SENSO

Andrea Lucatello intervista Giampaolo Borghello

Dal punto di vista delle trasformazioni sociali, forse il movimento del ’68 è l’ultimo evento ad aver spinto, in quel caso da parte delle generazioni più giovani, alla ricerca di un senso nuovo e altro delle relazioni, della vita, del futuro. Recentemente hai curato un’amplissima antologia dal titolo Cercando il ’68 (2012), recuperando anche tuoi ricordi personali, perché di quel periodo sei stato testimone e protagonista. Che senso andavate cercando in quegli anni?

Partirei da un aneddoto pisano. Ci confrontavamo spesso con il professore di Letteratura tedesca, colto e apertissimo, disponibile al dialogo pur restando fedele alle sue idee e al suo impianto ideologico. Una sera, durante una telefonata, mi disse: «Voi adesso state facendo la storia». Rimasi sorpreso e naturalmente un po’ inorgoglito. Tutto quello che stava succedendo in quei mesi ci sembrava logico, naturale, spontaneo. C’era questo gigantesco senso di simultaneità. Giocava anche il suggestivo slogan ‘La Cina è vicina’. La protesta contro la guerra nel Vietnam unificava popoli, ceti, orientamenti, generazioni in tutto il mondo.

Le parole ‘destra’ e ‘sinistra’ avevano un senso preciso, discriminante. Per me lo hanno ancora.

Ognuno portava nel ciclone sessantottesco un’istanza, un sogno individuale. Personalmente, pensavo in senso nobilmente politico a uno spostamento a sinistra dell’asse del Paese, a un cambiamento reale e radicale, con un confronto teso e vivace con la strategia e la linea di condotta dei partiti e delle organizzazioni della sinistra storica.

Ma solo negli anni successivi ho colto quale fosse durante il ’68 l’eccezionale carica di tensione ideale, la fortuna di vivere quella nuova e particolare stagione a Pisa, uno dei centri più vivi e pulsanti della contestazione. I decenni che sono seguiti, invece, sono stati caratterizzati a mio avviso da un notevole grigiore, da un pesante appiattimento, dal totale smarrimento di un senso comune.

Più osservatori hanno notato che, prima di una rivoluzione politica, quella del ’68 è stata una rivoluzione estetica, una condivisione di sensazioni e un sentire comune. Condividi questo giudizio?

Sarei un po’ perplesso. Sebbene la sensazione di simultaneità sia dominante, pure le dinamiche temporali della contestazione sono diverse da nazione a nazione. Basterebbe considerare le differenze macroscopiche e sostanziali tra l’Ovest e i Paesi del blocco sovietico: anche se bisogna sempre ricordare che Rudi Dutschke, leader del movimento studentesco tedesco, avverte il bisogno esistenziale e politico di recarsi a Praga per discutere apertamente, nel concreto delle situazioni, di temi come il rapporto tra democrazia e socialismo.

Per quel che riguarda l’Italia registrerei soprattutto dei segnali e dei preannunci di tipo politico più che culturale: i fatti di piazza Statuto del luglio 1962 a Torino; la contestazione a Togliatti alla Normale di Pisa nel marzo 1964; gli incidenti alla Sapienza di Roma che portarono nel 1966 alla morte dello studente socialista Paolo Rossi; l’alluvione di Firenze con la straordinaria ‘metamorfosi’ dei giovani, che da ‘capelloni’ diventano per l’opinione pubblica ‘angeli del fango’.

Un valore particolare assume la pubblicazione nel giugno 1967 di un testo chiave come Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani: un libro su cui ancor oggi si riflette, un preannuncio che apriva una stagione e un orizzonte.

In seguito, nel vivo delle azioni e della lotta, si è manifestata e concretizzata un’esperienza fatta di condivisioni; un elemento decisivo è rappresentato dalla questione ‘esistenziale’ e non solo politica degli ‘spazi’ e delle ‘stazioni’: l’assemblea, l’occupazione, il controcorso, il seminario, il corteo.

Si è parlato molto spesso del ’68 come di «una storia di generazione e di amicizia». Rievocando la realtà pisana di quei mesi e di quegli anni, ha scritto efficacemente Luciano Della Mea: «L’amicizia comportava partecipazione umana reciproca, simpatie, antipatie, straordinari innamoramenti, tradimenti, dolori, feste, convivi, burle, scherzi, misfatti, dolori anche atroci, tuffi al mare».

