SCARTI E ABBANDONI
L’arte contaminata dalla vita
di Roberta Valtorta
Occorre partire da alcune ipotesi di Franco Vaccari. In un suo scritto del 1986 – quasi vent’anni fa –, La discarica di rifiuti: un modello dell’attuale situazione dell’informazione, egli collega alla discarica, il maestoso luogo fisico nel quale convergono i nostri infiniti e variegatissimi rifiuti, concetti importanti che informano la società tutta, quali: indifferenza, inarticolazione, caos, locale e globale insieme, sparizione di quelle idee di contrapposizione e di diversità che sembravano governare le nostre attività e le nostre esistenze, annullamento di ogni asimmetria che, sola, può dar luogo alla scelta. Il genere umano stesso, così come la contemporaneità lo va trasformando, verrebbe ad assomigliare a un amalgama di individualità costrette insieme seppure distribuite casualmente e collegate fra loro da relazioni assai fragili.
Se, sulla base di questa omogeneità nella quale tutto equivale a tutto in assenza di strutturazione e di coerenza, consideriamo la realtà contemporanea come un vasto, incredibile ammasso di contaminazioni, riutilizzi, mescolamenti, e la nostra sempre più mobile e spezzettata esistenza come un insieme di recuperi simbolici, ricontestualizzazioni, continue ricostruzioni di significati a partire da cose date, che già provengono da una storia, allora la discarica può essere davvero la magnifica metafora della realtà contemporanea e della nostra stessa esistenza.
La coscienza di questo esiste in noi, uomini dell’occidente, da breve tempo, possiamo dire dal tempo vicino in cui la civiltà industriale si è travasata, morendo, nella attuale civiltà postindustriale (che noi percepiamo, insieme, come terminale e come del tutto inedita e ancora indescrivibile); gli artisti iniziavano invece a percepirla e coltivarla già dai primi anni del Novecento, quando, con gli anni Dieci, si inaugurava quel grande laboratorio di esperienze che furono le avanguardie.
Scrive Lea Vergine nell’introduzione del catalogo di Trash. Quando i rifiuti diventano arte (1997), davvero una delle mostre più belle e significative degli ultimi anni: «Perché gli artisti del nostro secolo hanno adoperato e adoperano … i rifiuti? Rifiuti che sono inglobati, fotografati, ‘trattati’, enfatizzati, mimetizzati o ‘corretti’, ma che pur sempre rifiuti sono, cioè oggetti da pattumiera o da discarica. … Si cominci a riflettere che noi stessi siamo cestinati o rigettati da altri esseri umani; più o meno ogni giorno, dobbiamo ritrovare, raccattare e ricomporre frammenti di noi stessi».
Il Novecento vede la maturazione e il declino della civiltà delle macchine verso l’era dell’informatica. Le merci prodotte dall’industria diventano progressivamente protagoniste indiscusse della realtà: sono elementi del consumo, necessità crescente e superfluo della vita, simboli di bisogni, affetti, desideri, succedanei della natura perduta e forse di una felicità che sembra allontanarsi, divorata da una quotidianità sempre più tesa e dallo spegnersi, pare, di ogni idealità.
Il modo di vivere e di decadere delle merci è molto diverso da quello degli elementi della natura. La loro vita non è segnata dalle stagioni, dalla luce e dal buio. Il loro tempo non è ciclico né lineare: è un tempo molto complicato che si sovrappone a se stesso, esattamente come i flussi, le agitazioni, i rigurgiti del mercato e della onnipresente comunicazione. Gli oggetti che ci circondano (utili, inutili, desiderati, indispensabili, improvvisamente insopportabili) vivono vite diverse contemporaneamente: sono nuovi, si consolidano nella loro funzione e sono già superati da altri oggetti e altre funzioni, sono obsoleti, sono riciclati, sono ricollocabili, si trasformano in altro, si distruggono, rinascono, si decompongono, accedono a continui successivi processi di significazione, in continua migrazione.
Tutto questo è già presente in nuce nei collage di Picasso o Picabia, di Balla o di Carrà, nelle opere polimateriche di Schwitters, nei fotogrammi di Moholy Nagy, Schad, Veronesi. È già presente negli assemblaggi di Man Ray e nei risolutivi ready made di Duchamp, colpo mortale per l’arte che li ha preceduti e imprescindibile punto di partenza per tutta l’arte che li ha seguiti, fino ad oggi.
