SCARTI E ABBANDONI

Liza Candidi T.C. intervista Alex Zanotelli

Non è vuota provocazione parlare di scarti umani quando si viene a conoscere l’esperienza di vita che padre Alex Zanotelli ha fatto a Korogocho, una baraccopoli nella periferia di Nairobi. Durante i dodici anni passati in Kenya, il missionario comboniano ha vissuto insieme ai poveri, condividendo la sofferenza di quelle persone che sono considerate a tutti gli effetti scarti della società, costrette a vivere dei rifiuti della metropoli.

Padre Zanotelli, già dalle prime pagine del suo libro Korogocho emergono dati sconcertanti, come quello che vede il 70% degli abitanti di Nairobi vivere in una superficie che corrisponde ad appena il 2,5% di quella totale della città. Si tratta senza metafora di uno scarto umano di enormi proporzioni.

Di quattro milioni di abitanti, quasi 3 milioni sono costretti a vivere nel 2,5% della terra totale, anche se il governo corregge il tiro a volte perché è difficile raccogliere questi dati. Io questa la chiamo ‘la sardinizzazione dei poveri’… Korogocho è una baraccopoli che sta a fianco di una discarica ma per capire Korogocho bisogna capire Nairobi, che è una città assurda dove convivono fianco a fianco una ricchezza incredibile e una miseria incredibile.
La cosa più grave però è che neanche questo 2,5% appartiene ai baraccati, bensì al governo, il quale può venire quando e come vuole, cacciare via tutta la gente e procedere con la demolizione: una cosa oscena! E l’80% dei baraccati non possiede nemmeno la baracca, ma paga l’affitto ad altra gente. Infine, tutte le baraccopoli sono poste sotto la linea della fogna: sopra la linea fognaria c’è la città ricca e sotto ci sono gli inferni umani.

All’interno della baraccopoli di Korogocho ci sono diverse categorie di poveri ed emarginati e il comportamento di esclusione fra di loro è simile a quello che si trova nelle società ricche, tanto da farle scrivere che «l’emarginazione sembra faccia parte del cuore umano». Lo scarto dello scarto è quindi un processo infinito ed inevitabile?

Non lo so, una cosa sola ormai mi è chiara e cioè che non è vera la storiella secondo cui i cattivi sono i ricchi e i buoni sono i poveri. I poveri sono cattivi tanto quanto lo sono i ricchi. Dio non vuole bene ai poveri perché sono migliori dei ricchi – per carità! – ma perché sono poveri, schiacciati. Certamente i poveri hanno le stesse reazioni dei ricchi, anzi a volte ancora più dure perché quando si vive in situazioni del genere, si lotta per la sopravvivenza e scattano dei meccanismi terribili per cui non hai più un fratello a fianco, ma un nemico, perché in fondo ruba il tuo spazio vitale.
Per cui ritengo sia vero che c’è qualcosa nell’animo umano che fa sì che tutti noi tendiamo ad escludere altre persone… il non emarginare costituisce una grossa conversione per l’uomo ed è una cosa che dovremmo fare tutti se vogliamo sopravvivere in futuro. O riusciamo ad accoglierci per quello che siamo o non ci saremo più, ci sbraneremo vicendevolmente.

Ci sono stati dei tentativi da parte sua e del suo gruppo di lavoro di fare in modo che gli abitanti stessi della bidonville si facessero carico dei propri ammalati, dei propri scarti, quasi fosse una forma di recupero comunitario. Che esiti ha avuto?

Questa esperienza è stata una fra le più belle di suor Gill, una suora inglese. Non abitava a Korogocho ma ci veniva ogni giorno, educando molte donne straordinarie ad occuparsi degli ammalati di Aids; medicine contro l’Aids non ce le hanno perché costano tantissimo ma portano agli infermi alcuni rimedi essenziali per bloccare la diarrea oppure per aiutare i sieropositivi colpiti dal male ai polmoni. E sono loro, queste donne, che portano in giro gli ammalati, che parlano con questa gente, spesso pregano con loro. Questa esperienza di aiuto comunitario è stata classificata dalle Nazioni Unite fra le venti azioni più belle al mondo: una comunità che tenta di farsi carico dei propri ammalati, i quali vengono assistiti quasi tutti nelle baracche perché è impensabile andare in ospedale.