Il ’68 non gode di grande reputazione e in tanti lo considerano come qualcosa che ha distrutto invece di costruire; eppure ha comportato una rottura dell’ordine costituito, soprattutto in termini biopolitici. Il potere ora ha cambiato strategie tanto che, di nuovo, il corpo è al centro di limitazioni e di controlli, o di azioni volte a forgiarne i sensi e la sensibilità. Non erano solo questioni di costume o di costumi, cosa c’era in ballo?

La valutazione del ’68 è ovviamente molto diversificata. Esiste anche qui una naturale opposizione di vedute tra destra e sinistra. Non credo si possa arrivare a una memoria condivisa. Questa della memoria condivisa, tra l’altro, è una nozione che non mi ha mai persuaso. Se i punti di vista e le concezioni del mondo e della storia di chi giudica sono diversi, non si vede perché, smussando, appiattendo, sagomando, magari falsificando, si debba per forza arrivare a una ‘memoria condivisa’. Anche le differenze vanno rispettate.

Credo che uno dei segnali più importanti che emerge dalla contestazione è quello della tematica del femminismo e della liberazione della donna. Pure in questo caso alcune delle cause sono lontane, ma quello che conta è l’impatto del e nelmovimento. Anche nei rapporti tra i sessi nulla è stato più come prima. Aleggia in quegli anni una parola d’ordine significativa: ‘Il personale è politico’. C’è una grande ondata di liberazione.

Mi hanno particolarmente colpito e affascinato le parole di Piero Cudini (un amico che purtroppo ci ha lasciato), testimone e poi storico di quella stagione: «È come se si cominciasse a respirare largo dopo aver vissuto sempre coi polmoni violentemente compressi. L’aria è un fatto naturale, e respirare è naturalissimo: ma finora non l’avevi mai fatto, e non pensavi di essere in grado di farlo così profondamente. Ben presto, dopo il primo stupore, ti diranno che al massimo puoi respirare a comando e per graziosa concessione (magari è già qualcosa, dopo una vita in apnea). Ma intanto, ecco, si respira – anche da scemi, per carità, anche troppo, fino allo stordimento: ma si respira».

Aggiungerei che il ’68 forse ha posto tante domande rilevanti spesso senza riuscire a dare adeguate risposte. Ma già il fatto di porre questioni calzanti contribuisce a fare luce, a vedere le cose in una prospettiva diversa e costruttiva.

Il ’68 viene anche ricordato come un periodo di dissenso e di rottura. Oggi, in una fase di crescente ingiustizia sociale, ci si aspetterebbe l’imminente scoppio di una rivolta. Il dissenso, però, invece di prendere forza si appiattisce nella spettacolarizzazione mediatica. Mancano forse nuovi simboli e nuove idee? Leader carismatici e nuovi immaginari? Pensieri e pratiche differenti?

Ritengo che ci si debba muovere tra un polo internazionale e un polo italico. Partendo da una constatazione ovvia ma egualmente rilevante: la distanza tra il ’68 e la realtà di oggi è, da più punti di vista, siderale.

È indubbio che nello scorrere dei decenni siano aumentati a dismisura peso, ruolo e influenza dei mezzi di comunicazione di massa. Il capitalismo non è più lo stesso degli anni ’60 e ’70 e la prevalenza di un capitalismo finanziario ha cambiato molte realtà e relazioni. Il crollo del Muro di Berlino e la caduta dei comunismi dell’Est hanno trasformato radicalmente il quadro internazionale.

Volgendo lo sguardo alla realtà italiana, colpisce la mancata percezione, da parte di quel che resta dei partiti, del loro inquietante scollamento rispetto alla realtà e agli stati d’animo del Paese: l’astensionismo elettorale acquista dimensioni veramente allarmanti in Italia (dove esisteva una forte tradizione di abitudine e fedeltà al voto), e di questo ingente problema ci si dimentica allegramente pochi giorni dopo ogni appuntamento elettorale. A tale situazione di scollamento non a caso corrisponde il montare alto e costante di un fenomeno sempre più esteso di ‘antipolitica’, che può coagularsi nelle forme più dissimili.

