SCARTI E ABBANDONI
La pietra scartata divenuta pietra angolare
di Nicola Borgo
Nella prima lettera di Pietro incontriamo questa specifica affermazione: «Avvicinandovi a lui (il Signore) la pietra vivente scartata dagli uomini ma scelta da Dio e di valore, siete costruiti anche voi come pietre viventi in edificio spirituale… Per questo si trova nella Scrittura: – Ecco, pongo in Sion una pietra scelta, angolare, di valore e chi crede in essa non rimarrà confuso -. Il valore è per voi che credete; per coloro che non credono, la pietra scartata dai costruttori è diventata angolare, sasso d’inciampo e pietra di scandalo. Essi inciampano disobbedendo alla parola e a questo inciampo sono destinati. Ma voi siete … un popolo santo … destinato ad annunciare pubblicamente le opere degne di colui che dalle tenebre vi chiamò alla sua luce meravigliosa…» (1 Pt 2,4-9).
Il brano ci obbliga ad alcune precisazioni.
a) Sul senso proprio del termine ‘pietra’
Nel Nuovo Testamento ‘o lìthos’ indica la pietra, tanto grezza che squadrata, che può avere ulteriori specificazioni;
in Mt 3,9 ha probabilmente il significato di roccia;
in Mc 15,46; 16,3s; Mt 27,60.66; 28.2; Lc 24,2; Gv 20,1 è soprattutto macigno non sgrossato che si poteva rotolare all’ingresso di una tomba.
Ci sono pure le pietre preziose simbolo di magnificenza e di ricchezza: le mura della Gerusalemme futura saranno costruite con pietre preziose (Is 54,11s).
b) Su una sua singolare funzione animata
Nella Scrittura si parla spesso del grido accusatore, del grido di oggetti inanimati che invocano la punizione divina: così grida il sangue dell’assassinato (Gen 4,10; Ebr 12,24), il campo saccheggiato (Gb 31,38), il salario tolto agli operai (Gc 5,4); in questo senso si parla anche del grido della pietra che deve essere testimone dell’iniquità e della violenza: «La pietra griderà dal muro» (Abac 2,11).
c) Su una sua valenza profetica
Il Battista afferma: «Vi dico che Dio può far nascere ad Abramo dei figli da queste pietre (rocce)». (Mt 3,9).
Il riferimento è ad Isaia (51,1-2) dove Abramo viene paragonato ad una roccia e i suoi discendenti a pietre tagliate dalla roccia.
Da notarsi che in Palestina la pietra era, proverbialmente, l’oggetto del minor valore possibile. In senso traslato l’espressione significa genericamente «far comparire nella storia», «far nascere»; in senso più specificamente semita vuol dire far scaturire una discendenza. Con un’immagine volutamente paradossale si afferma che Dio ha la potenza di far sì che le pietre «ricevano la capacità di generare uomini».
L’immagine delle rocce che generano figli si oppone con forza al dogma giudaico secondo cui la salvezza dipende dalla purezza genealogica. Anzi Dio può (nuovamente!) far generare alle rocce di Abramo, se i figli di Abramo per discendenza pura rifiutano la realizzazione del suo progetto.
In tutta una serie di passi del Nuovo Testamento Cristo viene paragonato ad una pietra (Mc 12,10; Mt 21,42; Lc 20,17; Lc 20,18; At 4,11; Rom 9,32s; 1 Pt 2,4-8).
a) Gesù è chiave di volta e pietra angolare del vero tempio di Dio
Secondo Mc 12,10 e Lc 20,18 Gesù stesso è stato il primo ad usare nei propri confronti l’immagine della pietra: «La pietra che i costruttori scartarono divenne, proprio quella, chiave di volta» (Ps 117/118, 22).