Ci potrebbe raccontare cos’è l’iniziativa del ‘Mukuru Recycling Center’, la cooperativa di riciclaggio dei rifiuti, e i diversi tipi di riutilizzo degli scarti che la vostra comunità è riuscita a realizzare a Korogocho?

Il ‘Mukuru Recycling Center’ è stato prima di tutto un tentativo di mettere insieme le persone. Una volta capiti i meccanismi tipicamente mafiosi che operano in discarica – ad esempio quelli che vedono i raccoglitori di rifiuti strangolati dai mediatori – abbiamo chiesto ad alcuni dei baraccati perché non costituissero essi stessi delle cooperative. Nella discarica la gente è distrutta dall’alcool, dalla droga, e metterli insieme all’inizio è stata un’impresa dura. Siamo partiti con una prima esperienza di una quarantina di uomini – all’inizio non volevano donne – poi abbiamo chiesto al governo la concessione di un pezzo di terreno per i rifiuti, il governo ce l’ha dato e praticamente si cercava di comprare questi materiali scartati e di rivenderli direttamente alle ditte. È stato un processo lunghissimo, durato dodici anni, e molto difficile perché all’inizio non si fidavano nemmeno di noi. La gente là è diffidente di tutto.
Quando è partito il secondo gruppo di riciclaggio, il primo non voleva accettarlo e riteneva che il pezzo di terreno che ci aveva dato il governo fosse sua proprietà. Questo secondo gruppo non lavora nella discarica ma in città, per cercare di accaparrarsi del materiale abbastanza decente da portare in discarica.
Un terzo gruppo poi si dedicava al compost con il materiale organico, anche in questo caso è stato difficilissimo, perché non si trovavano i posti dove venderlo. E un altro gruppo ancora cercava di recuperare la carta sporca che non si poteva vendere, la macinava con le mani, oppure con macchine molto rudimentali, insieme alle bucce di caffé e si facevano dei mattoncini da bruciare invece del legno. Si tentava di riciclare un po’ di tutto e di creare opportunità di lavoro. È stata una bella esperienza di recupero… Anche se all’inizio non ero convinto, perché generalmente tutte le cooperative sono costituite da metà elementi sani, metà scartati… invece noi abbiamo iniziato con tutti elementi scartati e ci dicevano che non poteva funzionare. Ma come si fa a inserire degli elementi sani con gente che non si fida più di nessuno? Si sarebbero sentiti dominati e non avrebbero collaborato. Ecco perché ero piuttosto pessimista sull’esito. Ma ormai la svolta è stata fatta.

Lei ha fatto un percorso inverso rispetto a quello cui normalmente si ambisce: da una vita di benessere ad una di povertà e sofferenza. Gli scarti umani sono un valore per il quale vale la pena scommettere la vita?

Su questo non ho il minimo dubbio. Credo che la vita sia bella quando la si gioca per qualcosa che vale. Negli ambienti degli emarginati non hai consolazione… Sono sensazioni terribili quando si vive in questi posti… Però è qui che si trova il significato profondo della vita. Fondamentalmente la vita è bella quando la impieghi per qualcosa che vale, soprattutto se si tratta di esseri umani. Qui sono stati i volti delle persone che vedevo che mi hanno profondamente toccato, sono i volti di Dio. C’era una ragazzina, Florence, che stava per morire di Aids, a cui ho chiesto «Chi è il volto di Dio per te?» e dopo un lungo silenzio lei ha detto «Ma sono io il volto di Dio!». È qui che si verifica l’incontro, cioè quando dai una mano a questa gente, quando lotti con loro e non per loro. È quando si cammina con i poveri che si ritrova la gioia della vita, la gioia del bene, della risurrezione. Penso che mai come oggi valga la pena buttare la vita per salvare l’umanità, che è sempre più stritolata e distrutta. L’esistenza stessa è minacciata, gli scienziati ci danno ormai solo una cinquantina d’anni e penso che abbia ragione Erich Fromm quando dice che quelle occidentali sono società necrofile, amanti della morte, perché passano la vita in eterno a guardarsi l’ombelico. Vedere che qualcuno si rimette in piedi… è questa la gioia.

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