La stessa realtà del berlusconismo ha fortemente condizionato un ventennio: il leader parla direttamente alle masse, ignorando le mediazioni storiche e politiche. Credo che la possibilità di un cambio di passo (certamente non facile e non immediata) sia in primis legata a un’analisi approfondita della situazione reale, senza mistificazioni e senza depistaggi. La bussola si può ritrovare anche storicisticamente recuperando il complesso e contraddittorio percorso che porta dagli anni ’60 a oggi. Più che aspettare soluzioni taumaturgiche, penso sia opportuno procedere lento pede, analizzando e scomponendo tutti i dati di un mondo in trasformazione, dove spesso le valenze e i significati non sono univoci.

In quegli anni, che rapporti ci furono tra intellettuali e ’68?

Non basterebbe un libro per rispondere compiutamente a questa domanda. Quando parecchi anni fa preparavo il mio saggio Linea rossa. Intellettuali, letteratura e lotta di classe 1965-1975 (poi pubblicato nel 1982 dalla casa editrice Marsilio), dopo attenta riflessione, ho puntato su una scelta strategica: individuare cinque situazioni chiave, cinque ‘campioni’ che potessero efficacemente esprimere un contesto e un’atmosfera più vasti. Da quei cinque ‘campioni’ emergeva un quadro mosso, ricco e vivace ma singolarmente unitario dei fermenti, delle attese, delle eredità, dei debiti, degli insegnamenti di una precisa stagione culturale e politica.

Per la cronaca i ‘campioni’ erano, dapprima, le origini della rivista pisana «Nuovo impegno», con il graduale e significativo passaggio, in pochissimi anni, da un orizzonte squisitamente letterario a un taglio decisamente pratico-politico. Seguiva un’ampia analisi dei temi trattati da Alberto Asor Rosa nel suo volume Intellettuali e classe operaia (1973); si andava da antiche questioni (il rapporto arte/rivoluzione nell’URSS degli anni ’20 e ’30) fino a un confronto con la letteratura del presente (Calvino, la neoavanguardia) e poi ad alcuni temi di fondo emergenti dal raffronto e con la nuova realtà del movimento studentesco: scienza operaia, composizione di classe, divisione del lavoro e ruolo dell’intellettuale. L’attenzione si spostava poi, nel terzo caso, su alcune ipotesi ed esempi di ‘letteratura politica’ nel decennio 1965-1975; sotto i riflettori c’erano autori e opere molto diversi: da Leonetti a Camon, da Castellaneta a Balestrini. In molti di questi narratori c’era la volontà di ‘agganciare’ la nuova realtà, con risultati a volte diseguali, ma contava lo sforzo di una concreta ‘alternativa’ rispetto a un corso della letteratura ancora molto, troppo legato a cliché tradizionali. Avevo poi preso in considerazione due dibattiti apparsi sul settimanale ideologico-culturale del PCI «Rinascita» (al tempo sismografo sensibilissimo degli umori e delle posizioni degli intellettuali): il tema del primo dibattito era quasi sartriano, «Per chi si scrive un romanzo? Per chi si scrive una poesia?», e si collocava prima del ’68; il secondo, con al centro argomenti come il suicidio dell’intellettuale, le aporie del volontarismo, la relazione tra cultura alternativa e cultura antagonistica, si collocava chiaramente dopo il ’68. Fa ancora riflettere un’affermazione dell’intellettuale francese Bernard Pingaud: «Le strutture della società francese sono uscite dal Maggio contemporaneamente sconquassate e intatte». Un’affermazione questa che poteva valere anche per il nostro Paese. L’ultimo dei cinque capitoli del libro Linea rossa riguardava la personalità e le posizioni di un intellettuale acuto e scomodo come Franco Fortini. Attraverso alcuni concetti chiave della sua riflessione come «errore» e «senno di poi» ho cercato di rileggere molti fondamentali saggi dell’autore: Dieci inverni, Verifica dei poteri, Questioni di frontiera.

Per tornare all’impegnativa domanda inziale, credo che, tutto sommato, anche con il mio modesto ‘senno di poi’, il modo migliore per riflettere sui rapporti tra intellettuali e ’68 sia quello di individuare alcune situazioni chiave (che naturalmente possono essere molto diverse da quelle che ho presentato), con un’attenzione particolare e sempre viva a distinguere i dati di una tradizione e gli elementi di reale novità. Basterebbe l’esempio del nome stesso della rivista pisana «Nuovo impegno»: da un lato ci si ricollega a un termine topico (l’engagement), dall’altro si specifica che è ‘nuovo’. Va dipanato l’intreccio tra vecchie
(e forse irrisolte) questioni e nuove impetuose domande.

L’arte spesso anticipa i tempi. Nel caso della letteratura, di cui ti sei sempre occupato, cosa puoi dirci delle sue relazioni con il ’68?

