SENSO

Senso si dice in molti modi. Indica anzitutto la direzione, quando parliamo di ‘senso unico’, oppure quando, alla ricerca di una strada, chiediamo ad altri in che senso dobbiamo proseguire. In modo analogo il ‘senso della vita’ designa una direzione. Come se la vita seguisse un corso, da un limite all’altro, dalla nascita alla morte. La vita appare allora una corsa, verso la morte, che non vinceremo mai, una corsa che ha una fine ineluttabile, ma il cui fine è rimesso, almeno in parte, alle nostre decisioni e alle nostre responsabilità.

Il ‘senso della vita’ mostra qui la sua ambiguità: il senso è non solo la direzione del movimento, ma anche il significato della vita. Quando ci imbattiamo in una parola che ci risulta estranea o incomprensibile, dobbiamo ricorrere al dizionario. Così, quando ci fermiamo per interrogarci sul senso della nostra vita, è perché siamo colti da una estraneità che ci fa apparire la vita come estranea, come se procedesse la corsa, nostro malgrado.

La domanda sul senso della vita, come quella sul senso di una parola, interrompe la rassicurante intimità, fa emergere una inquietante estraneità che, dunque, non può non essere riconosciuta.

Una vita che ha senso è una vita abitata dal significato, indirizzata dalla trama del linguaggio. Il senso, infatti, potrebbe manifestarsi indipendentemente da una certa formulazione linguistica? Difficile a dirsi. Perché per saperlo, e dirlo, occorrerebbe interrogare le cose, scrutarle così come sono. Ma tutto quello che è ‘fuori’ del linguaggio non può essere evocato se non mediante le parole.

In che misura allora il linguaggio, o meglio, la lingua che parliamo, condiziona il senso della nostra vita? In che modo lo indirizza, spesso inavvertitamente, in un senso piuttosto che in un altro?

Il potere che la lingua esercita passa il più delle volte inosservato. Come parlanti abbiamo difficoltà a prendere distanza dalle parole, a riflettere sul loro peso. Non è un caso che, solo quando apprendiamo un’altra lingua, non possiamo fare a meno di considerare, nel confronto, le differenze di significato – ben più profonde di quelle dei suoni. E non possiamo non riconoscere che, se ad esempio l’inglese ci spinge a dire solo to love, l’italiano ci impone di distinguere tra ‘amare’ e ‘voler bene’. Gli esempi potrebbero essere numerosi. Ogni lingua articola diversamente il mondo in cui viviamo. Ma non si deve fraintendere: non siamo prigionieri nella rete della lingua – senza via di scampo. La lingua non è una prigione ideologica, perché non è una concezione del mondo. Piuttosto – ed è ben diverso – è una articolazione del mondo. Ci porge gli oggetti in un determinato modo. Così i parlanti di una stessa lingua possono avere opinioni e idee differenti, a partire da un’articolazione condivisa del mondo. Chi parla italiano dice ‘orologio’ sia per l’oggetto portato al polso, sia per quello che pende alla parete. Chi parla inglese dice in un caso watch, nell’altro clock, distinguendo, mediante le due parole, due oggetti diversi. Se il rapporto che ogni parlante ha con la lingua è un rapporto dialogico, perché nel parlare la lingua viene modificata, ciò non deve farne sottovalutare la tensione interna. Proprio perché una lingua è un’articolazione del mondo, il potere che esercita su ciascun parlante è più profondo e subdolo di quel che in genere si crede. Questo dovrebbe accrescere il sospetto e rendere vigili verso l’influsso che la lingua ha soprattutto grazie ai media. Si tratta di un uso strumentale delle parole – nel segno della rapidità. Al contrario della poesia, che ci invita a intrattenerci nella parola, i media, vecchi e nuovi, ci spingono ad attraversarla velocemente per arrivare alla cosa, a quel che è in causa nella notizia. Ma l’attraversamento non è indenne. Come chiamare gli esseri umani che, spinti dalle guerre, dalle devastazioni, dalla fame, giungono sulle nostre coste? Se si dice ‘rifugiati’, si fa riferimento al loro fuggire e alla ricerca di un riparo. La parola spinge già al gesto dell’accoglienza. Se si dice ‘immigrati’, si indica quel neutro movimento dell’andar via che li accomuna. Se si dice ‘clandestini’, si allude alla loro esistenza che si suppone sia nascosta e dissimulata. L’etimologia di clandestino indica infatti una derivazione da ‘clam’ che significa ‘nascosto’. Il clandestino si farebbe passare per quello che non è, insinuandosi all’interno del Paese in cui giunge e costituendo, così, una minaccia per l’identità nazionale dei cittadini.

Una contingenza burocratica – la mancanza di documenti – assurge a proprietà costitutiva e dominante di un essere umano. Usare una parola al posto di un’altra non è irrilevante.

E spesso, pensando di usarle a nostro piacimento, non ci rendiamo conto che sono le parole a parlare per noi. Il nostro ‘voler dire’ finisce per essere solo il dire della parola. Questo non significa che, come parlanti, non si possa e non si debba essere vigili e consapevoli. Il caso dibattuto di recente è quello del termine ‘razza’. Alcuni antropologi hanno proposto di abolirlo. Certo, il linguaggio non è una convenzione, non deriva da un patto liberamente stipulato, si fonda su una tradizione. Perciò è insensato pensare di abolire un termine. Tuttavia, è giusto richiamare l’attenzione dei parlanti per far capire che usare ‘razza’, magari senza riflettere, significa condividere il significato del termine e rilanciare la visione di una umanità suddivisa in ‘razze’ come le specie animali. Il modo in cui parliamo non è privo di effetti per il modo in cui viviamo.

Il senso del linguaggio influisce profondamente su quello della vita. Ed è anzi qui, nel modo in cui ci lasciamo ‘parlare’ dalle parole, che pubblico e privato si connettono, che l’esteriorità investe l’intimità, che la vita degli altri, quale si è andata articolando nella lingua comune, incide sulla vita di ciascuno. Vale anche la reciproca – non potrebbe essere altrimenti. Il senso della nostra vita può lasciar traccia nella lingua, e indirizzare la vita altrui, purché come parlanti siamo consapevoli del rapporto che ci lega quotidianamente alla lingua.

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