SCARTI E ABBANDONI

Centinaia e centinaia di piccoli musei etnografici moltiplicatisi in Italia negli ultimi trent’anni hanno raccolto, trattengono e mettono in vetrina un poco di ciò che le ultime due o tre generazioni hanno trovato comodo buttare: scarti del mondo preindustriale, della cultura contadina, dell’agro-pastoralismo alpino, dell’armamentario di cose che reggevano il vivere popolare e piccolo borghese. Sono discariche/vetrina di genere particolare, istituzioni di garanzia dalla smemoratezza a piccolo raggio che oggi cercano nobilitazione: non possono ambire al piano alto della ‘memoria nobile’ (musei d’arte, biblioteche civiche, archivi), nascondono spesso l’abito liso e la loro fragilità sotto le nuove etichette alla moda degli ecomusei, delle reti museali e dei musei diffusi. Ma c’è anche di più: sotto la linea dei piccoli musei – realtà comunque, più o meno felicemente istituzionalizzata – esiste il mondo magmatico del piccolo collezionismo privato (dai santini ai ditali: universi incredibili di quotazioni, riviste specializzate, scambi, reti internet), dei micromusei domestici, delle piccole raccolte che riempiono le pareti di alcune trattorie tipiche e i tavoli dei mercatini dell’usato; il mondo degli amatori (competentissimi) di piccole cose, dei ricercatori di oggetti e parole perdute, delle classi scolastiche che rivisitano il territorio e spremono la memoria dei nonni, delle tradizioni reinventate per i turisti. Una frana di detriti che viene trattenuta; una varietà di motivazioni che fa da freno alla scomparsa definitiva. Rituali di memoria e di identità, fili che non si vogliono rompere, pietas storica, desiderio di tenere in vita, voglia di conoscere, sfruttamento della tradizione: di tutto un po’.

Se potessi scegliere, come emblema del mio personale piccolo museo vorrei un setaccio. Serviva a separare semenza e scarto, giusto ed eccedente, farina e crusca, sabbia e ghiaia, ma era anche un utensile dalla grande potenza simbolica, da millenni al centro di rituali di divinazione caratterizzati dalla lunghissima durata, tanto tenaci da irridere gli sforzi dei razionali riformatori di turno. Strumento sapiente: per un verso connetteva la categoria dell’utile/inutile con quella del vero/falso, dall’altro ne proclamava la relatività: su entrambi i fronti, dipende dalla larghezza delle maglie.
Che cosa trattenere, che cosa buttare? Che cosa è scarto, e quando e per chi?

Nella geografia degli abbandoni che fa da sfondo a questo numero c’è anche la Benecia, la ‘Venezia slava’: le valli a parlata slovena del confine orientale d’Italia e del Friuli. Case abbandonate, paesi svuotati, genere di vita tradizionale dismesso; eppure una storia non finita e una vicenda che proprio nella marginalità e nell’abbandono trova ragioni e opportunità di ripartenza, come a Topolò (e altrove). Ad abitare le valli, nelle aree di margine fra il domestico e il selvatico, c’era anche lo škrat, una sorta di folletto su cui la tradizione orale conserva molte storie. Questa è stata raccolta da Pavle Merkù a Starmica/Stermizza alcuni anni fa, raccontata da Matilde Cudrig: un bambino di 12 anni, mandato al pascolo, viene assalito da una bufera di vento e grandine che quasi lo ghiaccia. Piange disperato ed ecco gli compare davanti lo škrat che lo interroga, fa in modo di riscaldarlo e gli si rivela come fratello. «Ma io non ho fratelli!»; «Sì, invece – insiste lo škrat – torna a casa, chiedi a nostra madre e consegnale questo grembiule, che lo indossi». Così fa il ragazzino, tornato a casa. La madre impallidisce, corre dal prete e confessa: quello è proprio il grembiule nel quale a suo tempo aveva avvolto la creatura uccisa subito dopo il parto per seppellirla di nascosto e in un luogo fuori mano come si fa con le bestie. «Non indossarlo», raccomanda il prete; «lega il grembiule a un tiglio – l’albero-simbolo della casa e della comunità di villaggio – e corri lontana». Lei lega quel povero sudario alla pianta ed ecco che a ciel sereno una saetta si abbatte sul tronco e lo schianta.

Lo škrat di Starmica: aborto inconfessato o neonato ucciso dalla propria madre sulla soglia del vivere, abbandono e scarto nella situazione estrema. Anzi, doppio scarto; la partoriente (in stato liminale e di impurità) uccide la propria creatura ancora ‘pagana’, prima di darle battesimo, nome, anima, giusto rituale di sepoltura, ne fa uno scarto per il mondo di qua e per quello di là. Ma non lo elimina né dentro di sé, né per il mondo delle relazioni comunitarie. Crea solo un grumo di marginalità ambigua e vendicativa che resta in scena e rimette in discussione la sistemazione ordinata che ci si illude di creare con il colpo di scopa che getta la sporcizia nell’angolo.

