SENSO
I sensi del design
di Riccardo Falcinelli
Senso, in un’accezione esistenziale, sta per ‘sensatezza’. Della realtà, del mondo, come quando diciamo ‘non ha senso’ o chiediamo ‘che senso ha?’. I filosofi parlano di ‘orizzonte di senso’, come se qualcosa che si trova lontanissimo fosse garante delle cose che abbiamo vicine. E non a caso, nelle immagini prospettiche e nelle fotografie, l’orizzonte è appunto la rappresentazione grafica dell’infinito. Interrogarsi sul senso sembrerebbe inevitabile per l’homo sapiens, conseguenza di una mente che è in grado di astrarre. Ci sono però quelli che stanno bene nel mondo così com’è, e quelli, più speculativi, che vogliono saperne di più. Il problema ontologico e quello metafisico riguardano il senso, ma le religioni tendono più spesso a istituzionalizzare l’astratto e lo spirituale, banalizzandolo. Del resto il ruolo della religione sembrerebbe più lenire che spiegare. E il design? La domanda non sembri una provocazione.
Nel Novecento la politica è stata per molti aspetti depositaria del senso, scelta pertinente visto che quest’ultimo (come la società) di rado è pensabile disgiunto da un’idea di futuro. Tuttavia – con il crollo delle grandi narrazioni onnicomprensive e a fronte di una crisi economica che frammenta le speranze collettive nei destini dei singoli – molte di quelle domande di senso sono diventate domande private (trent’anni fa lo avrebbero chiamato un po’ cinicamente ‘riflusso’). Tra gli studenti delle discipline legate al design ci sono molti che non stanno semplicemente perseguendo un titolo di studio o una professione, ma ambiscono a trovare una sensatezza allo stare nel mondo attraverso il proprio fare. Non è illogico: nella società moderna ci si rende facilmente conto che il tempo del lavoro occupa la maggior parte del tempo della vita e quindi perché non farne uno spazio di senso? La questione non è però priva di insidie. Cosa vuol dire infatti, nelle pratiche di design, fare senso? Per rispondere, proviamo a scomporre questo desiderio di sensatezza in quattro tipologie. Non si tratta di personalità precise ma piuttosto di momenti (o stati psicologici) che possono trovarsi mischiati tra loro e avere una predominanza diversa a seconda delle fasi della vita. Il primo tipo di desiderio è quando si vogliono risolvere problemi, intendendo il design come sistema per migliorare la vita della collettività. Il senso si compirebbe attraverso la costruzione di pratiche e artefatti ritenuti benefici.
Al secondo tipo appartiene la voglia di esprimere se stessi. Se nel primo caso si vuole aiutare, qui si vuole ‘dire’. Il design è inteso come uno spazio autoriale dove si mette in forma un modo di sentire la vita o di raccontarla. Chi si riconosce in questo secondo tipo di aspirazione per molti aspetti si comporta da artista (in alcuni casi potremmo dire che lo è), con la differenza che lo spazio di azione non è il sistema dell’arte ma il sistema di produzione di massa. Il terzo tipo di desiderio è quello di chi, più o meno apertamente, vuole diventare famoso. La fama è divenuta nella società moderna un potente simulacro della sensatezza: spiccare tra milioni di persone sembrerebbe garantire di lasciare un segno (o almeno ci si illude che sia possibile); si scelgono così quegli ambiti professionali che permetterebbero notorietà e il design è uno di questi. Anche se poi, nel concreto, si tratta di un’aspirazione molto difficile da realizzare.
Questi tre tipi di desiderio (con tutte le sfumature e le contaminazioni possibili) hanno in comune l’idea che il proprio operato possa lasciare una traccia, nella vita degli altri o nella storia delle azioni umane. È chiaro che non si tratta di posizioni assolute. Si sceglie il design per molteplici ragioni: perché diverte, per sostentarsi o per diventare ricchi, perché piace lavorare con le mani o perché si ha una passione per le forme. Non si agisce mai per un solo motivo. Ma quando facciamo i conti con l’urgenza di senso ecco che le tre tipologie che abbiamo tracciato, per quanto rozze, si rivelano un utile schema di partenza. Ciascuno di questi desideri comporta però rischi, difficoltà e aporie. Vediamo quali, partendo dall’ultimo tipo.
