SENSO

Il primo ad affrontare il problema del rapporto tra la cultura scientifica e quella letterario-artistica fu Charles Percy Snow nel suo pamphlet Le due culture e la rivoluzione scientifica, apparso nel 1959, in cui fece notare come, a causa della rivoluzione scientifico-industriale, nella vita intellettuale della società occidentale si erano formati due gruppi contrapposti: i letterati e gli scienziati. In un’edizione successiva del libro di Snow appare per la prima volta la definizione di ‘terza cultura’, che egli auspica possa colmare il vuoto di comunicazione tra letterati e scienziati. John Brockman, nell’introduzione al suo libro The third culture (1994), fa propria questa espressione evidenziando tuttavia come gli scienziati non avessero ancora aperto il dialogo con i letterati, né i letterati lo avessero fatto con gli scienziati. Questi ultimi si rivolgevano direttamente al pubblico, aprendo un proprio canale ‘divulgativo’ ed esprimendo così i loro pensieri e le loro teorie a un pubblico non specialista in un modo intellegibile.

L’approdo a una cultura che superi la contrapposizione tra scienze e materie umanistiche porterà a un umanesimo nuovo, il quale potrebbe salvarci dall’autodistruzione verso cui sembriamo avviati, resa oggi ancora più spietata e raffinata dal dominio della tecnica. È, inoltre, una cultura già in fieri: scienziati e intellettuali ne sentono infatti l’esigenza e ne dibattono. Quando il suo pieno compimento permeerà la nostra vita intellettuale e sociale, la società ne trarrà giovamento.

In questa nascente terza cultura, la commistione tra le materie umanistiche e le scienze fa sì che si indaghino le basi biologiche di fenomeni culturali così come gli aspetti darwiniani della nostra storia. Un bell’esempio lo fornisce uno dei massimi studiosi dell’evoluzione animale, il biologo Ernst Mayr (1904-2005), il quale qualche anno fa fece un’inquietante previsione: egli sostenne che l’intelligenza fosse una ‘mutazione letale’.

Una mutazione genetica è definita come qualsiasi modifica stabile ed ereditabile di materiale genetico. Per ‘mutazione letale’ in senso evolutivo si intende una modificazione che non permette all’individuo di raggiungere l’età riproduttiva o comunque di riprodursi. Insomma, si tratta di una mutazione che porta alla fine della specie.

Noam Chomsky fa notare che gli scienziati da anni hanno dato avvertimento della gravità delle conseguenze dell’inquinamento sul clima e ripetutamente si è dimostrato che essi avevano ragione. I governi non hanno però replicato con una maggiore urgenza per limitare le emissioni di gas serra. Al contrario, la loro risposta è stata quella di programmare lo sfruttamento di minerali recentemente resi accessibili nell’Artico e le trivellazioni per cercare altro petrolio. Questo vuol dire accelerare la catastrofe. Ciò è «molto interessante – afferma Chomsky – dimostra una straordinaria volontà di sacrificare la vita dei nostri figli e nipoti a favore di guadagni a breve termine, […] o forse gli esseri umani stanno in qualche modo cercando di far avverare la previsione di un grande biologo scomparso di recente, Ernst Mayr. Sosteneva, anni fa, che l’intelligenza sia una mutazione letale» (N. Chomsky, Chi possiede il mondo?, conferenza tenuta all’Università del Massachusetts, ad Amherst, il 27 settembre 2012).

Un altro studioso che si è concentrato sulla nascita del pensiero nell’essere umano e sulla teoria della conoscenza è stato lo psicologo Wilfred Bion. Dalle sue teorie si può dedurre che «il pensiero può considerarsi la forma più evoluta dell’istinto di autoconservazione» (cfr. A. Meotti, Un’ipotesi di tipo Bioniano sull’origine del pensiero, in «Rivista di Psicanalisi», XXVII, 3-4, 1981). Per comprendere tale teoria dobbiamo partire dal suo concetto di ‘preconcezione’, con cui egli intende un precursore di una concezione, una predisposizione a formare un pensiero. Secondo Bion, in noi esiste già alla nascita una preconcezione, quella del seno materno. Quando la mamma risponde al bisogno del bambino e gli dà da mangiare, allora c’è la possibilità di accedere a una concezione. La concezione (il pensiero) si raggiunge quando l’esperienza reale si coniuga alla preconcezione. Nel periodo di tempo che intercorre tra l’esigenza di nutrimento del bambino e la comparsa del seno, il bisogno non soddisfatto genera frustrazione e dolore mentale. Essere in grado di tollerare questo dolore è il fondamento dell’equilibrio emotivo e della salute mentale ed è anche il fondamento dei primi pensieri. La capacità di pensare è quindi legata a quella di tollerare tale frustrazione: «il pensiero nasce dalla mancanza di una soddisfazione desiderata» (W.R. Bion, Apprendere dall’esperienza, 2009). Per un esito soddisfacente di questo processo sono determinanti alcune doti del bambino: la capacità di abbandonarsi nella relazione con la madre e di far nascere in sé la speranza e la fiducia nel corso delle esperienze positive. Speranza e fiducia sono infatti gli elementi costitutivi della capacità di tollerare la frustrazione e quindi di pensare la mamma (simbolicamente rappresentata dal seno) assente. La possibilità di pensare, allora, dipende dallo sviluppo di una relazione. Il pensiero intelligente, secondo questa ipotesi, nasce dall’amore oggettuale derivato da quello narcisistico, e l’istinto di autoconservazione è parte di questo amore narcisistico.