Anche Ef 2, 20-22 parla di Gesù come chiave di volta: egli sarà scartato dagli uomini come una pietra da costruzione inutilizzabile, ma Dio lo innalzerà a chiave di volta.
b) Cristo è ‘pietra’ annientatrice e pietra d’inciampo
Secondo Lc 20,18 Gesù aggiunge alla citazione del salmo 118,22 un altro ammonimento escatologico che prolunga con il suo parallelismo l’immagine della pietra: «Chiunque cadrà su questa pietra sarà sfracellato e colui sul quale essa cadrà sarà stritolato». Il riferimento alla pietra sognata da Nabucodonosor che frantumò la statua e divenne poi montagna fu inteso molto presto dal giudaismo in senso messianico.
Scagliarsi contro questa pietra porta alla rovina.
c) ‘Cristo-pietra’ è simbolo di salvezza e perdizione
Secondo Paolo i giudei sono inciampati in Cristo che richiede la fede come in una pietra. Avendolo rifiutato Egli è diventato per loro condanna (Rom 9,32s) – cfr. Is 8,14 e 28,16.
Pietro esorta i neofiti ad avvicinarsi alla ‘pietra vivente’ e a formare quali ‘pietre viventi’ una casa spirituale. I credenti non saranno delusi (1 Pt 2,6); gli increduli ‘inciamperanno’ e cadranno. Ovviamente ciò che decide è la fede.
d) Paolo in Cor 10,4 riferisce al Cristo (pietra) la roccia dell’Oreb da cui scaturiva l’acqua nel deserto della libertà. Gesù, di fatto, aveva affermato «se uno ha sete venga e chi crede in me beva» (Gv 7,37). L’invito di Gesù ad attingere acqua da lui s’inserisce nella festività delle capanne: egli si contrappone alla roccia che, con Mosè, fornisce l’acqua al popolo, offrendosi come acqua di vita al credente assetato (Gv 7,38).
Sviluppo tematico del termine ‘kenòo’, rendere vuoto, essere annullato
È il verbo che Paolo usa per affermare che la provocazione della croce non deve essere resa vana dalla sapienza del discorso (1 Cor 1,17) né la fede deve essere distrutta dalla giustizia della legge (Rom 4,14).
Nell’inno cristologico di Fil 2,6-11 l’espressione ‘ekènosen heautòn’ significa che il Cristo si è privato, cioè ha volontariamente scambiato il suo modo di essere divino e preesistente (v. 6) con quello umano e terreno (cfr. 2 Cor 8,9). Si introduce così un elemento strutturale della concezione cristiana: per e con l’Incarnazione e l’entrata nella storia umana, il mistero di Dio, nel Figlio, annienta il suo «modo di essere divino per assumere la condizione di schiavo (‘doulos’)».
Ciò che è in sé infinitamente ricco, la pienezza, si fa assoluta povertà nella precarietà del tempo e dello spazio e si costituisce radicale dipendenza nello scorrere dell’interrelazione storica: se vi è una dignità essa non nasce più dalla signoria, ma dal servizio (‘diakonìa’).
La pietra angolare è divenuta pietra di scarto.
L’orizzonte ‘liberatore’ personale e collettivo non si identifica più per una ‘signoria’ da proporre ed imporre, ma per una ‘redenzione’ (‘lýtrōsis’, ‘apolýtrōsis) da accogliere.
Il segno autentico di questa realtà, la dinamica efficace di questa inversione di marcia, è nel Nuovo Testamento l’agàpe (‘agapào’). Nell’uso neotestamentario questi vocaboli hanno assunto un significato peculiare al punto di venire usati per indicare l’amore di Dio e il modo di esistenza che in tale amore si fonda.
Nella concezione di Israele Dio, in un primo momento, non ama, ma elegge, interviene negli eventi concreti, conclude con il suo popolo un’alleanza (Es 24).
Le grandi opere di Jahvé sono opere compiute nella storia con il suo popolo (l’esodo, il dono della terra, la legge). Il popolo risponde con la lode e l’ubbidienza.
