SENSO
Per una comunità di senso
di Ida Dominijanni
Laura Morandini intervista Ida Dominijanni
A guardarci intorno sembrerebbe che oggi del senso si siano perse le tracce. Eppure il nostro pensiero si è sviluppato proprio grazie al bisogno, alla volontà e alla capacità di dare un senso, un significato, una direzione a ciò che ci accade. Ma chi si domanda più ‘Che senso ha’? Sembrerebbe che sia venuto a mancare quel tessuto condiviso (fatto di razionalità, ma anche di sensi e di sensibilità) intorno al quale costruire una comunità di senso. Che cosa puoi dire al riguardo?
Per parafrasare: che senso ha dire che oggi non c’è più senso, o ricerca di senso? Che cos’è ‘il’ senso? Non c’è mai ‘il’ senso, ma c’è sempre un qualche senso; e, in mancanza d’altro, il senso dominante, quello che le cose prendono se lasciate a loro stesse senza che cerchiamo di dargliene uno, o senza praticare il conflitto necessario perché una direzione di senso si faccia strada o si imponga su un’altra. Perfino il ‘senso del non-senso’ è un senso, ed effettivamente oggi pare che abbia un certo successo; ma non per mancanza di senso, credo, bensì perché evidentemente c’è del godimento, nel non-senso. Pensiamo ad esempio a quanto il gusto per il non-senso si sta imponendo nel teatro politico, non solo sulla scena ma ancor più sintomaticamente fra gli spettatori: gli spazi di partecipazione e di critica sono ridotti a zero, la Costituzione viene fatta allegramente a pezzi, la classe dirigente è sempre più ignorante e arrogante, ma in tanti godono di questo andazzo, o perché lo condividono o perché, viceversa, non lo condividono affatto ma si trastullano nelle macerie che provoca. Si va diffondendo un senso comune secondo il quale nel non-senso ci si può sguazzare benissimo, se ne può, appunto, godere. A diffonderlo sono in tanti, dal mercato ai media alla filosofia: tutta quella filosofia che milita, peraltro con ottime e condivisibili ragioni, contro l’ordine costituito senza porsi il problema che non si può vivere solo di disordine e in uno stato destituente continuo. Tanto meno, questo è il punto, in una situazione in cui l’ordine costituito ci pensa da sé a destituirsi e a de-sensizzarsi, per così dire.
‘Ordine’ è una parola relativa e spesso ambigua sulla quale ci si potrebbe però trovare tutti d’accordo se vi si riconoscesse un bene comune o, in termini più pratici, se fosse almeno il risultato di un buon compromesso che facesse funzionare le cose. L’ordine, insomma, dovrebbe sostenersi sulla costruzione di un senso. Niente di tutto questo, se ci guardiamo attorno: se pensiamo all’ordine economico, a quello politico, a quello dello Stato, è più facile imbattersi nel non-senso. Nella storia, in situazioni del genere, si è arrivati a una rottura, alle rivoluzioni e alle contestazioni. Siamo vicini a una nuova rottura?
