SENSO

Morale ed etica

La definizione del senso di colpa è al centro della distinzione tra morale ed etica.
Nella morale è il senso di colpa a fondare la valutazione delle proprie azioni. È corretto e giusto ciò che deriva, in modo diretto o indiretto, dalla disponibilità di riconoscere, soffrendone, che il proprio agire, pensare e sentire può danneggiare un valore stabilito normativamente: una persona, un bene materiale, un dettame di condotta, un’autorità, un’istituzione, un ideale, un oggetto sacro.
In un mondo ordinato secondo valori morali, l’espiazione della colpa, che riporta il soggetto nel campo normativo, è più importante della riparazione del danno (e spesso l’assorbe): la forma conta più della sostanza, perché la sostanza è la vita vissuta, fatta di desiderio e di appagamento, e la morale serve a reprimere il desiderio, a imbrigliarlo nelle sue convenzioni. La migliore definizione della morale nella sua forma più pura (e spietata) la dà il discorso del Grande inquisitore ne I fratelli Karamazov, quando difende ad oltranza l’idea di un mondo in cui gli esseri umani sono fanciulli impauriti della loro libertà, alla ricerca di un’Autorità a cui inchinarsi. I principi morali sono il prodotto di un’astrazione dall’esperienza viva, che annulla la libertà della sua interpretazione e gestione.
La morale che conosciamo come pratica quotidiana, nelle sue forme meno astratte (dalla vita), è sempre mescolata con l’etica e non ha, solitamente, il carattere eccessivo della sua forma pura. In ogni sua espressione, tuttavia, subordina il senso di responsabilità al senso di colpa. Si diventa responsabili a partire da un senso di colpa preventivo nei confronti di un atto che si può commettere o attraverso l’espiazione di una colpa commessa.
Nel campo dell’etica la prospettiva si capovolge: è il senso di responsabilità il presupposto di un senso di colpa sano che serve alla riparazione del danno. L’etica rinvia la questione alla costituzione della soggettività nell’incontro con l’altro. Questo è anche il terreno della psicoanalisi, dove il senso di colpa è strettamente legato con il danno dell’oggetto amato. Tuttavia, il discorso psicoanalitico non è del tutto scevro di moralità e stenta a definire il senso di responsabilità. Per Melanie Klein il senso di colpa nasce nella psiche del bambino quando si accorge che l’oggetto ‘buono’ che ama e l’oggetto ‘cattivo’ che odia sono la stessa cosa: sua madre. Il senso di colpa per il danno che il suo odio può causare lo porta a riparare con gesti d’amore.
Far prevalere l’amore sull’odio, riparando i danni, non è esattamente un problema del bambino ma, caso mai, dei suoi educatori morali. Nella psiche del bambino alle prese con il suo primo oggetto di desiderio domina l’‘amore spietato’ descritto da Donald Winnicott: l’amore senza preoccupazione che si impossessa di ciò che ama senza scrupoli e senza altro obiettivo che il proprio appagamento.
Di questo amore, che è passione pura, è componente essenziale l’odio: il rigetto della soggettività, dell’autodeterminazione dell’oggetto amato. Senza questa prima forma d’amore, qualsiasi successiva e più evoluta modalità di amare perde la sua autenticità. La madre, se le cose vanno bene, si guarda bene dal censurarla, pur non compiacendola. Il bambino la ama e la odia con tutta la sua intensità e la madre non esaspera questi sentimenti, rifiutandoli, ma non li asseconda neppure, evitando di essere passiva e consentendo in tal modo che siano vissuti ed evolvano.
L’odio, il primo a riconoscere la soggettività del suo oggetto, informa gradualmente la passione, ossia questa soggettività odiata che rende l’oggetto vivo e desiderabile. Il bambino si rende conto, in questo modo, che ama per la stessa ragione per cui odia. Ciò che ostacola il suo desiderio è anche la condizione della sua permanenza. La passione deve dunque proteggere il suo oggetto dal suo eccesso, per un proprio intrinseco interesse, che non si costituisce a partire dalla constatazione o la previsione di un danno ma nella ricerca di ciò che è vivo e desiderabile. Diventa di conseguenza responsabile.
Il senso di responsabilità richiede la presenza dell’altro come soggetto con-costitutivo del proprio desiderio. Esso è indissociabile dalla legge del desiderio, fondamento dell’etica: ‘Ti desidero senza preoccupazione e senza compromessi, perché altrimenti il mio desiderio non sarebbe autentico, ma devo rispettare la libertà, la soggettività del tuo desiderio, che ti rende vivo, perché altrimenti diventi un manichino inerte e il mio desiderio muore con te’. La responsabilità si costituisce in modo ‘empirico’: aumentando e moderando l’intensità della sua passione, il bambino trova il punto in cui corrisponde il massimo della desiderabilità e della godibilità della madre.
Quando acquisisce il senso di responsabilità, il soggetto in formazione diventa capace di soffrire per il danno che ha procurato all’oggetto/soggetto concretamente o potenzialmente desiderato, quindi considerato non solo come oggetto di uso diretto e immediato ma anche come essere umano (ogni qualità desiderata è espressione potenziale della ‘materia’ comune di cui siamo fatti). Questa sofferenza, ovvero il senso di colpa, segnala, attraverso la consapevolezza del danno procurato, che è venuto a mancare il senso protettivo di responsabilità e promuove un gesto di riparazione. La riparazione è, prima di ogni altra cosa, la ricollocazione del soggetto in posizione responsabile.