I profeti poi accompagnano il rapporto evidenziando l’amore di Dio come motivo essenziale della sua azione elettiva. Negli accenti più alti e più originali della profezia Jahvé si fa sposo perdente: anche se tradito dal suo popolo nella fedeltà non rivendica diritti di rivalsa potente e distruttrice, ma si offre nella tenerezza e nella misericordia (Osea).
‘Perdere’ non è fenomeno di sconfitta, ma un paradossale modo di essere e di agire di Jahvé che indica una statura interiormente pregnante, capace, in forza di un surplus ontologico di una relazione che riscatta e che rigenera.
Divenire scarto, essere dimenticati e traditi non significa non volere, ma divenire generatori di un nuovo modo di essere e di un agire che svela il senso più recondito, più pregnante, più efficace della vita e della storia.
Il mistero di Dio nel Figlio incarnato è divenuto ‘scarto” che nella carne e nella storia ha ‘rivelato’ l’ amore di Jahvé che i profeti avevano indicato.
La ‘sconfitta’ secondo gli uomini e la loro logica diventa il ‘riscatto’ progettuale e reale della loro cieca sufficienza e delle conseguenti corruzioni.
Umiliazione (‘tapéinōsis’) come via ad una libertà-disponibilità
Non è priva di interesse l’osservazione intorno alla realtà di sottomissione-emancipazione presente nelle strutture della società: nell’orizzonte biblico assume coloriture importanti.
‘Tapeinòs’, di umile condizione, inferiore, umile e ‘tapéinōsis’, umiliazione, hanno nell’uso greco un carattere assolutamente negativo caratterizzato da un’immagine antropocentrica dell’uomo: la condizione di inferiorità è una vergogna da evitare, qualche cosa che va superato sia nel pensiero che nell’azione.
Nel contesto biblico prevale una concezione teocentrica dell’uomo: il rapporto con Dio sconvolge in radice l’autoreferenzialità antropocentrica e introduce una valorizzazione impensata e impensabile di ciò che non vale, è minore, non conta nelle scelte che Jahvé opera a servizio dell’uomo e di una storia alternativa alle logiche riduttivamente umane.
Nel Nuovo Testamento è dominante fin dagli inizi una preferenza tematica per coloro che non contando sul piano socio-istituzionale, vivono un’originaria acquisita libertà che li rende aperti all’unica vera e rispettosa signoria, quella di Dio; basta ricordare Maria, i pastori nella storia dell’infanzia in Matteo e Luca in evidente contraddizione con l’apparato istituzionale politico e religioso che non attende nulla e vive di sicurezze possessive.
Tutto l’agire di Gesù è orientato a mettere in crisi la sufficienza da qualsiasi parte venga, compresa quella religiosa e i suoi aspetti di purezza genealogica, di sicurezza dottrinale, di osservanza legale. La sufficienza è autentica paralisi dell’uomo nel senso che atrofizza fino a distruggere la creatività di una relazione: quella con Dio e quella con i propri simili.
La dignità e l’efficacia propositiva di un’esistenza confina quindi in una disponibilità radicale a ricevere e farsi dono. Paradossalmente la dignità di Gesù confina con la sua disponibilità alla croce.
Un futuro (‘éschaton’) dono e compimento è radice di un presente operativo
Un particolare rilievo assume l’atteggiamento della concezione pagana, più o meno colta, nei confronti della prima diffusione dell’esperienza cristiana.
Questa vive con intensità la convinzione-certezza di un ‘éschaton’, un futuro compimento assolutamente estraneo alla cultura dominante del mondo in cui si inserisce.
Nella visione profetica questo futuro-compimento non poggia su un senso mitico e astorico. Il tempo escatologico è già ora plasmato dall’azione di Jahvé che immette segni efficaci della sua giustizia e santità fino al punto di una reale coincidenza tra futuro e compimento: nel linguaggio biblico è chiamata ‘salvezza’.
