SENSO

La sensualizzazione dell’esistenza ha una storia lunga e altalenante, sempre combattuta da una razionalizzazione moralistica che invita a diffidare delle sensazioni e ad esercitare pieno controllo sul corpo e sulle emozioni. Un controllo soggettivo che può essere incrinato non solo da ciò che prorompe dall’interno (un incontenibile piacere dei sensi), ma pure dall’azione dell’esterno.

Basti ricordare il cittadino di Georg Simmel, schiacciato da un sovraccarico di stimoli provenienti dalla moltitudine dei suoi simili e dall’ambiente urbano. Un personaggio della modernità messo in crisi all’incessante mole di informazioni che eccitano i suoi organi sensoriali. Da qui, il costituirsi di un’esistenza difensiva, giocata su strategie emotive e cognitive che permettono di esercitare distacco rispetto al mondo circostante, dando il ‘la’ a una vita sociale improntata al ‘macchinismo relazionale’. Il lascito è ben rappresentato dai tanti osservatori della crisi che formulano diagnosi impietose sull’individuo contemporaneo: un sonnambulo emotivamente coartato, affaticato dalla miriade di stimolazioni che riceve e poco propenso all’apertura verso il mondo.

Eppure, a dispetto di questa diffusa diagnosi infausta, assistiamo a una grande effervescenza emotiva. Il sentire pare essere diventato il cuore pulsante della nostra società. E le pratiche sensualistiche fioriscono in ogni dove. Udire il mondo, annusarlo, tastarlo, gustarlo, vederlo, rende conto di come si viva sotto la costante influenza del sensibile. Non stupisce quindi che, a dispetto di un certo razionalismo censorio, la nostra esistenza sia accompagnata da una determinata atmosfera emotiva e dall’invito a coltivare il nostro sentire. La salienza dell’intimo che ne deriva è una tendenza al centro di aspre controversie. Da una parte, è salutata come liberazione del singolo dalla tirannia della tradizione; dall’altra, è stigmatizzata come fuga narcisistica dalla dimensione pubblica.

Pensiamo ai rave party. Rispetto alla chiusura in sé del cittadino stanco (sonnambulo nella vita diurna e telespettatore nella vita notturna), niente dovrebbe rappresentare al meglio il suo opposto come l’estasi, letteralmente lo ‘stare fuori di se stessi’; termine usato per indicare la droga illegale Mdma, sostanza in grado di produrre peculiari e straordinari effetti empatici. È la droga che permette di vincere le meschinerie calcolatorie di una soggettività-fortezza. Per questo è nota pure come ‘droga del noi’. E contro la cultura della freddezza l’ecstasy è la droga calda per eccellenza. Per descriverne le qualità sono stati coniati i termini ‘empatogeno’ – che intensifica le sensazioni – e ‘entactogeno’ – una sostanza che permette di ‘toccare dentro’, ossia mette in contatto con se stessi e con gli altri: la pillola ideale contro la stitichezza emotiva della quotidianità. Si può dire, infatti, che l’ecstasy trasformi tutto quanto il corpo umano in un unico grande ipersviluppato sensore. Unitamente alla musica house e techno – capace di amplificarne gli effetti –, l’ecstasy è l’ingrediente principale dei rave party. Gli officianti al rito danzano insieme sotto gli effetti dell’ecstasy in modo che tutti i sensi siano colpiti da un eccesso febbrile, capace di originare un deragliamento sinestesico integrativo. Così, sono abbattuti gli steccati dell’io ed edificato un ‘noi’ indifferenziato. La corrente d’energia sprigionata dall’ecstasy durante i rave party rende tali eventi analoghi ai trattamenti rituali di Franz Anton Mesmer. E il ruolo di magnetizzatori è ora assunto dai dj. Non sfugga come una simile esperienza venga confinata in una sorta di tribalismo postmoderno e stigmatizzata, perché le regole dei sentimenti dominanti puntano ad abbassare l’intensità delle sensazioni.