Senso di colpa improprio e proprio

Se di fronte alla passione irresponsabile del proprio figlio la madre si ritira, perché teme il coinvolgimento di cui la passione è foriera, il bambino sviluppa nei suoi confronti un senso di colpa precoce: crede di aver danneggiato con la sua passione (la vita interna che impetuosamente va incontro alla vita esterna) l’oggetto desiderato. Piuttosto di responsabilizzare il suo desiderio, si sente in colpa a causa di esso e lo censura. Un senso di colpa ‘improprio’ sostituisce quello di responsabilità e ne fa le veci. Esso pregiudica le relazioni del bambino con il suo ambiente e la libertà del suo sviluppo. La socializzazione del desiderio, che presume la capacità di preoccuparsi dell’oggetto desiderato, prendendosi cura del suo stato di soggetto desiderante, si snatura: la relazione con l’altro si conforma all’esigenza di allontanarsi dalla dimensione erotica – il piacere del vivere – e si può arrivare al punto che sentirsi vivi diventa una colpa.
Il bambino protegge i genitori (come anche i fratelli e tutte le persone significative del suo ambiente) dal suo e dal loro desiderio (che non cerca di sollecitare), invece di proteggere la relazione perché il desiderio sia reciprocamente vissuto e appagato (la reciprocità è la condizione necessaria di ogni appagamento reale).
Il senso di colpa improprio si rimuove in gran parte con la fine del complesso edipico (intorno ai cinque anni) e si costituisce come senso di colpa ‘inconscio’: la ricerca costante di espiazione che produce azioni contraddittorie di cui si ignora il reale significato. Come Freud ha compreso, il senso di colpa inconscio è associato allo sviluppo concomitante di un sadismo del ‘Super-Io’ (una coscienza morale estremamente rigida e severa) e di un masochismo dell’‘Io’ (la ricerca inconscia della punizione).
Chi è indotto ad agire sotto la spinta del senso di colpa inconscio lo fa in due modi: infrange le regole in maniera autolesionista per essere punito (prevale il masochismo dell’Io) oppure si punisce a priori, interiorizzando le regole rigidamente e inibendo così il piacere (prevale il sadismo del Super-Io). In altre parole, si agisce secondo un dettame interiore di ‘delitto e castigo’: o si compie il delitto andando alla ricerca della punizione che lo argina, o si cerca il castigo in anticipo, lasciando sullo sfondo l’incombenza del delitto (che più la si combatte più incombe: da cui nasce la percezione di una ipocrisia nei moralisti). C’è sempre una componente erotica che si perverte nella sua funzione. Il desiderio rimosso associato al danno viene soddisfatto, in una sua parte, mediante l’infrazione commessa o il segreto, inconfessabile piacere della sua incombenza, mentre, in un’altra, è appagato in termini di masochismo o sadismo.
Nessuno di noi è mai del tutto esente dall’inconscio senso di colpa e dalle sue implicazioni perché il senso di responsabilità non è mai del tutto compiuto in ogni suo aspetto (come è reso visibile sul piano macro-sociale dallo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo e dalla subalternità persistente della posizione della donna rispetto a quella dell’uomo).
Con il tramonto del complesso edipico, e la rinuncia all’investimento erotico conscio dei genitori (l’investimento continua nell’inconscio), il senso di colpa sano, che è derivato di quello di responsabilità, si organizza in riferimento al Super-Io, la complessa istanza morale le cui radici stanno nell’investimento pulsionale dei genitori da parte del bambino e nella proiezione su di loro dei sentimenti ostili che le inevitabili frustrazioni di tale investimento determinano. A partire da questo momento si può parlare di un senso di colpa inteso nel significato più esatto del termine: l’espressione di un conflitto interiore tra i valori sociali a cui si aderisce e l’egoismo individuale. Questi valori possono essere etici se sono derivati dal desiderio responsabile o morali se reprimono la soggettività, conformandola a norme di gestione delle relazioni sociali.