Tutte le parole sono ambigue, o polisemiche: dipende per l’appunto dal senso che prendono, o che diamo loro. All’ordine è spesso associata la costrizione, l’imposizione, la disciplina, la normatività, tutte cose che facciamo benissimo a contestare – il guaio, semmai, è che oggi le si contesta molto poco. Ma l’ordine è anche qualcos’altro, è una scala di priorità esterna – il buon funzionamento delle cose, appunto – e soprattutto interna, quella che ci permette di agire sensatamente obbedendo a una legge simbolica alla quale conferiamo autorità e che può supportare l’ordine costituito o, viceversa, aiutarci a disfarlo. Tra ordine storico e ordine simbolico, in altri termini, c’è sempre un rapporto di complicità ma anche uno scarto, ed è su questo scarto che bisogna sapere intervenire. Ma vengo al punto: davvero l’ordine economico, quello politico, quello statuale di oggi rinviano solo un non-senso? E c’è una qualche corrispondenza, e se sì quale, fra quell’ordine e l’ordine simbolico? Secondo me l’ordine politico, economico e statuale di oggi un senso ce l’hanno, eccome. È quello che Pierre Dardot e Christian Laval, nel loro libro sul neoliberalismo, chiamano La nuova ragione del mondo (2013): la razionalità del mercato e della competizione, dell’impresa e della prestazione, che il neoliberalismo estende alla politica e alla quale piega lo Stato. Sottolineo – con loro – che si tratta appunto di una certa forma di razionalità, con i suoi scopi e i suoi mezzi, e dunque di un ordine con un suo ben preciso scopo: lo scopo di una certa distribuzione della ricchezza, di una certa distribuzione del potere, nonché di una certa «distribuzione del sensibile», come la chiama Jacques Rancière. A questo scopo concorrono dispositivi raffinati, primo fra tutti, secondo Dardot e Laval che fanno riferimento alla letteratura psicoanalitica lacaniana, il dispositivo prestazione-godimento, per il quale proviamo piacere nell’eseguire le prestazioni che il sistema ci richiede, facendo nostri i suoi comandamenti: insomma, non solo obbediamo, ma godiamo di questa obbedienza. Un dispositivo simbolico che, com’è facile intuire, fa presa, prima che sulla nostra testa o sulle nostre scale valoriali, sui nostri corpi e sui nostri sensi: non è forse un surplus di sensazioni quello che ci viene promesso in cambio di un surplus di prestazione, in palestra, nel sesso, nel lavoro? Questo spiega il vasto consenso di cui l’apparente non-senso economico-politico si avvale: come dicevo prima, c’è del piacere in questo consenso, fosse pure – è la mia ipotesi – un piacere masochista carico di sensi di colpa per non essere mai all’altezza delle prestazioni suddette, o per essere sempre in debito rispetto alle chance che il mercato ci offre. Perciò è difficile, oggi, profetizzare contestazioni e rivoluzioni: bisogna che si spezzi questo consenso, il piacere perverso che sottintende e il dispositivo simbolico che lo attiva. Ciò, a mio avviso, non è improbabile, seppure non lo possiamo prevedere.
Nelle nostre relazioni, generalmente, non diamo mai abbastanza importanza alla ‘sensibilità’. Per lo più la associamo a qualcosa di negativo: ‘troppo sensibile’ si riferisce a una persona fragile, senza nessuna virtù e con lo stigma del perdente, mentre il vincente è chi si dota di corazza o, per rimanere nei modi di dire, chi ha ‘pelo sullo stomaco’. La sensibilità andrebbe invece intesa come un potente strumento di ascolto e un vero motore di cambiamento. Solo chi è sensibile riesce a immedesimarsi e a elaborare un senso-altro di fronte a una realtà sempre più appiattita nella prepotenza, nella sopraffazione, nell’abuso, nella violenza. Che ruolo ha la sensibilità nelle nostre vite?
Un ruolo enorme! Noi siamo abituati a pensare la sensibilità come una dote dell’anima, e per giunta oggi a disprezzarla a vantaggio della durezza e del cinismo (vedi la popolarità dell’attuale presidente del Consiglio italiano). Ma la sensibilità è in primo luogo l’insieme estremamente corporeo dei nostri sensi: e noi viviamo attraverso i nostri sensi. Il biopotere contemporaneo lo sa benissimo, infatti fa presa precisamente su di essi, ci seduce e ci conquista attraverso di essi: il mercato non fa che sollecitarli e politica e massmedia non fanno che titillarli. L’Italia si conferma, da questo punto di vista, un grande e avanzatissimo laboratorio politico: oggi nel male, come lo fu nel bene alcuni decenni fa. Il berlusconismo, l’ho già accennato, può essere interpretato come un dispositivo sensoriale, un dispositivo di costruzione del consenso attraverso i sensi: per questo il discorso sulla sessualità ha avuto un ruolo così importante nell’edificazione del regime di Berlusconi e per questo lo smascheramento e la contestazione femminile di quel discorso hanno avuto un ruolo così decisivo nella sua fine. Ma non si tratta solo di Berlusconi. Pensiamo a come oggi, in tutta Europa, partiti e movimenti di destra si rapportano all’immigrazione: è una continua sollecitazione dei sensi a fini immunitari, non toccateli perché sono pericolosi, non guardateli perché sono brutti, tappatevi il naso perché puzzano. Perciò dicevo che anche la contestazione, la ribellione, il rifiuto di tutto questo devono trovare una loro ‘via sensoriale’: bisogna che si affermi una sensibilità diversa, ma a partire dai corpi, non o non solo da esortazioni morali, che infiammano gli animi per lo spazio di un mattino.
