SENSO

L’essere umano è un animale malato di senso. Non può farne a meno, ne dipende al punto che non riesce neppure a dare un nome all’oggetto della sua dipendenza. Definire il senso non è facile, e forse neanche possibile, se non facendo riferimento alle parole di questo o di quell’altro filosofo. Una nozione accettata e condivisa non esiste. Ciò che dà nome a quanto dovremmo intuitivamente avere in comune (il senso comune, il common sense, appunto) è ciò che si sottrae all’intuizione comune, ed è per questo, come ha mostrato Emilio Garroni, che si può parlare del senso in generale solo convocando di volta in volta dei sensi e dei significati individuati, concreti, storici, finiti, sempre imperfettamente comunicabili e condivisibili (il che non significa peraltro incomunicabili e incondivisibili). Necessità e rischio insieme, in un vincolo di coappartenenza che non può essere rescisso, pena appunto il non-senso: «Forse il senso è il rischio, che non possiamo non correre, di cogliere la sensatezza, mentre ci viene sottratta, e di perderla, mentre la conquistiamo […]. Forse il senso si profila ora come il dover-essere sensato». Più forte è l’adesione che è possibile fornire a dei sensi particolari (segni, valori, modelli, norme, visioni del mondo, habitusvari), più la casella vuota del senso in generale si mostra come un radicale specie-specifico che grazie alla sua apertura rende appunto possibile quell’adesione, contingente ma non per questo infondata.

È comprensibile dunque come nei momenti di crisi storica, quando cioè tutte le adesioni vigenti sembrano in procinto di essere ritirate, si avverta con forza la tentazione di tagliare il nodo di Gordio reclamando per il senso un’identità fissa, certa, anagrafica, databile, additabile in un evento fondativo. A questo provvede oggi con particolare efficacia retorica la mitologia della vittima.

La vittima è qualcuno che non ha bisogno di dubitare, né di mettere in questione le ragioni che l’hanno condotta a essere tale. In posizione passiva, deresponsabilizzante, essa non interpella la soggettività sul piano dell’agire e a guardar bene nemmeno dell’essere, ma piuttosto su quello dell’avere: la condizione di vittima, da qualcosa che si è, trapassa continuamente in qualcosa che si ha, si possiede, si può rivendicare, inalberandola come un controvalore in cambio del quale è possibile esigere risarcimento, diritto, empatia, in una parola riconoscimento. Rovesciando e anzi azzerando la dialettica hegeliana tra servo e padrone, la vittima chiede di essere riconosciuta in quanto soccombente. Il rischio non è più davanti ma alle spalle, i dadi sono ormai lanciati e non rimane che ritirare una perdita che diventa paradossalmente una vincita. Non si spiegherebbe altrimenti come mai una condizione di per sé inauspicabile sia diventata desiderabile, oggetto di concorrenza, motivo di orgoglio, generatrice di identità, garanzia di innocenza, fattore di disciplinamento dello sguardo e dell’ascolto altrui.

Che oltre alle vittime reali ci si trovi oggi circondati da vittime assolutamente immaginarie, o da potenti che assumono questa posizione per legittimare il loro potere (ciò che a rigore dovrebbe essere un controsenso, perché la vittima è tale se e solo se è priva di potere, altrimenti non lo sarebbe), si spiega anche con questa esigenza di tagliar corto, di trovare un fondamento indiscutibile, di dissolvere l’ambiguità implicita nella costitutiva instabilità categoriale che ci permette di cogliere il senso solo ‘in un certo senso’. Ciò a cui si aspira, invece, è un ‘senso certo’, inconcusso, indiscutibile, da non doverci tornar sopra se non nella modalità della ripetizione.

Non soltanto motivazioni opportunistiche presiedono dunque alla sostituzione del paradigma eroico con il paradigma vittimario: la vittima è l’eroe del nostro tempo. Paradigma, come si sa, etimologicamente significa ‘modello’, esempio da additare, cornice di senso data in cui inscrivere il pensiero e la prassi ancora da venire. Che la vittima sia diventata un esempio da additare è spia di un profondo disorientamento, derivante dal collasso della possibilità di esibire in positivo (e non solo per via di negazione, come avviene alla vittima – la vittimizzazione è un evento negativo, almeno riguardo alla posizione soggettiva che determina) non tanto un bene nominabile e visibile, quanto la direzione in cui cercarlo.

Non da oggi evento e senso, esistenza e destino, mondo e linguaggio si sono separati. In quella separazione, nel differimento tra nome e cosa, nella caduta dell’animale nella rete del linguaggio, in cui entra originariamente come ‘in-fante’, ovvero come colui che deve apprenderlo perché non lo possiede, risiede anzi il dispositivo dinamico dell’antropogenesi, il vettore temporale che dall’infanzia apre alla storia. Oggi si addita invece a paradigma l’infante: la vittima è colui al quale un tempo è mancata la voce, e non l’ha ritrovata se non per continuare a dire quella mancanza, invece che tutto il resto del dicibile. Che ciò accada in una società che ha vissuto l’esperienza della fine della storia (un sintagma che non è solo una mistificazione degli ideologi, ma il nome proprio di un sentire condiviso), e cioè il venir meno di ogni possibilità di agency, di quella praxis che da Aristotele ad Hannah Arendt caratterizza l’essere umano al punto da entrare nella sua stessa definizione, è senz’altro sintomatico.

Ma il sintomo non coincide con la malattia, non è il sintomo che bisogna curare. La macchina mitologica della vittima, con tutte le sue ricadute emotive mortificanti, paralizzanti, depressive, non scomparirà finché non verrà ritrovata una possibilità di prassi collettiva che non si avverta inibita fin dalle premesse in quanto ineffettuale, inutile, priva di concretezza. L’immaginario vittimistico è un materiale di risulta che serve a coprire questo vuoto. Compito della critica è ri-scoprirlo, dichiarandolo tale. Quanto poi a riempirlo, restituendo al senso la possibilità di nominarsi attraverso l’individuazione di sensi praticabili, non garantiti ma nemmeno vietati come oggi, è evidente che si tratta del principale compito etico-politico di un presente che non accetti più di accartocciarsi sul passato perché teme, e non si può dargli tutti i torti, il futuro che lo attende.

multiverso

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