È in quegli anni del Novecento che si affermano in modo indelebile alcune idee: che la cultura alta possa mescolarsi con la cultura di massa; che materiali prodotti industrialmente e cose usate o materiali ignobili possano e anzi debbano dar luogo all’arte; che oggetti già prodotti, già destinati a precedenti funzioni e già carichi di vissuto siano essi stessi arte. Queste idee si uniscono ad altre che riguardano la provvisorietà, la parzialità, l’arbitrarietà dell’azione artistica, la vicinanza dell’agire artistico alla vita e ai suoi limiti. Avvolge tutto questo il complesso sentimento di una memoria che si lega ai lacerti, agli strappi, ai frantumi, alle impronte e a ciò che resta di tutto quello che ha avuto una vita fisica. Un sentimento grande che, in fondo, tende a sostituire la religione.
La seconda metà del Novecento si incarica di elaborare una vera e propria predilezione per tutto ciò che è rottame, detrito, scoria, deiezione, scarto industriale, urbano, domestico. L’arte arriva così a scoprire che forse la spazzatura è il linguaggio stesso, è il volto osceno e interessantissimo della merce, gioia e dannazione di una civiltà costretta a produrre e a consumare sempre e sempre; che i rifiuti, questa dimensione parallela, clamorosa eppure misteriosa della realtà quotidiana, sono la sostanza più vera degli oggetti che popolano le nostre esistenze, e rappresentano una sorta di resa dei conti cruda e sincera.
Dall’Informale alla Pop Art, dal Nouveau Réalisme a Fluxus, ecco i sacchi di Burri, i tagli stessi di Fontana che ‘rovinano’ la tela, i décollage di Rotella e quelli di Vostell o Hains, gli assemblaggi di César, i combine painting di Rauschenberg, le raccolte e le composizioni di materiali di Arman e di Niki de Saint Phalle, Tinguely, Nam June Paik, Vautier. Più tardi, le accumulazioni di stracci di Baruchello o Pistoletto, il poetico utilizzo di ogni oggetto della vita da parte di Carol Rama, di Merz, del profetico Beuys. Poi, a cascata, i recuperi di materiali di Tony Cragg, le poesie fotografiche o video che Fischli e Weiss dedicano agli scarti industriali, le tenere scelte di Louise Bourgeois, gli oggetti di Kounellis, le straniate figure-fantocci di homeless di Cattelan, lì, a terra. E giù, verso l’abisso, fino a coinvolgere gli scarti che riguardano la storia della persona, con gli indumenti smessi di Boltanski, o il corpo umano stesso, i suoi liquidi, la sua morte, con l’urina, il sangue, lo sperma e i cadaveri di Serrano, le garze insanguinate della sala operatoria di Orlan.
In epoca contemporanea la fotografia, che è prelievo e vero e proprio ready made essa stessa, prende parte molto fortemente a questo irreversibile processo che vuole che tutto ciò che è usato, scartato, finito, stia nel cuore dell’arte: pensiamo ai mozziconi di sigarette e agli oggetti trovati a terra di Irving Penn, alle discariche di Lewis Baltz, che non sono nel paesaggio ma sono il paesaggio, ai pezzi di bambole e di oggetti di Cindy Sherman, memori delle composizioni di Bellmer, ai pezzi di corpi umani di Witkin, blasfemamente recuperati negli ospedali, alle ricerche importantissime di Bernd e Hilla Becher sulle strutture industriali, ‘sculture anonime’ che altro non sono che il rimosso della nostra economia che scavalca luoghi e architetture solo poco prima protagoniste della realtà, alle immagini di confezioni di prodotti rimaste intere ma divenute spazzatura di Paul McCarthy, che paiono le merci di Andy Warhol invecchiate dopo anni di vissuto, passate dal mondo attivo del consumo allo sporco limbo della discarica.
L’arte registra e indaga l’invecchiamento del mondo e le infinite trasformazioni di un sistema economico e simbolico, e mette in scena in modi innumerevoli una possibile riflessione sulla storia contemporanea, compresi i suoi orrori, sulla solitudine di massa, sulla fragilità dell’uomo, sulla finitezza della vita, sul desiderio di vivere.
Denuncia del consumismo e critica sociale specialmente negli anni del massimo sviluppo capitalistico, piena e urlante coscienza dell’esistenza di una estetica del rifiuto, rinuncia all’idea tanto a lungo coltivata dall’arte che esista il ‘bello’ e che esso sia diverso dal ‘brutto’, la predilezione per le cose usate o morte indica il desiderio di spingersi in una sorta di altrove degli oggetti e del corpo umano stesso: poiché scegliere i rifiuti, dedicare attenzione alla complessità della discarica significa tentare di indagare la totalità dei significati del mondo e la profondità dell’esistenza. Ma ciò che guida gli artisti non è solo l’orrore o la paura, non è solo l’allarme del disastro ecologico o esistenziale o il pensiero della morte: è anche, spesso, l’ironia, il riconoscimento dell’autorità del banale e del quotidiano, del basso, che reclamano e ottengono cittadinanza nei territori dell’arte, luogo che il Novecento ha definitivamente dichiarato essere contaminabile dalla vita vera, verissima.