Tra le altre cose, l’estetica può essere definita la scienza della conoscenza sensitiva. L’arte, attraverso le sue diverse espressioni, riesce spesso a recuperare la nostra attenzione su drammi e situazioni avvenuti anche molto tempo prima ma che, al momento del loro accadimento, erano stati vissuti in modo troppo distaccato. Si rivela, insomma, attivando un’empatia a distanza: facendoci sentire ciò che è anestetizzato; basti pensare alla forza della letteratura, del teatro, del cinema, delle arti figurative. Quanto l’estetica contribuisce all’etica? E come e quanto la politica può attingere da una sensorialità diffusa e condivisa?
Estetica ed etica sono da sempre intrecciate nella nostra cultura, e questo è noto. Anche l’intreccio fra estetica e politica è un tema molto antico, ben presente a una vasta schiera di pensatori e pensatrici, ma laterale nella filosofia politica mainstreamcontemporanea. Invece a me pare oggi una questione cruciale, per le ragioni che dicevo sopra: è il biopotere a porre il problema politico a questo livello, ed è a questo livello che bisogna rispondere. Come? Rancière scrive che una comunità politica è sempre anche – e forse in primo luogo – una comunità estetica, «un tessuto sensoriale, un intrecciarsi di sensazioni condivise», e dunque un «senso comune»; e che c’è politica solo laddove l’insorgenza nello spazio pubblico di una soggettività imprevista, o non vista, o silenziata, rompe la «distribuzione del sensibile» presieduta dall’ordine costituito e dalle sue norme simboliche. C’è politica, in altri termini, quando viene rotto il regime del visibile e dell’invisibile, del dicibile e dell’indicibile, delle parole che vanno ascoltate e di quelle destinate a restare inascoltate, dei luoghi praticabili e di quelli segregati, e il senso comune, ovvero la condivisione di queste percezioni visive, uditive, spaziali, cambia. In effetti, se guardiamo all’indietro, il conflitto politico è sempre accompagnato da una rottura della sensibilità e del senso comune. Pensiamo a come le lotte dei neri hanno cambiato la percezione del colore della pelle; a quanto nelle lotte operaie è stata importante la percezione della fabbrica come spazio condiviso; al Sessantotto, che fu preceduto negli anni ’60 da una travolgente rivoluzione estetica, nella musica, nell’arte, negli stili di vita; al femminismo, che ha distrutto e reinventato l’estetica della femminilità. Oppure torniamo, per restare più vicini nel tempo, alla rottura estetica – la saturazione e il rifiuto di tutti quei corpi in esposizione e in vendita, di tutte quelle promesse di piacere a buon mercato – che è stata necessaria in Italia perché si spezzasse il consenso a Berlusconi. Accadrà anche su scala globale contro l’ordine neoliberale? Prima o poi sì: quando si capirà, anzi si ‘sentirà’, che il piacere che dà questa specie di prestazione continua che va dalla fitness all’esibizione del perfetto è un piacere mortifero: godimento, in senso lacaniano stretto.
