QUASI
Quasi umani
di Roberto Macchiarelli
Il dibattito sulla natura umana, che storicamente si dipana senza soluzione di continuità dall’immateriale all’approccio sperimentale, è da sempre spazio di confronto-scontro: in funzione dell’angolo di orientamento e risoluzione della lente d’ingrandimento che usiamo per osservare il soggetto e i fenomeni ad esso correlati, il ritorno d’immagine della nostra identità varia considerevolmente.
L’angolo di osservazione e il tipo di lente usati dai paleoantropologi e dagli altri esperti del passato che si occupano di documentare e interpretare la storia naturale e il divenire dei rappresentanti della linea evolutiva umana nel quadro dinamico delle variazioni climatiche e degli ecosistemi attraverso gli ultimi 3 milioni di anni, sono relativamente semplici e parsimoniosi: 1) prendono prioritariamente in considerazione le evidenze documentate dai reperti preservati negli archivi sedimentari della Terra, che oggi possono essere datati e contestualizzati con ottima approssimazione; 2) ignorano volutamente l’immateriale suscettibile di apprezzamenti arbitrari in funzione degli ambiti storico-culturali e dei sistemi ideologici di riferimento, dei credo, delle tradizioni, dei miti; 3) non prevedono a priori alcun risultato, ma generano modelli che vengono progressivamente affinati grazie ad osservazioni e misure ripetibili e riproducibili.
Lontano dal generare verità, ma solo modelli interpretativi dei fenomeni il più possibile consensuali a un momento dato e sempre perfettibili in funzione di nuove scoperte, dell’evoluzione delle tecnologie analitiche e dell’avanzamento dei principi teorici, questo modus operandi è piuttosto una sorta di precauzione atta a minimizzare i rischi dell’arbitrarietà a vantaggio della costruzione di elementi di conoscenza il più possibile condivisibili. Questo materialismo non è un’ideologia, ma un semplice principio di funzionamento che nel corso degli ultimi quattro secoli ha consentito di prendere progressivamente distanza dai dogmatismi per analizzare i fenomeni nel modo più obiettivo possibile, senza giudizi morali e a priori. In questo senso, la ricerca scientifica non ha la presunzione, ma piuttosto l’ambizione di rappresentare la natura in modo condivisibile in un mondo multiculturale eterogeneo che, per tradizione, ha posto erroneamente l’Uomo all’apice, quando non del tutto al di fuori, del mondo naturale. Una parte del lavoro dei filosofi della scienza consiste appunto nel fungere da ponte tra immateriale e sperimentale. Nell’immaginario collettivo, talvolta anche in quello di persone colte di formazione umanistica classica, la storia naturale dell’Uomo si riduce a dei cliché ereditati con poche rettifiche dagli stereotipi della seconda metà dell’Ottocento, dove, quasi invariabilmente attraverso l’enorme diversità delle culture e delle tradizioni che caratterizzano l’umanità, persiste una visione semplicista della narrazione di ciò che siamo, o che riteniamo di essere, una narrazione sovente intrisa di pregiudizi, sostanzialmente avulsa da un reale contesto naturale, raramente supportata da una qualche minima evidenza scientifica. Se/quando un processo evolutivo dell’umanità è in qualche modo ammesso – in realtà, un processo spesso concepito come percorso di miglioramento tendente alla perfezione – esso è visto come necessariamente progressivo e lineare: da quadrupedi incerti si diviene bipedi vigorosi ed efficienti; da esseri pelosi con la pelle scura ci si trasforma in statue greche marmoree dal corpo ben tornito; da fragili e incerti eccoci forti e determinati, perfettamente funzionanti. Lentamente ma inesorabilmente aumentano il volume del cervello e la statura. Mancano appena le ali, ma quando sarà il momento esse spunteranno. E voilà, la nostra identità moderna.
Eppure, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, i progressi delle ricerche permettono ormai di scartare i molteplici tentativi di narrazione semplicista e lineare della nostra storia: il nostro divenire, come quello di gran parte degli organismi, si è articolato in forma di cespuglio, i cui rametti sono spesso interconnessi in diversi punti a formare una sorta di reticolo, eterogeneo e sempre unico, ogni volta un modello irripetibile.
