SENSO

Quando si parla o si scrive di piante, è facile produrre affermazioni che sembrano a prima vista degli ossimori. Con grande spasso di tanti, negli anni ho scritto di etologia vegetale, di comportamenti vegetali, d’intelligenza e perfino di coscienza vegetale. Tutti ossimori passabili, qualora si ritenga che le piante siano esseri completamente passivi, del tutto in balia degli animali o dei capricci dell’ambiente. Così anche il titolo scelto per questo breve articolo suona come un ossimoro bell’e buono. Sensibilità vegetale? Nella nostra lingua così come in numerose altre, ci si riduce allo stato vegetale, quando non si ha più alcuna sensibilità: una persona in stato vegetativo non ha più capacità percettive, né coscienza di sé e dell’ambiente circostante.

Parlare di ‘sensibilità vegetale’ sembrerebbe davvero una contraddizione. Ma è vero? Ovviamente no, e nelle prossime righe spero di dimostrarvi quanto sia privo di fondamento e frutto di superficialità pensare che le piante non siano in grado di fare nulla, figurarsi sentire. Innanzitutto, da dove proviene questa strampalata idea che le piante non siano dotate di alcun tipo di percezione? L’origine è alta. La dobbiamo, infatti, ad Aristotele, il padre della scienza, che nel suo De plantis (l’originale greco dell’opera è perduto), in contrasto con Platone, scrive: «La teoria di Platone secondo cui le piante hanno sensazioni e desideri è certo sorprendente, ma non aberrante; per Anassagora, Democrito ed Empedocle esse hanno anche una mente capace di conoscere. Noi riteniamo erronee queste teorie, le respingiamo e vogliamo dedicarci ad un sano ragionamento. Affermiamo così che le piante non hanno né desiderio né sensazioni, poiché il desiderio non esiste senza la sensazione, e il fine di ciò che vogliamo cambia in relazione alle sensazioni che si hanno. Ora, nelle piante non troviamo né la sensazione, né una parte capace di percepire, o qualcosa di somigliante, né una forma determinata, o qualcosa che vi sia prossima, né movimento, né un modo per avvicinarsi all’oggetto percepibile, né un indizio per cui si possa ritenere che esse posseggano la sensazione, e che corrisponda a quei segni per cui sappiamo e constatiamo che le piante si nutrono e crescono».

Il vero problema risiede nel fatto che le piante non possiedono capacità percettive. È questo il fattore cruciale che le differenzia dagli animali, rendendole inferiori: «la capacità di percepire rappresenta il principio comune della vita animale: l’inanimato non ha anima né alcuna sua parte; la pianta, invece, non è tra gli esseri che mancano di anima, perché ne possiede una parte, nemmeno però è un animale, perché non ha facoltà percettiva».

L’influenza di Aristotele in botanica così come in altre materie scientifiche si protrasse per un tempo inimmaginabilmente lungo, per lo meno fino all’Illuminismo, circa 2.000 anni, lasciandoci in eredità questo concetto inscalfibile delle piante quali esseri passivi e, comunque, inferiori rispetto agli animali. Ancor oggi la nostra conoscenza del mondo vegetale è vaga e comunemente associata a una simile errata convinzione. Al contrario, le piante sono creature molto più complesse e con comportamenti altrettanto raffinati, se non di più, di quelli di molti animali.

Prendiamo, ad esempio, la questione della sensitività o della percezione. Apparentemente sembrerebbe paradossale affermare che le piante siano capaci di percepire in maniera accurata l’ambiente che le circonda. Eppure, esse sono più ‘sensibili’ di quanto lo siano molti animali. Sembrerebbe un’affermazione azzardata, se non francamente assurda; in realtà, si tratta del banale riconoscimento di uno stato di fatto. Quando qualcosa d’inaspettato come un improvviso rumore, un repentino aumento della temperatura o l’avvicinarsi di un predatore è percepito da un animale, questo ha sempre un’arma formidabile a sua disposizione: la fuga. È una risposta così importante nella vita animale da risultare stereotipata; ossia, non ha neanche bisogno di essere innescata dal cervello: si attiva automaticamente quando un pericolo sembra avvicinarsi. È una risposta inerente al modo in cui funzionano gli animali. Tutti quanti. Uomini inclusi, ovviamente. Anzi, la fuga da ciò che è nuovo è così profondamente radicata da modellare la vita degli esseri umani.