Il contesto opposto, la modernità invece della tradizione: non si lasciano dissolvere neppure le montagne di spazzatura prodotte dagli abitanti di Leonia, una delle profetiche (era il 1972!) femminili ‘città invisibili’ di Calvino, quella che si segnala per il gusto delle cose nuove e diverse. La passione per le novità (come quella per la pulizia o per la sicurezza) ha un effetto certo: si regge sull’abbandono e lo scarto, così che «soltanto l’inutile, lo sgradevole, il repellente, il velenoso e lo spaventoso è abbastanza duro da essere ancora lì col passare del tempo», come nota Zygmunt Bauman. Alla fine, il prodotto principale dei cittadini di Leonia sono proprio i cumuli di spazzatura sempre più alti. Disastro e buon affare (per alcuni) nello stesso tempo. Lo stesso effetto che si avrebbe nella città gemella dove invece si conserva tutto, dove non si getta via mai nulla.

Dare l’anima è l’ultimo contributo di Adriano Prosperi che arricchisce la bibliografia dello scarto e dell’abbandono. Muove da un infanticidio di trecento anni fa, ma tocca questioni scottanti. Bel libro, tanto da meritarsi – ho letto l’incredibile recensione di Lucetta Scaraffia su «L’Avvenire» del 3 luglio 2005 – l’immediata collocazione in quella sorta di discarica che è per le persone con la scopa in mano l’Indice dei libri da segnare a dito, che sarebbe meglio non fossero stati scritti. Per nostra fortuna, libri che invece si scrivono.

Lucia Cremonini, la ragazza che a Bologna nel 1709 sopprime la sua creatura indesiderata, è produzione di scarto nel suo grado zero. Compie un atto terribile e inaccettato, ma apre anche uno squarcio su una sorta di buco nero che si ripropone in maniera ossessiva nella storia dell’Occidente sia cristiano che laico. Il controllo diretto o indiretto sulla ‘produzione di nuovi esseri umani’ è un dato culturale di struttura; nessuna donna in nessuna cultura ha mai avuto tutti i figli che la natura le avrebbe permesso di avere. Il meccanismo ‘primitivo’ che tiene legate le sfere della produzione e della riproduzione ha macinato e macina scarti; il processo di ‘civilizzazione’, pietosa o illuminata, è stato anche capace di suscitare istituzioni sociali complesse (e ipocrite, per la loro parte) di accoglimento per trovatelli e traviate, ma l’infanticidio resta l’emblema più incisivo dell’incapacità di cancellare la pratica dell’eliminazione di uomini da parte di altri uomini. Lo scenario della soppressione o dell’abbandono dei figli indesiderati (come delitto che lascia traccia di sé nelle carte d’archivio oppure come pratica sociale pubblica e accettata, o familiare e sotto traccia), nel libro di Prosperi si trasforma in oggetto storiografico privilegiato perché posto al centro del dire mutevole e contraddittorio degli uomini intorno a se stessi e alla propria natura: il complesso significato delle nozioni di persona e di anima, il nesso che lega il nascere e il morire e genera le rappresentazioni dell’aldilà (del prima e del dopo), il rapporto fra giustizia e perdono e fra accoglienza e rifiuto, il bisogno di memoria e di dimenticanza, l’esigenza di rituali condivisi. E, più in profondità ancora, il nesso fra la coscienza dell’irriducibile peculiarità dell’individuo e la spinta prepotente che viene dal contesto comunitario a indossare maschere conformi. Così, nel groviglio delle contraddizioni e nell’incrocio incoerente dei significati, la madre di scarto uccide e produce a sua volta materiale di scarto, una vittima produce una vittima. Bella lezione: chi sente il dovere di stare dalla parte delle vittime dovrebbe sapere che c’è sempre una vittima ulteriore.

Presentando il brano di Menschen in Auschwitz scelto per La ricerca delle radici (1981), Primo Levi notava il risultato sorprendente della lunga e dolorosa indagine condotta in quella terribile discarica da Hermann Langbein non per accusare o commuovere, ma per aiutare a capire: «…non ci sono demoni, gli assassini di milioni di innocenti sono gente come noi, hanno il nostro viso, ci rassomigliano. Non hanno sangue diverso dal nostro, ma hanno infilato, consapevolmente o no, una strada rischiosa, la strada dell’ossequio e del consenso, che è senza ritorno». Così, nella lezione di Levi, ‘etnologo della zona grigia’, il bene e il male non si danno mai come elementi separati entro processi controllabili; neppure nel Lager si dà che la vittima sia di per sé nel bene al cospetto di un carnefice che è nel male (S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza, 2003). Di fronte e dentro il groviglio, l’atteggiamento più onesto è imparare a distinguere: mettere le mani, setacciare con cura, dipanare filo da filo, raccontare ciò che si incontra.