Partirei da una riflessione generale sui caratteri del Novecento letterario italiano. In ogni momento del percorso, accanto a esperienze centrali (autori, riviste, correnti) che sembravano segnare e siglare un determinato periodo, si mescolano persistenze, eredità, ritardi, sovrapposizioni, ripetizioni.

Questo vale naturalmente anche per il decennio 1965-1975, prima e dopo il ’68.
Ho studiato una decina di esempi di ‘letteratura politica’ di autori molto diversi tra di loro: da Giorgio Cesarano a Francesco Leonetti, da Luca Canali a Renzo Paris, da Luciano Della Mea a Ferdinando Camon. Questi tentativi, a prescindere dagli esiti, esprimono il bisogno di confrontarsi con la nuova realtà dei giorni del dissenso, di misurarsi apertamente e coraggiosamente con gli eventi. Si possono naturalmente ritrovare in questi testi limiti, debolezze, contraddizioni, ma quello che conta è lo sforzo di rinnovamento.

Negli stessi anni la letteratura tradizionale continua placidamente il suo corso: proprio nel 1968 ottengono un grosso successo romanzi come L’airone di Giorgio Bassani e L’occhio del gatto di Alberto Bevilacqua. E poco dopo diventano dei best seller Paura e tristezza di Carlo Cassola, Ritratto in piedi di Gianna Manzini e I cieli della sera di Michele Prisco.

Questo sta a significare che un certo tipo di scrittori mantiene un suo pubblico fedele. L’ampliamento del mercato in una certa fase riguarderà piuttosto la saggistica, con un’attenzione privilegiata di editori come Einaudi, Feltrinelli, Laterza per opere direttamente politiche. La sterzata in direzione della prassi e lo scioglimento nella lotta tendenzialmente implicano nei giovani, come è naturale, un rifiuto della letteratura. Contro questa tendenza si batterà animosamente un autorevole intellettuale come Franco Fortini.

In questo periodo saltano agli occhi due immagini contrastanti: quella dei poliziotti difesi da Pasolini e quella dei poliziotti sotto accusa per i fatti di tortura del G8 di Genova. Com’erano vissuti gli scontri e la violenza nel ’68?

Si tratta di due episodi molto diversi: il contesto storico è enormemente cambiato. Sull’irruzione nella scuola ‘Diaz’ direi che si è trattato di uno degli episodi più gravi del dopoguerra, una ferita che non sarà facilmente sanata.

Anche per Pasolini si gioca una partita legata al tempo e ai tempi. La poesia Il PCI ai giovani!!, più famigerata che famosa, fu scritta e pubblicata a caldo su «L’Espresso» del 16 giugno 1968 e poi sul n. 10 della rivista «Nuovi Argomenti». La scintilla era rappresentata dagli scontri di Valle Giulia. La poesia fu percepita come un intollerabile ‘fuoco amico’, una sonora provocazione; lo stesso Pasolini ha cercato in seguito con non lineari argomentazioni di giustificare questi «brutti versi».

Devo riconoscere che, con il passare degli anni e poi dei decenni, l’interpretazione della contestazione come un fatto interno alla borghesia, in un quadro di assoluta omologazione della società, si è in qualche modo solidificata. Quella poesia non è certo il capolavoro di Pasolini ma l’interpretazione del ’68 lì impostata si viene collocando accanto a tante altre analisi ed esegesi della rivolta. Bisogna ricordare anche che Pasolini, disinteressatamente, in seguito accettò di diventare per un periodo direttore responsabile del giornale «Lotta continua» per spirito di solidarietà, pur non condividendo nel modo più assoluto la linea del periodico.

Per quel che riguarda il grande tema della violenza, naturalmente separo in modo reciso la stagione dei movimenti dagli anni del terrorismo.

Un politologo americano, Sidney G. Tarrow, ha pubblicato nel 1990 un libro (purtroppo esaurito) dal titolo Democrazia e disordine. Con un’analisi a tappeto della stampa, delle statistiche e degli studi più innovativi sul tema, Tarrow individuava storicamente anche nel ciclo delle azioni collettive dei nuovi movimenti un fattore sovrano e positivo di crescita della stessa ‘giovane’ democrazia italiana. Da quell’angolazione pure la serrata critica alle classi dirigenti poteva rappresentare un fattore di realizzazione delle riforme e di consolidamento della democrazia.

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