Ora, le piante, com’è noto, non possono muoversi; o meglio, sarebbe più corretto dire che non possono spostarsi dal luogo in cui sono nate, giacché si muovono moltissimo, ma tralasciamo queste finezze linguistiche e andiamo avanti – in ogni caso non sono certamente in grado di scappare. Come riescono allora a sopravvivere ai continui e innumerevoli cambiamenti che occorrono nell’ambiente che le circonda? Non potendo mettersi al riparo quando la temperatura si abbassa, muoversi verso l’ombra quando il sole batte forte o battersela quando un erbivoro vuole mangiarle, com’è possibile che le piante non si siano estinte da tempo? Come mai sono così tante e in così buona salute? Nonostante i continui ‘attentati’ alle loro vite e la loro apparente incapacità di reagire, secondo molte stime autorevoli la quantità di piante presenti sulla terra è sbalorditiva. Esse rappresentano, infatti, il 99,5% della biomassa del nostro pianeta. Una percentuale che è la misura unica e indiscutibile del loro successo evoluzionistico. In altre parole, di tutto quello che è vivo sul nostro pianeta, gli animali rappresentano (in peso) un insignificante 0,5%. E questo in accordo alle più ottimistiche stime.

È ovvio che qui c’è qualcosa che non torna. Com’è possibile che esseri viventi così insignificanti e che mancano dell’abilità di percepire l’ambiente circostante abbiano avuto un tale successo? Come si spiega che esseri apparentemente inermi, senza alcuna sensibilità, memoria, capacità cognitiva, in balia dell’ambiente e dei predatori, siano stati in grado di raggiungere una tale straordinaria e incontrastata diffusione? Delle due l’una: o abbiamo incredibilmente sottovalutato i vegetali, oppure sensibilità, memoria, apprendimento, capacità cognitive eccetera non hanno alcuna importanza nella lotta per la sopravvivenza. E poiché sembrerebbe arduo voler sostenere che le capacità cognitive non rappresentino un fondamentale vantaggio evolutivo, ecco che allora il dubbio di aver sottovalutato le reali capacità delle piante dovrebbe iniziare a farsi strada.

Certo sembra difficile immaginare che esseri così estranei come le piante possano condividere con noi animali funzioni tanto elevate. Molto dipende dal fatto che si tratta di organismi sessili.

Fra 400 milioni e un miliardo di anni fa, a differenza degli animali che scelsero di muoversi per trovare il nutrimento loro indispensabile, le piante decisero di non spostarsi, ottenendo tutta l’energia necessaria per sopravvivere dal sole attraverso la fotosintesi e adattando il proprio corpo alla predazione e agli altri innumerevoli vincoli derivanti dall’essere sessili. In effetti, è veramente impossibile prevedere la sorte delle ‘scelte evolutive’ degli organismi viventi. Ad esempio, nessuno avrebbe potuto immaginare nulla di buono per le piante dall’apparentemente folle scelta evoluzionistica di non spostarsi. Eppure, proprio a causa dell’impossibilità di fuggire, le piante evolsero la superba abilità – se comparate con gli animali – di avvertire con grande anticipazione il più piccolo cambiamento nell’ambiente. Così, oltre che possedere in forma vegetale e raffinata tutti i nostri cinque sensi, esse sono in grado di sentire anche un elevato numero di parametri – fra questi, campi magnetici, elettrici, chimici – che non sono normalmente percepiti dagli animali, tranne che in rare eccezioni. Con tale superiore sensibilità, le piante sono in grado di modificarsi, adattandosi alle nuove condizioni. Questo grazie alle specifiche caratteristiche della loro struttura.

Arriviamo, quindi, ad un punto fondamentale per comprendere i vegetali: il corpo delle piante non ha nulla a che vedere con quello degli animali. Dal punto di vista costruttivo, trattandosi di organismi che si sono sviluppati ed evoluti per sopravvivere rimanendo sessili, le piante sono per noi degli esseri completamente alieni. Provate a pensare quanto sia difficile resistere in un ambiente ostile senza potersi spostare. Immaginate per un momento di essere una pianta, incapace a muoversi e assediata da insetti, erbivori, predatori di ogni specie che non pensano ad altro che a mangiarsela. L’unica via per sopravvivere è di essere costruiti in maniera molto diversa da un animale: essere una pianta, appunto.