Il bene e il male di fronte alla scelta del tenere e lasciare, del conservare o gettare. Miti antichi ricordano come il puro maturi sul putrido – le api e il miele dalla putrefazione delle carogne, i bachi e la seta dalla fermentazione del letamaio del santo Giobbe – e come occorra affrontare e oltrepassare i sentimenti di rifiuto, fastidio, orrore, paura o schifo che l’universo degli scarti suscita. Le scorie sono anche ricchezza, la vita reinvenzione, il futuro richiede l’abbandono. Abramo deve accogliere l’invito ad abbandonare Carrai, ma la memoria di quell’abbandono deve essere preservata.

Il gioco è antico per animali capaci di trasgressione, insoddisfatti e ‘trascendenti’, quali siamo; ma è anche nuovo. L’espressione ‘usa e getta’ (prima le lamette da barba e poi i pannolini) è nella lingua italiana da 28 anni. Fa come da spartiacque fra il prima, la cultura del rattoppo e del riciclo, e il poi segnato dal peso crescente delle discariche e dalle scorie che ci soffocano; e più soffocano più si presentano come nuova risorsa, più garantiscono profitti. L’arte del riciclo ha cambiato luoghi, modi e tempi. Nuovi sono anche il peso e la visibilità delle ‘vite di scarto’ – abbandoni di patrie, affetti, sicurezze, relazioni, sistemi di significato, tradizioni, ruoli – che la ‘modernità-liquida’ produce in maniera crescente: tutto è provvisorio, aumentano gli spazi dell’irrilevanza e resta la domanda inquietante del «domani toccherà a me?».

Irrilevanza per chi? All’opposto del nuovo e fluido mondo in cui nulla è insostituibile e che ha il suo emblema nell’etichetta con la data di scadenza, Bauman, in alcune discusse pagine, colloca i contesti religiosi dove invece governano le nozioni di infinito e di eternità. Lì non si dà idea di irrilevante e di inutile; nulla di ciò che esiste e accade è superfluo e privo di un suo senso, indipendentemente dalla nostra difficoltà a comprenderlo; proprio dal fondo può sgorgare la salvezza e il rovescio vale quanto il dritto. La ‘cultura dei rifiuti’ dentro cui stiamo farebbe dunque i conti anche con la caduta in disgrazia delle prospettive religiose che negano l’irrilevanza di alcunché e garantiscono dalla dissoluzione ciò che viene scartato dagli uomini. Ma è un altro groviglio: è facile richiamare, a confronto, quanto di inquietante stia nel cuore stesso dell’esperienza religiosa, alle prese anche con altre nozioni – il sacro, il puro, la norma, e così via – che sono invece generatrici di gerarchie e di rifiuti, e quanto abbia pesato (e pesi) la forza della discriminazione religiosa nei processi storici di produzione della marginalità e dello scarto.

Non sul piano delle esperienze di vita, ma su quello della loro osservazione e interpretazione, altri terreni di rifiuto dell’irrilevanza e di valorizzazione (emotiva e conoscitiva) di ciò che appare come scoria e angolo morto sono quelli del fare artistico e della pratica scientifica. Fin dall’inizio, e in singolare coincidenza con il percorso delle avanguardie artistiche attirate dalle capacità rappresentative degli scarti, anche l’antropologia si è posta di fronte alla fossa dei residui, dell’inferiore, della scoria che sopravvive ai margini. Continua a frugare negli angoli, ha perfezionato quest’arte e insegue la potenzialità conoscitiva che si ricava dall’incontro con i popoli delle discariche (delle discariche reali, anche ai margini delle nostre città), per dirla con la ‘ziganologia’ di Leonardo Piasere, costituita lungo lo stretto sentiero che corre in mezzo alle paludi della ziganofobia e della ziganofilia. Nulla è irrilevante, quando si ha di fronte il fenomeno dinamico e fluttuante della diversità culturale e la si pensa come intrinseca e costitutiva dell’ominità stessa. Il valore della più stravagante delle credenze e della minima fra le lingue, quanto a numero di credenti e parlanti e a capacità di reggere nei rapporti di forza, si dà per il fatto stesso del loro esistere e del loro essere diverse. Ma resta tutta intera sul tavolo la questione del come e perché la diversità si traduca così spesso, immancabilmente si direbbe, in emarginazione e rifiuto. Per questo una buona antropologia della spazzatura si traduce in buona antropologia degli spazzini. Studi i ‘primitivi’ e capisci meglio le miserie dei civilizzati civilizzatori, ti sforzi di capire i condannati e scopri le nudità dei giudici, ti cali fra gli zingari e ti restano fra le mani le paure e i pregiudizi dei gagi.

multiverso

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