È facile comprendere le considerazioni di Bion. Il lattante, esposto al nuovo impatto con la realtà esterna e all’ansia provocata dal trovarsi solo, cade in preda a un’angoscia senza nome, che potrebbe distruggere la sua mente. Il pensiero della mamma che arriverà a nutrirlo, ad avvolgerlo con le sue braccia e quindi a ‘contenerlo’ è il solo che egli può in quel momento formulare ed è appunto quel pensiero che può ‘contenere’ la sua angoscia, impedendo che egli ne venga distrutto. Esso, dunque, serve all’autoconservazione del bambino ed è la prima astrazione che egli fa nella sua vita. La mamma non c’è ancora, non è ancora arrivata da lui, ma egli pensa un’idea, l’idea della mamma (o del seno, per seguire l’accezione di Bion). La sua prima idea astratta gli permette di sopportare l’angoscia di sentirsi solo in un mondo sconosciuto: è la zattera cui il bambino ‘naufrago’ si aggrappa per salvarsi. La sua intelligenza, il suo pensiero, la sua capacità di formare un’idea, nasce dunque dal suo istinto di autoconservazione.

Com’è quindi possibile che questo pensiero intelligente, che si forma primariamente per autoconservazione, si evolva poi verso una mutazione letale per l’uomo?

Nel Paradiso Dante chiamava il nostro mondo un’«aiola che ci fa tanto feroci». Proponeva, con questa immagine, il paradosso poetico di una Terra paragonabile a una splendida aiuola ricca di vegetazione e accogliente, nella quale però gli abitanti per qualche motivo oscuro diventano ‘feroci’, aggressivi gli uni verso gli altri. Partendo da qui si arriva facilmente all’idea della mutazione letale. Letale perché la nostra intelligenza non solo non frena la cieca aggressività legata alla sete di potere, alle confessioni religiose, alle aspirazioni di dominio di un popolo su di un altro ma, come dice Chomsky, non ci mette nemmeno al riparo dalla distruzione dell’ambiente in cui viviamo. La nostra intelligenza viene esercitata in modo ultraraffinato per costruire una tecnologia che poi porta alla distruzione del pianeta e all’eliminazione dell’‘altro’ con armi sempre più sofisticate. Dobbiamo dunque capire perché questo pensiero, che nasce come la forma più evoluta di autoconservazione, si trasformi nella forma più raffinata di distruzione e autodistruzione.

Albert Jacquard sostiene che, se la peculiarità dell’essere umano è l’incontro, è altrettanto vero che il motore della società occidentale, quella dominante, è ora la competizione e che questa ha un effetto distruttivo sugli incontri (cfr. A. Jacquard, Être humain?, 2005).

La nostra società è basata sulla competizione, considerata come un’idea liberale che muove il progresso, ma che in realtà porta alla distruzione dell’umanità. Basti pensare a come il trionfo dei principi liberali si sia rapidamente trasformato in un predominio del liberalismo finanziario di banche e multinazionali, che mira solo a raccogliere profitti nel breve termine.

Un contributo che potrebbe dirci qualcosa in merito all’interazione tra le nostre capacità intellettuali (che ci permettono di studiare il mondo, ma anche di dominare, sfruttare e distruggere la natura, di costruire mezzi spietati per aggredire l’altro ed eventualmente annientarlo) e quelle empatiche (che invece ci fanno riconoscere l’altro, insieme ai suoi bisogni e alle sue passioni, e quindi ci spingono a solidarizzare con lui) arriva dall’indagine di Simon Baron-Cohen, il quale suggerisce una possibile interferenza tra la capacità di empatizzare e quella di sistematizzare (cfr. S. Baron-Cohen et al., The exact mind. Empathising and systemizing in autism spectrum conditions, in Handbook of cognitive development, a cura di U. Goswami, 2007).

L’empatizzare ci fa comprendere le idee e le emozioni delle persone e quindi intuire quello che l’altro prova, le sue intenzioni, e fare ipotesi sul suo comportamento. La capacità di sistematizzare, invece, consiste nell’analizzare sistemi inanimati e predire il loro ‘comportamento’ non agentivo (cioè non intenzionale). Queste previsioni non sono dunque basate sulla comprensione di stati mentali, ma sulla conoscenza delle regole e strutture soggiacenti ai sistemi inanimati: il sistematizzare è l’abilità di analizzare relazioni di input-output.