Totem e tabù: il totem dell’utile e del profitto ha tolto di mezzo qualsiasi parvenza di senso. I grandi temi sociali vengono affrontati solo come problemi, senza chiederci prima che direzione e che significato si vuol loro dare. Professiamo il senso, ma perseguiamo l’utile. In questa situazione solo il consenso trova ascolto e il dissenso sta diventando un tabù. Chi è, oggi, il dissenziente? Esiste secondo te un senso ‘vietato’?
Insisto: che oggi la povertà venga nascosta o ignorata ha un senso. Che i migranti vengano trattati come esseri meno che umani ha un senso. Che il mercato del lavoro sia stato compresso dall’alto con i prepensionamenti e dal basso con la precarietà ha un senso. Che le democrazie occidentali abbiano ridotto i loro cittadini a uomini e donne perennemente indebitati ha un senso. Che il welfare state venga demolito ha un senso. Il senso malthusiano, gerarchico e spietato della razionalità capitalistica neoliberale. Se continuiamo a guardare tutte queste cose come effetti di un insensato disordine, e a invocare genericamente giustizia, non riusciremo mai a contrastarle efficacemente: è come chiedere aiuto al tuo boia. Bisogna capire che tutto questo ha una direzione precisa, e prenderne un’altra. La questione del tabù del dissenso fa parte di questo quadro, ovvero della deformazione che la democrazia subisce in epoca neoliberale. Tanto per cominciare, ‘dissenso’ è una parola nata per designare l’opposizione nei regimi totalitari: in democrazia, a rigore, non c’è dissenso, c’è disaccordo fra posizioni maggioritarie e minoritarie, ma ugualmente legittime. Che la minoranza oggi sia nominata e ‘asfaltata’, come si dice adesso, come ‘dissenso’ – un dissenso jettatorio, rompiscatole e inetto – la dice lunga, lunghissima, sulla vocazione totalitaria delle maggioranze ‘democratiche’, di partito e di governo, di oggi. Altro che dissenso: proprio ‘senso vietato’.
Parlare di cittadinanza non significa solo pensare allo status che riconosce la pienezza dei diritti civili e politici a una persona, ma anche considerare il suo ‘sentirsi’ in relazione a uno spazio, sia pubblico che privato: un sentirsi vivi. Quali pratiche si possono avviare affinché l’abitare un luogo possa esprimere un’appartenenza, intesa come libera e totale partecipazione, e non una diffidenza se non una vera paura? Cosa vuol dire sentirsi vivi? Soprattutto, quando il controllo biopolitico è così pervasivo?
Hannah Arendt parlava di «felicità pubblica» per esprimere la pienezza del sentirsi attori politici, nonché per descrivere l’irripetibile gioia esistenziale e politica che animò i movimenti degli anni ’60 e seguenti. Per me sentirmi viva è questo, ‘felicità pubblica’. E sono molto preoccupata, anzi intristita, che questa felicità stia scomparendo dalla faccia dell’Italia e non solo di essa. Penso a quanto è cambiata una città meravigliosa come Roma da quando è preda dell’agonia della politica. Penso alle nostre piazze, che in tutto il mondo vengono studiate come ‘il’ modello dello spazio pubblico, ridotte a salottini turistici dove un caffè costa otto euro; e vorrei che ce le riprendessimo, non per farci una manifestazione ogni tanto ma nella vita quotidiana, com’era un tempo. Penso a quanta importanza ha avuto negli Stati Uniti, dove lo spazio urbano è tutto a misura di piccola proprietà privata, la scoperta, nel movimento Occupy Wall Street, della possibilità di appropriarsi di uno spazio pubblico. E penso alle nuove linee di segregazione e divisione sensoriale degli spazi che stanno sfigurando l’Europa. Mi è capitato di leggere ad esempio, nella biblioteca della Cornell University a Ithaca (New York), un magnifico saggio sulle ‘strategie sensoriali’ che accompagnano in Europa l’esclusione dalla cittadinanza dei migranti: tecnologie biometriche di sorveglianza e controllo; sottrazione dallo sguardo pubblico attraverso la segregazione nei campi; pratiche quotidiane di marginalizzazione attraverso la vista, il (non)contatto, l’udito, l’olfatto. È stato uno shock salutare: talvolta bisogna vedersi riflessi in un occhio esterno per accorgersi del degrado che stiamo toccando nel vecchio continente. Dove la cultura del ‘campo’ è tornata, va detto a chiare lettere, malgrado tutti i ‘mai più’ pronunciati dopo Auschwitz. Mai più campi di sterminio ma via libera ai campi di disumanizzazione: solo un gradino più sotto.