Il quotidiano, benché sempre percorso da correnti emotive carsiche, richiede una certa piattezza e una particolare domesticazione. Vincoli che colpiscono anche la sensualità, un concetto oggi speso quasi esclusivamente nell’ambito dell’attrazione interpersonale. Basta interrogare un qualsiasi database su internet e alla parola ‘sensualità’ scorrono decine di link di corsi che consigliano i modi migliori per penetrare la percezione altrui. E, se guardiamo le immagini associate a sensualità, risulta che nell’immaginario sia soprattutto la donna a incarnarla (sicuramente un retaggio culturale del genere che per eccellenza ha rappresentato il sovvertimento della ragione). Tante sono le pieghe del discorso che meriterebbero di essere sviscerate, qui vorrei richiamare l’attenzione sulla torsione contemporanea tra la sensualità come piacere dei sensi che comporta una perdita di sé verso un’idea di sensualità come dominio dell’altro.

Nella narrazione contemporanea delle relazioni intime i partner sono tratteggiati come individui ben distinti e autonomamente in relazione, che decidono consapevolmente di allacciare un rapporto per essere più felici, dentro un quadro di diritto all’autorealizzazione. Venendo meno un tale benessere, oppure sperimentando con qualcun altro sensazioni maggiormente appaganti, non sarà conveniente restare ancora insieme. Perché la bilancia dei vantaggi non pende più dalla propria parte. Insomma, la coppia tende ormai a configurarsi come un’azienda, regolata da un contratto siglato secondo i principi dell’economia emozionale. Quindi, si sta insieme per interessi singolari. Per poi chiudere quando i conti non tornano più. Da un versante, può essere piacevole sbarazzarsi del partner come si sostituisce il frigorifero o si cambia l’automobile, dall’altro però si è esposti alla possibilità di ricevere lo stesso trattamento. Siamo infatti esaltati come designer sovrani della nostra interiorità, eppure costantemente obbligati a progettarci quale elemento ben visto e accettabile. Qui la sensualità è soprattutto eccitazione dei sensi altrui, per attirarli a sé. Ci viene insegnato a toccare e muovere i sensi di coloro che ci circondano. Il tutto all’interno di una lotta per la visibilità e il riconoscimento, dove servono peculiari strategie per catturare attenzione e sguardi. Sicché l’esperienza dell’essere notato è quella capacità di installarsi nei sensi altrui riuscendo a farsi largo per trarne profitto e, in definitiva, per contare. La sensualità è sempre più performance sul ring della quotidianità, capacità di stare da protagonisti sul palcoscenico della vita. Per i suoi critici, la società dello spettacolo addormenta la ragione e immerge il singolo in un sistema di apparenze. Spingendolo a esibirsi e mostrarsi come mai prima d’ora era accaduto. Lo spettacolo sembra aver occupato l’intera vita sociale, prendendo per la gola la famiglia, l’istruzione, il lavoro. Messa al bando l’autenticità, tanto cara al razionalismo moralista, tutto sarebbe ormai prodotto e vissuto in funzione dell’effetto che deve produrre sugli altri. Insomma, una performance esistenziale che muta i rapporti tra interiorità ed esteriorità, ridisegnando il valore attribuito al ‘dare a vedere’ e al ‘fare sentire’.

Qui si innesta la grande contraddizione contemporanea: la sensualità inevitabilmente porta a una oggettivazione di sé. E quindi, per essere pienamente noi stessi, è fondamentale che vi sia un altro. Checché ne dicano i cantori della liberazione del self, l’individualità è tensione e spinta verso l’aperto abitato dall’alterità. La sensualità è allora impasto di materia e spirito che si fa legame sociale. Ciò che unisce al di là di razionalizzazioni strumentali. L’esperienza della sensualità tende a mortificare le pretese egemoniche del sé, smaschera la sua pulsione di godimento infinito, mostra i limiti della sua padronanza sul mondo e sugli altri. Oggi, invece, – e questa è forse la più grave patologia della contemporaneità – si vuole possedere senza essere posseduti, sedurre senza essere sedotti.

La cifra del sensibile, tuttavia, è proprio quella di ricordarci che non siamo mai separabili da tutto ciò di cui e per cui viviamo.

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