Dostoevskij diceva che se si vuole diventare famosi scrivere un romanzo è una fatica inutile e tanto vale rapinare una banca. Potremmo aggiungere che oggi sarebbe più facile andare in televisione, partecipare a qualche trasmissione come Il grande fratello che permette fama facile e immediata al presunto uomo comune (in realtà anche esporsi agli altri è un tipo di talento). Eppure le cose non sono affatto semplici per i designer. Il terzo tipo di senso, infatti, non pretende la fama a tutti i costi ma dentro un sistema/mondo che potremmo definire ‘qualificante’: si desidera essere famosi perché ‘importanti’ non perché ‘conosciuti’. Si ambisce insomma al prestigio. Il rischio è che, se non si riesce (ed è un percorso in cui il caso ha un peso notevole), il senso sfugge di mano e si è condannati alla frustrazione.
Da questo punto di vista il desiderio numero due è meno pericoloso: esprimendo se stessi ci si vuole distinguere da un lavoro meramente esecutivo o impiegatizio ritagliandosi uno spazio ad alta densità estetica, dove spesso il fare le cose ‘a modo proprio’ conta più del consenso altrui. È il ricercare una sensatezza nel quotidiano, uno spazio psicologico in cui non si perdano le giornate ‘seduti a una scrivania’, come dicono in molti. Il rovescio di senso, in questo caso, è sottovalutare che la maggior parte del lavoro di design (a tutti i livelli) comporta molte ore seduti a una scrivania o a obbedire alle richieste di committenti spesso indisponenti. L’unico modo per non farsi male sarebbe essere tanto ricchi da scegliersi i clienti con cui lavorare, ma questo stesso privilegio, il più delle volte, riduce il lavoro a mero hobby e chi ci casca non si accorge che ha smesso di progettare e, forse, sta solo giocando.
Veniamo quindi al primo tipo di urgenza di senso: sentirsi utili. Sulla carta sembrerebbe l’ambizione più nobile e in fondo meno rischiosa. Ma è davvero così? Per molti aspetti la differenza tra il desiderio di fare cose utili e quello di essere famosi non è solo di spessore morale, ma un mero tratto caratteriale, ovvero (ma è solo un’ipotesi) ci sarebbe una componente di maggiore introversione rispetto a quando si ambisce alla ‘fama e basta’. C’è però, nel voler essere, utili anche un maggiore senso di responsabilità, un maggiore senso sociale. Il rischio che si corre è stavolta l’elitismo. La società attuale, in effetti, produce una grandissima mole di artefatti non utili ma ‘retorici’, realizzati cioè non per un fine pratico ma per mettere in scena un’idea persuasiva, politica o commerciale. Usando una generalizzazione metaforica potremmo dire che produciamo più cosmetici che antibiotici (ipotizzando che queste due classi di prodotti farmaceutici ricoprano il ruolo di massimamente retorico e massimamente utile). Pensare però che gli antibiotici siano più importanti dei cosmetici è una posizione fortemente moralista e, se davvero la si portasse alle estreme conseguenze, si finirebbe per eliminare il 90% di quella che chiamiamo ‘cultura’. Desiderare esclusivamente un design ‘utile’ rischia insomma di farci finire in una secca: volendo partecipare solo a progetti necessari ci si autoesclude dai reali processi storici (ancor prima che produttivi), chiudendosi nella riserva indiana.
Non ho mai conosciuto tra professionisti e studenti qualcuno che non coltivasse, seppur blandamente, uno di questi tre desideri. È qualcosa che si dà per scontato o di cui non si parla, perché ritenuto troppo intimo e privato. Eppure deleghiamo tutti al design una forte domanda di senso. C’è però un’ulteriore sensatezza – il quarto tipo di desiderio che avevo anticipato – e si tratta del piacere artigianale di fare qualcosa da cui si possa anche imparare. Il desiderio di avere un rapporto denso e significativo con le proprie azioni dando forma a degli artefatti: un desiderio di conoscenza attraverso la pratica. Non per lasciare una traccia per gli altri o per la Storia, ma anzitutto per rendere conto di un’urgenza che verrebbe da dire antropologica: il piacere di «seguir virtute e canoscenza». Ecco, riguardo questo tipo di desiderio, non mi risulta a tutt’oggi che si corrano rischi.