Per prevenire i problemi riguardanti la predazione, le piante si sono evolute secondo una strada unica e insolita, sviluppando delle soluzioni così differenti da quelle degli animali da essere per noi un vero e proprio esempio di alterità. Organismi così diversi da noi che, per quanto ci riguarda, potrebbero benissimo essere degli alieni nati su un mondo altro dal nostro. Molte delle soluzioni sviluppate dalle piante sono il perfetto opposto di quelle prodotte dal mondo animale. Come in un negativo fotografico, ciò che negli animali è bianco, nelle piante è nero, e viceversa: gli animali si spostano, le piante sono sessili; gli animali sono veloci, le piante lente; gli animali sono eterotrofi, le piante autotrofe; gli animali producono CO2, le piante fissano CO2; e potremmo continuare a lungo… La serie delle antinomie anatomico-fisiologiche fra di essi prosegue fino a quella che ritengo la più decisiva e, in assoluto, la meno nota fra tutte: la contrapposizione fra diffusione e concentrazione. Potremmo sintetizzarla così: tutte le funzioni che negli animali sono concentrate all’interno di organi specializzati, nelle piante sono diffuse sull’intero corpo. È una differenza così fondamentale che è difficile apprezzarne immediatamente le conseguenze. In effetti, cambia tutto.

L’avere in comune con (quasi) tutti gli animali cervello, cuore, bocca, polmoni, stomaco ce li rende vicini e comprensibili; lo stesso non può dirsi per le piante. Ma perché queste non hanno sviluppato gli organi specializzati che si sono dimostrati così utili nel mondo animale? La risposta anche in questo caso è semplice, quasi banale. Immaginate una pianta dotata di polmoni o di uno stomaco, un cervello, degli occhi. Il primo animaletto – non è necessario un grande erbivoro, anche un bruco potrebbe bastare – che mangiasse un pezzettino di questi organi sarebbe sufficiente ad ucciderla. È questa la ragione per cui la pianta non ha organi singoli. Ma attenzione: non possedere l’organo non vuol dire, automaticamente, non possedere neanche la funzione che quell’organo esplica. È questa la straordinarietà della faccenda. La pianta, infatti, respira senza polmoni, si nutre senza bocca, digerisce senza stomaco, vede senza occhi, sente senza orecchie e, cosa più eccezionale di tutte, ragiona, comunica, risolve problemi senza avere un cervello. È addirittura in grado di ricordare e di risolvere i problemi in maniera più efficace ogni volta che gli si pongono. Insomma, è capace di imparare. È tutto questo senza avere un cervello, né strutture analoghe, cui siano demandati tali compiti.

Le piante, in altre parole, non hanno un’organizzazione centralizzata, tutto in loro è diffuso e non delegato ad organi specifici. In un certo senso sono come una colonia: non è la singola formica, ma l’intera colonia che meglio rappresenta il modo in cui le piante sono costruite e funzionano. Tanto che recentemente la struttura dell’apparato radicale – il modo in cui esso esplora il terreno e ne utilizza le risorse – è stata descritta con modelli di comportamento di ‘sciame’, simili a quelli utilizzati per lo studio degli insetti sociali.

Il corpo delle piante è costituito dalla reiterazione di moduli base, una costruzione ridondante si direbbe oggi, costituita da molti moduli ripetuti che interagiscono fra loro e che possono, in certe condizioni, sopravvivere anche autonomamente. Inoltre, è essenzialmente privo di singoli organi vitali. Una scelta molto saggia per degli organismi continuamente sottoposti alla predazione, il cui corpo è costruito per resistere a questo evento.

Le piante sembrano, da questo punto di vista, organismi molto più moderni degli animali. Sono la rappresentazione vivente di una democrazia diffusa. Tanto che a ben vedere non dovrebbero neanche essere definite come degli individui. Individuo, infatti – dal latino individuus parola composta dal prefisso in, privativo, e dividuus ‘diviso’ – vuol dire, letteralmente, ‘indivisibile’. Ora, mentre un animale, escludendo pochissime eccezioni, è essenzialmente indivisibile – se lo si divide in due, lo si uccide –, le piante sono divisibilissime tanto che la loro suddivisione successiva è utilizzata come metodo di propagazione. Sono realizzate in una maniera che potremmo definire ‘componibile’. In un certo senso, la loro costruzione è la quintessenza della modernità: un’architettura modulare, cooperativa, distribuita e senza centri di comando, in grado di resistere perfettamente a predazioni catastrofiche e ripetute senza perdere di funzionalità. In pratica, il sogno di ogni ingegnere. La prossima volta che guardate una pianta, provate a pensarci.

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