Colpa e senso di colpa

La colpa è il danno obiettivamente commesso, il senso di colpa è il risultato della sua valutazione interiore: ci può però essere l’una senza l’altro, e viceversa (in questi casi è evidente un inceppamento della funzione riparatrice del senso di colpa).
La legge giudica gli uomini per i fatti che hanno effettivamente commesso, ma il rispetto di essa, che presume il senso di responsabilità, può prendere una forma autentica solo sul piano dei fatti come potrebbero accadere: la sospensione dell’effettività dell’azione che permette che la si configuri ‘sperimentalmente’ dentro di sé perché se ne valutino le conseguenze. La potenzialità dell’atto, peraltro, è l’unico luogo in cui il significato delle proprie azioni può essere condiviso con l’altro creando un senso di responsabilità vero. L’applicazione della legge, che sanziona necessariamente i fatti commessi, soggiace a questa contraddizione, che si cerca di risolvere con la valutazione dell’‘intenzionalità’ e della ‘capacità di intendere e di volere’, con risultati approssimativi.
Il senso di giustizia assume la pienezza della sua funzione nel campo della formazione del senso di responsabilità e della condivisione di un interesse comune. Senza questa condizione, le leggi perdono la loro legittimità (la difesa di interessi realmente condivisi) e funzionano in modo correttivo, nel nome di un interesse supremo convenzionalmente (arbitrariamente) stabilito. La punizione perde il suo significato ‘catartico’: l’argine (φόβος, terrore) contro l’ύβρις, l’arroganza dell’autoreferenzialità che ignora il desiderio e l’interesse dell’altro/degli altri. Diventa strumento di correzione e/o di reiezione di comportamenti anomali rispetto a quelli ordinati secondo un principio di ‘opportunità’, che sostituisce il senso di responsabilità e diventa legge.
Il danno non può essere riparato (o questo dovrebbe essere l’obiettivo finale di una giustizia vera) sul piano della constatazione dell’intenzionalità, ma soltanto dove la colpa perde il suo significato di atto intenzionalmente commesso, che può essere solo sanzionato, e assume, a posteriori, nell’interrogarsi sulle cause del misfatto, il significato di αμαρτία, di errore preterintenzionale. Anche la più terribile delle mostruosità (delle eccezioni dalla dimensione umana) ha la sua origine in errori commessi senza che si avesse consapevolezza della concatenazione degli eventi catastrofici cui sarebbero sfociati. La riparazione del danno (che non coincide con l’indennizzo) chiama sempre in causa la collettività, le cui negligenze hanno reso possibile la sua realizzazione.
Il ‘concorso morale’ può estendere la colpa fino a includere nell’attribuzione di colpevolezza un numero consistente di soggetti. La ‘colpa collettiva’, invece, è un concetto improprio che assolve un compito difensivo, sia che lo riferiamo a un atto commesso, sia che lo intendiamo come senso di colpa. Più si amplia il numero di colpevoli (facendoli coincidere con un’intera classe sociale, la popolazione di un territorio, un popolo o anche un insieme di popoli), più la colpa commessa assume valore congiunturale e diventa un fallimento umano preterintenzionale, non punibile come tale se non attraverso un’azione ugualmente fallimentare (del tutto simmetrica alla prima): una vendetta che perpetua i misfatti. La colpa commessa con il concorso o la tolleranza di una moltitudine, avendo carattere preterintenzionale, chiama in causa il senso di responsabilità: il venir meno, per negligenza, della preoccupazione nei confronti degli altri.
I fallimenti collettivi possono essere collettivamente assunti e risolti solo nel campo della responsabilità. Il sentimento collettivo di colpa, invece, denota una difficoltà di assunzione di responsabilità, ossia riflettere sugli errori commessi per farsene carico e correggere la rotta. Il dolore privo di elaborazione trova risposte consolatorie, diventando pratica di espiazione morale nei confronti di un’autorità normativa, che esorcizza il ripetersi del misfatto senza però accorgersi della ripetizione degli errori che preparano la catastrofe successiva.

multiverso

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