Secondo Baron-Cohen, una capacità di sistematizzare elevata, qualità tipica degli scienziati, è spesso associata a deficit nell’empatizzare. Questa peculiarità raggiunge il massimo grado in certe forme di autismo; tale sindrome descrive persone prive di empatia ma spesso molto dotate nelle scienze esatte. Baron-Cohen dà un’interpretazione convincente di questa interferenza: il meccanismo di sistematizzazione richiede esattezza, grande quantità di dettagli. Se a una persona si richiedesse una sistematizzazione estrema, a domande con molte risposte possibili (che sono normali nei rapporti umani) egli non saprebbe rispondere. Dunque, l’eccesso di dettaglio può ostacolare un’adeguata comunicazione.

Da questa considerazione si evince che ci può essere correlazione tra un deficit di empatia (la difficoltà a capire l’altra persona, con interrogativi che non hanno bisogno di risposte eccessivamente dettagliate o precise e che possono avere più di una risposta) e un’alta capacità di sistematizzazione (che richiede un’estrema esattezza e risposte univoche).

L’individuazione di competenze dissociate come l’empatizzare e il sistematizzare è certamente un risultato interessante, ma non si può stigmatizzare la forma mentale dello scienziato soltanto per la sua maggiore abilità a sistematizzare. Ed è proprio qui il punto.

Certamente un uomo di scienza avrà competenze molto elevate nel sistematizzare, tuttavia anch’egli avrà la sua ‘dose’ di empatia e una propria vita emozionale. E, anzi, proprio questa componente emozionale deve essere coltivata per opporci al carattere letale della nostra mutazione, in quanto garante del significato del nostro processo cognitivo e delle nostre azioni.

Scrive Giorgio Blandino: «Qualunque processo cognitivo non è un fatto puramente tecnico, perfino il pensiero matematico è collegato con un ordine emozionale. Il contatto emozionale è garante del significato. Perdere il contatto emozionale significa depri-vare di senso l’esperienza, la possibilità di produrre pensiero autentico, di comprendere» (G. Blandino, Le capacità relazionali, 1996). E Wolfgang Pauli afferma: «Mi sembra che il sentimento sia profondo quanto il pensiero e dunque dal mio punto di vista ‘amo ergo sum’ è altrettanto giustificato del ‘cogito ergo sum’ di Avicenna-Descartes» (W. Pauli, Psiche e Natura, 2006). Infine, Henri Poincaré, nella sua lezione sull’invenzione matematica, sostiene che: «L’io incosciente o, come si dice, l’io subliminale ha un ruolo capitale nell’invenzione matematica. Esso non è inferiore all’io cosciente: sa scegliere, ha tatto e delicatezza, sa indovinare […], sa indovinare meglio dell’io cosciente: infatti ha successo in ciò in cui quest’ultimo avrebbe fallito. […] se non considerassimo la sensibilità dimenticheremmo i sentimenti che genera la bellezza matematica, l’armonia dei numeri e delle forme, l’eleganza geometrica […]. Le combinazioni utili sono precisamente le più belle, cioè quelle che più affascinano quella speciale sensibilità che tutti i matematici conoscono, ma che i profani ignorano al punto di sorriderne, talvolta. […] La nostra mente è fragile quanto lo sono i nostri sensi; si perderebbe nella complessità del mondo se quella complessità non fosse armoniosa» (H. Poincaré, L’Invention Mathematique, 1908).

Il formalismo della matematica dunque ci aiuta, secondo Poincaré, a estrarre dal nostro inconscio e dalla natura quelle forme pure e quelle leggi esplicite che ci fanno comprendere la realtà e che appagano la nostra sensibilità estetica.

L’emozione, il sentimento, la sensibilità, la capacità di empatizzare sono pertanto fondamentali anche per la conoscenza scientifica. C’è allora un ‘sottotesto’ pure nei trattati scientifici, ed è legato all’emozione della ricerca, allo stupore della scoperta, ai desideri che muovono lo scienziato a cercare una soluzione, una teoria. Questo sottotesto imprime un carattere personale ai risultati scientifici.

Pensare alle facoltà di empatizzare e sistematizzare come qualità antitetiche conduce a un’idea troppo radicale della scienza e a una dicotomia che dobbiamo superare, per rimarginare la frattura tra le due culture ma anche per trasformare la mutazione letale che ci ha resi intelligenti in ‘successo genetico’.

Soltanto con la consapevole integrazione dell’empatia, dell’emozione, della sensibilità con le nostre raffinate capacità di analisi scientifica potremo approdare al consolidamento di una terza cultura in cui l’empatia superi la competitività e che investa il risultato tecnologico non di un valore di successo egocentrico o orientato all’avere, bensì di un valore ‘noi-centrico’ orientato all’essere, al beneficio della generazione umana.

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