Nel messaggio di Gesù con riferimento al ‘regno di Dio’ si ha appunto una radicalizzazione escatologica: l’ordine di precedenza comune agli uomini contempla come primi i potenti e come ultimi gli umili, gli schiavi, gli emarginati; quest’ordine verrà invertito e saranno primi questi ultimi.
Dio quindi sta dalla parte di questi ‘scarti’; i discepoli di Gesù hanno l’incarico di realizzare nel presente in forma anticipata questo capovolgimento escatologico di tutti i valori: «se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti» (Mc 9,35).
Con l’‘evento pasquale’ l’esperienza di Lui vivente dopo la croce, il punto massimo dell’indegnità e della condizione di schiavo, rende così operative le prime comunità da suscitare nei contemporanei, estranei a quest’esperienza, sentimenti di avversione fino a considerarli stolti, folli, socialmente pericolosi.
Annotazioni conclusive
Il messaggio biblico e l’atteggiamento di Gesù in particolare nutrono la convinzione che l’unica signorìa che serve l’uomo è quella di Dio.
Le signorìe degli uomini creano discriminazioni e privilegi ingiusti e corruttori.
Per questo in nome della sua assoluta perfezione (bibl. santità) Dio in Gesù prende la difesa, si schiera con coloro che sono considerati ‘scarto’, irrilevanza nel consorzio umano.
Sono questi che egli predilige e qualifica con la sua presenza efficace per una sua rivelazione-azione nella storia.
Tutti possono diventare ‘sufficienti’ e la radice prima di questa sufficienza sta nel cuore dell’uomo: ambiente e condizioni socio-culturali-economiche la possono favorire e radicalizzare. ‘Scarto’ si può non essere socialmente ma si è invitati a diventare, per essere partecipi dell’orizzonte biblico.
Il rapporto con la storia delle istituzioni è radicalmente critico-anticipatore anche se mai violento: un illuminismo risolutivo del problema uomo e della sua convivenza è assolutamente estranea all’antropologia biblico-teologica. Il futuro-compimento verso cui si è operativamente diretti è una pienezza che non si conquista ma è donata.
Il rispetto e la valorizzazione di ciò che comunemente è ‘scarto’, persone ed eventi, va promosso perché in questo ‘scarto’ si racchiudono doni e sapienze suscitate da intuizioni e valutazioni che una singolare azione dello Spirito di Dio suggerisce con mirata continuità.
Quelli che non hanno ‘contrattualità sociale’ sono da interpellare e ascoltare per primi: urgenze e autenticità li accompagnano con un suggello veritativo.
L’essere e l’operare della comunità cristiana è collegiale e sussidiario; le decisioni sono tanto più autentiche quanto più prese insieme; l’essere insieme è aperto all’apporto di ciascuno, specialmente se libero perché ‘ultimo’: resta sempre vero che uno è tanto più ‘ultimo’ quanto meno è sufficiente.
Questo stile e questa prassi può giovare ad una convivenza civile se questa accetta una dimensione dell’uomo aperta alla pluralità delle esperienze che ne esplorano tutte le valenze esistenziali e se si valorizza il tentativo di fornire un senso compiuto al vissuto personale e collettivo.
Il compimento che qui si prepara è frutto di una ‘Pienezza’ che è oltre la storia; questa convinzione è tanto più ragionevole quanto più nella storia avvertiamo ed esperimentiamo segni concreti e convincenti di un’alterità che li fonda.
Storicamente gli ‘ultimi’, gli ‘scarti’ sono stati sempre la vivente custodia di quest’alterità: essi con la loro esistenza e con i loro drammi sono ancora la smentita dei progetti che pretendono un totale compiuto loro riscatto.
Le definizioni antropologiche, pur nei loro pregevoli tentativi, sono sempre insufficienti: l’uomo è oltre ogni nostra confinazione antropologica.