SCARTI E ABBANDONI

Nel momento attuale la fotografia conferma le sue due anime di sempre: da un lato la realizzazione dell’immagine a partire dalla realtà visibile, quando questa sa offrire forti elementi di riflessione e situazioni valide anche sul piano concettuale; dall’altro la costruzione di realtà fortemente impregnate di finzione, che vengono allestite per poi essere fotografate, a sottolineare una sorta di ‘insufficienza’ della realtà così com’è in termini narrativi e progettuali. Nei processi di elaborazione dell’opera di molti autori spesso queste due soluzioni si mescolano rafforzandosi a vicenda, a indicare che i concetti di realtà e di finzione sono fra loro vicinissimi.
Troviamo questo anche in ricerche fotografiche che affrontano un tema in se stesso carico di significati e, diremo, di figure, quale è quello dei rifiuti, delle cose o delle persone abbandonate, degli oggetti distrutti e superati nella loro funzione, dei luoghi divenuti obsoleti (il tema delle rovine che, da tempo prediletto dagli artisti, si trasformano nella nostra complicata contemporaneità in macerie – ricorriamo al titolo di un libro di Marc Augè).
Così, spesso, nella fotografia contemporanea troviamo scenari veri che paiono allestiti e situazioni di finzione che potrebbero essere vere. Così è il nostro mondo.

Tancredi Mangano
Inabitanti (2004) di Tancredi Mangano presenta un luogo ‘di frontiera’ nel quale una comunità di immigrati ha costruito abitazioni fatte con ogni tipo di scarto: cartoni, corde, plastiche, materiali industriali. Si tratta di un luogo urbano alla deriva, terraine vague, area abbandonata in attesa di destinazione, nella quale la natura compie il suo corso: velocemente l’erba diventa erbaccia, il prato diventa cespuglio, il cespuglio albero. Vite umane e vite vegetali qui si assomigliano, e stanno molto in basso nelle gerarchie della bellezza e del benessere nelle quali collochiamo esseri umani e luoghi per giudicarli e dichiararli meritevoli di attenzione, ufficiali, oppure marginali e clandestini.

Giovanni Zaffagnini
Giovanni Zaffagnini con Herbarium (2002-2003) fa omaggio a tutte quelle erbacce o erbe in fuga dai loro luoghi deputati, che nascono nei terreni delle aree industriali dismesse, nei pressi delle discariche, ai margini del paesaggio e in tutti i luoghi dimenticati. Queste erbe clandestine sono disegni delicati su fondali postindustriali, contro skyline tracciati da un’industria che ha sostituito la natura; sono segni pieni di personalità, che fuoriescono da terre avare, spaccature dell’asfalto, crepe del cemento, sassi. Veri e propri ritratti, figure della sopravvivenza che vanno a comporre un erbario postindustriale. Vaghissimi paesaggi si perdono sullo sfondo: sono gli stanchi scoloriti paesaggi della nostra economia.

Marina Ballo Charmet
Il lavoro di Marina Ballo Charmet, Poco dopo (2004-2005) ci riporta a un concetto di rifiuto immediato, chiaro ed estremamente quotidiano. Nel colore volutamente sbiadito delle immagini, sul selciato urbano valorizzato dall’orizzonte alto, senza cielo, vediamo ciò che resta di un mercato. Ma l’idea del ‘poco dopo’ impone una riflessione sul dopo di ogni cosa, di ogni azione, sui residui dell’esistenza, del pensiero, degli affetti, dei moti della coscienza. Lo scarto riguarda la vita stessa e il tempo che passa su di noi e dentro di noi, oggi vivo, attuale e domani già finito, da buttare.

Paola Di Bello
Dal 1996 al 2001 Paola Di Bello ha sviluppato un’ampia ricerca dal titolo Homeless’s Home, che comprende due momenti dialettici: da un lato (Concrete Island) gli oggetti domestici, sedie, divani, lavatrici, cucine a gas, frigoriferi che, superati nel processo del consumo, vengono abbandonati per le strade della città; dall’altro (Rischiano pene molto severe) i senzatetto, quegli uomini che per difficoltà di vita o per scelta vivono e dormono in strada, privati di ogni cosa che non sia la pura durissima sopravvivenza. L’equazione oggetto-uomo è il punto di forza di questa ricerca carica di valore sociale e di immediata forza visiva. Figure di oggetti e figure umane dormienti a terra o su panchine vengono ribaltate dall’artista con una semplice rotazione di novanta gradi dell’immagine, che le lancia improvvisamente in una nuova vita, un nuovo significato di riconquistata dignità, trascinando con sé nel rovesciamento il paesaggio che fa da fondale.

Donatella Di Cicco
Invece Donatella Di Cicco con un suo lavoro del 2002, Senza titolo, sceglie la strada della messa in scena più clamorosa, ironica e pungente. Come su set cinematografici, persone recitano un mondo che procede e continua a funzionare in scenari di abbandono e di rovina: operai tentano di entrare a lavorare in una fabbrica abbandonata, persone fanno la coda davanti a un cinema dismesso, figure salgono su treni, navi, automobili distrutti dal tempo o da un incendio, una casalinga si avvia per far la spesa verso un supermercato che cade a pezzi, giovani sposi, famigliole allegre, gruppi di amici si aggirano nel disastro compiendo le azioni di sempre. L’umanità continua la sua vita nonostante la distruzione che ha, chiara, davanti agli occhi, finge vigore e bellezza in un mondo che è esso stesso una discarica.

Moira Ricci
E ancora un tono ludico possiede la serie di Moira Ricci dal titolo Selectron, Biribimbo, Carolina B12, Barbie e Police’s Car (1998). Sono i nomi di una serie di coloratissimi giocattoli costruiti con rifiuti tecnologici e cose trovate a terra, anche, tautologicamente, pezzi di bambole. Teneri recuperi di oggetti già vissuti, piccoli mostri, personaggi inventati eppure possibili (nei cartoon, nel fumetto, nell’immaginario video), ma soprattutto sculture realizzate con quel che c’è, con quello che il nostro mondo dei consumi respinge. La ricostruzione è al tempo stesso quella a cui da sempre il mondo contadino dà vita e quella che le tecnologie contemporanee dell’immagine invitano a fare. Alle spalle di tutto questo, concettualmente, le contaminazioni importanti che il collage e il fotomontaggio ci hanno autorevolmente autorizzato a creare.

multiverso

1