SCARTI E ABBANDONI

Nel campo della progettazione visuale gli scarti e gli abbandoni sono, senza ombra di dubbio, una vera manna. Un tesoro dal quale attingere e su cui riflettere. Ridotto ormai quasi a zero, dalla moderna demenza, il tempo disponibile per la fase creativa di un progetto grafico, non resta altro da fare che produrre, di tanto in tanto, dei pre-progetti da tenere pronti all’uso nell’hard disk del proprio cervello. O magari, meglio, conservandoli, per maggiore sicurezza, in contenitori veri e propri (digitali e non) insieme alle proposte già elaborate in altre occasioni, ma mai utilizzate. Qualcosa di simile a quanto faceva il gioielliere con la sua ‘marmotta’ dove teneva i preziosi invenduti, spaiati, stravaganti o da aggiustare. Quanto al mio studio va detto che usiamo il classico sistema misto: scatole di cartone, file digitali e memoria fornita da madre natura. Ma se la fretta con cui si è costretti a lavorare e a risparmiare le idee è uno dei motivi per rovistare nell’archivio-cassonetto, c’è ancora ben altro da considerare, qualcosa di molto più interessante.

Un amico un giorno mi disse che secondo lui i problemi erano stati inventati, al mondo, soltanto per dare un senso alle soluzioni che erano lì da tempo senza far niente, e io adesso, allo stesso modo, dico che gli abbandoni sono una vera fortuna perché possono generare dei meravigliosi ritrovamenti. E un ritrovamento, si sa, può corrispondere ad una vera e propria rinascita, dove il bello sta proprio nel fatto che il progettista, ritrovando dopo tempo un suo vecchio lavoro ha la possibilità, smaltita la sbornia dell’identificazione con esso, di rileggerlo più obiettivamente; di valutare meglio la qualità della sua invenzione e di intuire quanto è ancora sostenibile l’opportunità della sua applicazione originale. Si tratta di un percorso dove si possono incontrare sorprese di ogni tipo, a volte anche sgradevoli. L’importante però è, come sempre, non prendersi troppo sul serio e mantenersi un po’ sportivi per sapersi rimettere in gioco. Gioco che consiste, in pratica, nell’utilizzare il mestiere anche per conoscersi meglio. Altrimenti, detto tra noi, sarebbe una vera noia. Credetemi, vale la pena di farlo tanto, come dice Douglas Adams, non c’è posto sul pianeta per essere a più di venticinquemila chilometri da se stessi. Poi, per il resto, si può procedere normalmente. Non tanto come nel pot-luck (il pasto improvvisato con-quel-che-c’è dei nativi americani), quanto scongelando l’idea (naturalmente dopo aver verificato se è ancora commestibile) e trattandola come ingrediente fresco di giornata, da cuocere con una ricetta ancora da inventare.

Infine, per completare questa breve drop-out gallery, bisogna fare un discorso a parte per gli errori generati dalla tecnologia, dai processi fisico-chimici. Una ripresa esageratamente sovraesposta, una foto troppo sfocata, una trasmissione fax impazzita, un file danneggiato, una stampa a fine toner. Tutto può generare qualcosa di insolito. Qualcosa che non avremmo mai deciso di produrre razionalmente. E fin qui, basta avere la famosa scatola. Il difficile viene dopo, quando si tratta di rileggere e di capire se veramente ci si è imbattuti in qualcosa di interessante e non solo di bizzarro. Per quanto ne so, la percentuale delle ‘casualità’ utilizzabili è molto più bassa di quanto ci si possa inizialmente immaginare, ma quando una di quelle funziona, funziona proprio di brutto.

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