Il linguaggio non solo ci permette di esprimerci ma, allo stesso tempo, dà forma al nostro pensiero. Attraverso il linguaggio, l’umanità ha sempre definito, descritto e dato un senso a ciò che la circonda. Spesso, tuttavia, il linguaggio si fa strumento di potere e di sopraffazione. Il femminismo, riconoscendo come il linguaggio sia, con la sua sintassi e la sua grammatica, il risultato di una lunga stratificazione patriarcale e come condizioni il nostro modo di percepire, sentire e dare senso, ha fondato il proprio pensiero sulla ri-nominazione della realtà. Cosa pensi di questo aspetto del pensiero femminista?
Anche in questo campo il femminismo, pensiero e pratica, ha anticipato i tempi. Il linguaggio è la via maestra della costruzione del senso, ma più precisamente per il femminismo bisognerebbe parlare di rapporto fra corpo e linguaggio, sensi e senso, perché è proprio questo a caratterizzarlo fin dalle origini e a salvarlo dalla deriva astratta e impolitica che la filosofia del linguaggio può prendere. Se ripenso al gesto inaugurale del movimento, la separazione dagli uomini, la sensazione che ancora mi torna addosso è quella dell’improvvisa scoperta di come la nostra percezione di noi stesse e del mondo cambiasse radicalmente una volta sottratta allo sguardo maschile. Contemporaneamente, quella nuova percezione di sé e del mondo domandava ‘le parole per dirsi’ in un nuovo linguaggio, o in un diverso uso del linguaggio. Il nesso fra corpo e parola, fra esperienza e discorso, è stato dunque praticato fin da subito nel femminismo, ed è rimasta la caratterizzazione centrale di un pensiero in cui la produzione di senso parte dalla sensorialità, ma reciprocamente la sensorialità non pretende di imporsi immediatamente come produttrice di senso: fra l’una e l’altro, c’è di mezzo quello che Luisa Muraro chiama la ricerca della «necessaria mediazione». Che è la mediazione del linguaggio, ovvero, come dicevamo, la nominazione della realtà a partire – nel doppio significato dell’origine e del distacco – dall’esperienza. È il concetto, geniale, del «sensibile trascendentale» di Luce Irigaray, un concetto che mi è tornato in mente come antidoto alla doppia e opposta deriva di smaterializzazione del linguaggio in cui incorre il pensiero decostruzionista e di naturalizzazione della sensorialità in cui incorrono, spesso per reazione alla prima deriva, alcune filosofie che oggi reclamano un ritorno alla ‘verità’ dell’esperienza sensibile. Per dirlo con un gioco di parole, il ‘senso dei sensi’ non è mai immediato: perché il sensibile produca senso, e soprattutto perché produca senso comune, ci vuole una pratica – politica – di significazione e di condivisione. L’inglese to make sense rende forse meglio dell’italiano questo ‘fare’ senso, che è appunto un fare e come tale domanda una pratica. Linguistica, ma non esclusivamente linguistica: ci sono pratiche performative – come la relazione fra donne, ad esempio – che funzionano come un linguaggio, hanno lo stesso potere di risignificazione della realtà. Ma qui è di nuovo la pratica politica a essere chiamata in campo: senza, non c’è né produzione di senso, né trasformazione del consenso.