono sentito nella mia più autentica dimora: nella natura ero a casa, e percepivo la sua collaborazione misteriosa, che ispirava i passi a trovare vie buone anche nella tormenta e nella quasi invisibilità. Questo non vuol dire che mi sia sentito fuso alla natura perdendo la personalità: ho continuato a percepirmi uomo, ma al cuore di una partecipazione corale di eventi liberi, non programmati da ideologie umane e dunque degni di grande fiducia.
Dal 1998, quando ho cominciato a viaggiare lasciando a casa carte topografiche, bussola e orologio, oltre ai nuovi strumenti di telecomunicazione, le situazioni di profonda interdipendenza si sono moltiplicate. Sapermi quasi disarmato – nel senso che dispongo di abbigliamento e viveri, ma non di aiuti tecnologici per trovare una via – genera in me le dimensioni di più intensa appartenenza alla natura. Quando mi sento più fragile a contatto con le forze naturali e scopro altri esseri viventi, piante o animali, che resistono nelle stesse condizioni, riesco a specchiarmi in loro, a sentire intensamente la comunione che ci unisce. Amo le terre nordiche anche perché là questa dimensione si avvera spesso.
Non avere il pieno controllo ci costringe a farci guidare dalla natura, lasciarci toccare per risentirci parte di essa: come un esercizio di fiducia, schiude una sfera relazionale, percettiva e spirituale per riscoprire la compagnia del mondo e sentire la via che c’è anche se non la si vede. Avere la situazione semplicemente quasi sotto controllo e non sacrificare mai completamente il rischio all’ossessione della sicurezza assoluta possono essere degli ingredienti fondamentali per riappropriarsi di un senso dell’avventura di cui sentiamo la mancanza. Qual è però il limite che definisce il grado di controllo e di sicurezza che da un lato non snatura l’esperienza, ma dall’altro nemmeno mette a repentaglio l’incolumità del viaggiatore? Perdere un po’ di controllo e di sicurezza nel viaggio può essere un buon modo per ritrovarsi?
La consapevolezza da ricordare a noi stessi in ogni momento è che la ‘sicurezza’, in questo universo, non esiste. Nessuno può predire il futuro, né tantomeno averne un tale controllo da far andare le cose secondo un programma inalterabile. La realtà è fatta di innumerevoli potenzialità, ma solo alcune si verificano, contraddicendo spesso le previsioni più accreditate.
La continua insistenza su una cosa che non esiste è un’imposizione ideologica che fa comodo a molti, ma che espone l’umanità a enormi rischi, perché svia dall’unico metodo utile alla vita: tenere desta l’attenzione, agire con cautela, leggere gli eventi con la propria testa e in libertà, al vaglio dell’esperienza. Mi piace pensare all’emozione che chiamiamo ‘paura’ come fosse un cane fedele, disposto a starci sempre accanto, pronto ad avvertirci se presagisce qualche nostra mossa rischiosa. Quando mi muovo nella natura in autentico isolamento, posso sperimentare la grande efficacia di questa condizione: so di essere completamente responsabile del mio comportamento – nessuno potrebbe venire a soccorrermi – perciò agisco con un misto di prudenza e coraggio che si origina nella profondità dell’inconscio, ereditata da milioni di anni di evoluzione; è questa condizione che mi permette di agire e salvaguardarmi, nei limiti del possibile.
Dobbiamo però rispondere a una domanda: fino a che punto la presenza di qualche rischio (ma dove non ce ne sono?) mi permette di conquistare conoscenze e consapevolezze che elevano la vita, e dove invece la mettono in pericolo offrendo in cambio solo obiettivi futili, quali l’illusoria ammirazione degli altri o una soddisfazione narcisistica? Dovremmo pensarci bene per esempio inoltrandoci in un’area wilderness con o senza strumenti per chiedere soccorso, ma ancora di più mettendoci al volante di un’automobile intenzionati o meno a rispettare il codice della strada.
Premesso che, per prima cosa, va valutato il nostro livello di preparazione, il punto è: che cosa cerchiamo? Perché desideriamo vivere un qualsiasi tipo di esperienza avventurosa o esplorativa, nella natura o altrove? Per la gloria o il record, per postare una storia dai molti click, per attirare l’attenzione su un messaggio oppure per conoscere qualcosa di vitale e conoscibile solo a contatto con l’ignoto, l’incerto o l’immenso, e altrimenti inattingibile? Dopo lunga esperienza, ritengo che le vie per ritrovarmi donate dall’isolamento nella natura valgano infinitamente di più dei rischi modesti che potrei aver corso.
«Riuscire ad amare cose che nella nostra mente paiono difettose è una delle mete di ogni cammino, perché vuol dire capire la vita», così riassume brevemente il valore dell’imperfezione nelle ultime pagine del suo libro. L’incompletezza, l’incompiutezza e l’imperfezione smettono di essere un difetto problematico e diventano invece un’opportunità, infinitamente umana, che il concetto di ‘quasi’ raccoglie. È quel desiderio umano che dà senso alla nostra esistenza, stimola e nutre ogni personale avventura, ma non può mai essere completamente esaudito. Noto è il legame etimologico che vige fra la parola ‘desiderio’ (de- + sidus) e le stelle: a lungo hanno permesso all’uomo di orientarsi e viaggiare, meta verso cui possiamo tendere ma che non possiamo raggiungere, per quanto capiti, a volte, che ci sembrino così vicine da poterle quasi toccare. Cosa ne pensa di questo curioso legame fra le stelle e il desiderio?
Probabilmente nel passato dell’umanità le stelle hanno avuto ben altra importanza di quella attuale, resa insignificante dall’illuminazione elettrica. Ho riflettuto molto spesso sulla vita preistorica, quando, non esistendo abitazioni permanenti, il tetto che ci stava sopra il capo era il cielo stesso. Nella lunghezza delle notti, gli astri davano vita a uno spettacolo ultraterreno che non finiva di stupire e di ispirare storie e significati: stelle e pianeti erano trasformati in personaggi, la loro composizione in costellazioni raccontava storie mitologiche in cui si riflettevano miti diversi per ciascuna cultura. Penso che dalle stelle si attendessero delle risposte: il legame etimologico del desiderio con le stelle deve essere molto antico.
Mi sono reso conto di questa relazione durante il mio viaggio giovanile attraverso le Alpi. Camminare fino al tramonto, poi cercare un angolo adatto per stendere stuoia e saccopiuma, mangiare un panino o due e coricarsi in attesa del sonno mentre sopra gli occhi il cielo si oscurava e apparivano lentamente le stelle: scoprii che proprio quello era un momento di ritrovamento, di incontro con riferimenti stabili, non importa se irraggiungibili. Mentre di giorno ci trovavamo spesso in ambienti sconosciuti, che a volte suscitavano un senso di incertezza, all’apparire delle costellazioni ritrovavamo una visione abituale, memorizzata fin dall’infanzia: stelle che si accendevano al loro posto, facendosi riconoscere. Pareva quasi di incontrare dei vecchi amici. Tante volte, in seguito, la stella polare o le costellazioni che le girano attorno mi hanno indicato come orientarmi. Ancora più spesso lo ha fatto la nostra stella, il sole. Per questo gli astri non possono che essere oggetto del desiderio per il viandante che cerca una via o del marinaio che tiene la rotta nella notte. Trovare una via perduta dà un senso di elevazione della vita; non per niente ciascuna delle tre Cantiche della Divina Commedia si conclude con la parola ‘stelle’.