Oggi conosciamo meglio gli scenari dell’origine del genere Homo – il continente africano, poco meno di 3 milioni di anni fa – e della nostra specie sapiens – nuovamente l’Africa, intorno a 300.000 anni fa – e, in modo sempre più preciso, le grandi tappe della storia del popolamento dei continenti. Di più, conosciamo il ‘magma ominino’ da cui è scaturita la linea umana – verosimilmente dal genere Australopithecus – e ne apprezziamo più precisamente la paleobiodiversità e gli ambiti di variazione in seno a ciascun taxon. Non d’interesse minore è la scoperta dell’erroneità dell’equazione di cui a torto ci siamo sempre fregiati rispetto a tutti gli altri esseri viventi: cultura = umanità, dato che altri ominini non umani, ma non solo, erano in grado di forgiare e utilizzare strumenti oltre mezzo milione di anni prima di Homo. L’affinamento delle tecniche di identificazione e di scavo dei siti, di analisi dei reperti e di caratterizzazione dei contesti ci ha permesso di decriptare in modo sempre più preciso i frammenti d’informazione sui comportamenti dei nostri antenati e predecessori ancora impressi in filigrana nei sedimenti. Per decenni abbiamo creduto poi che l’Uomo fosse apparso nel periodo detto Quaternario (più precisamente, nel Gelasiano del Pleistocene, al massimo 2 milioni di anni fa), mentre ormai sappiamo che l’emergenza del nostro genere avvenne durante il Piacenziano del Pliocene, dunque durante l’epoca immediatamente precedente. Forse, la sorpresa maggiore viene dalla conferma che, all’epoca della nostra apparizione e per circa tre quarti della nostra esistenza, noi, Homo sapiens, non siamo stati gli unici esseri umani ad abitare il pianeta ma abbiamo convissuto con altre forme, altri modi di essere umani diversi dal nostro, evidenza che fragilizza i miti legati alla concezione di una trasformazione lineare dell’umano che avevamo costruito ad hoc per celebrare la nostra unicità, e che invece ci obbliga a nuove riflessioni sulla nostra natura. Di più, discipline come la paleogenetica e la paleoproteomica rivelano dinamiche di scambio avvenute in modo intermittente nel tempo e nello spazio tra diverse forme umane, le cui tracce sono ancora parte costituente del nostro patrimonio genetico. Non si può però negare che, almeno nel registro fossile, il confine ‘ominino non umano’ vs. ‘ominino umano’ rimane confuso e la sua identificazione arbitraria. Cosa autorizza ad attribuire con più probabilità al genere Homo, piuttosto che ad Australopithecus, la porzione di mandibola LD 350-1 rinvenuta nei livelli di 2,8-2,7 milioni di anni fa di Ledi-Geraru, nell’Afar etiope? Su base comparativa, qualche dettaglio della morfologia occlusale di qualcuna delle cinque corone dentarie preservatesi, certe loro dimensioni, l’orientamento del profilo del margine alveolare, lo spessore e l’altezza del corpo del fossile. Quando si procederà negli studi, a queste caratteristiche forse si aggiungeranno quelle ancora da verificare dello spessore dello smalto, magari appena superiore a quello di un australopiteco, la struttura della giunzione smalto-dentina, la forma e il volume della camera pulpare del primo molare, il volume e l’orientamento delle radici. Ma non lo sappiamo ancora, anche perché la comparsa evolutiva di nuovi tratti morfologici si realizza a mosaico. Ecco, anatomicamente, si riassume in poco più che questo il ‘primo Uomo’, o magari l’ultimo ‘quasi Homo’. Nient’altro? Poco, pochissimo, almeno finora, in attesa che nuove tecnologie e protocolli di analisi ci aiutino a svelare ciò che ancora ignoriamo.
Ma Homo è anche altro, si dirà, non solo anatomia, anche funzione. Certo, senz’altro, ma non più di quanto non lo fosse anche la coppia di australopiteci che generò un essere che oggi noi classifichiamo come umano.
Affaire à suivre.