SENSO

L’incontro è l’opposto del destino. Apre la possibilità a un avvenire, a un’avventura che attinge la propria forza inaugurale dall’evidenza di una presenza altra e permette di sfuggire alle concatenazioni obbligate di un percorso solitario. È questo che costituisce la forza dell’arte. L’opera d’arte non è mai il prodotto di una solitudine assoluta; essa ha bisogno degli altri, di un lettore, di uno spettatore o di un ascoltatore che la riceva e che, in un certo senso, la ricrei.

È a questa condizione che essa opera il miracolo della nascita, o della rinascita. L’arte è di per sé rivoluzionaria, vivificante e democratica nella misura in cui, come il rito, offre a tutti e a ciascuno l’occasione di vivere l’esperienza di un nuovo inizio. Ciò che sta all’origine di ogni atto creativo è anche all’origine di ogni atto percettivo e ricettivo: leggere un libro, ascoltare della musica oppure osservare un quadro significa appropriarsene e, in questo senso, ricrearli. Gli autori lo sanno bene: ciò che essi desiderano è incontrare un pubblico, e nessun incontro è a senso unico. L’incontro, ancora una volta, al contrario dell’eredità, della tradizione e del destino, si pone come evidenza dell’alterità (per questa ragione il termine francese rencontre significa sia empatia sia scontro, conflittualità) e principio del tempo, avventura, libertà.

Ecco perché le mitologie hanno tentato di appropriarsene sin da subito: così il crocevia, spazio ideale dell’incontro, viene marcato, simbolizzato, protetto come un richiamo all’ordine del senso e della norma. La mitologia greca, con Edipo e Laio, ne ha fatto lo spazio in cui si realizza la profezia dell’oracolo di Delfi e la mitologia psicanalitica il simbolo della maledizione originale che pesa su tutti gli esseri umani.

La creazione letteraria e artistica centra così il nodo problematico dell’avventura individuale e collettiva. Principio assoluto e occasione d’incontri inediti o illusione suprema dell’umanità in balìa della fatalità della propria origine? La tensione fra senso e libertà raggiunge qui il suo apice. Se per senso sociale si intendono le relazioni fra l’uno e l’altro, fra gli uni e gli altri, così come sono definite nelle varie ‘culture’ del mondo, spesso in maniera fortemente prescrittiva, bisogna riconoscere che esiste una tensione di fondo, una contraddizione, tra il senso sociale e la libertà individuale: le relazioni ‘simboliche’ assegnano un ruolo ai singoli individui, li ‘mettono assieme’ (è questo il significato del termine ‘simbolo’) e li definiscono in base alla loro posizione in termini di filiazione, generazione, ordine di nascita, rapporto matrimoniale… in breve, nei termini di un ordine prestabilito che ha origine nell’arbitrarietà di ciò che è simbolico e che stabilisce la forma sociale del destino. La questione – quella cui l’arte, in tutte le sue forme, tenta di rispondere – è dunque capire se la relazione fra l’uno e l’altro può sfuggire al determinismo dettato dalla simbolica sociale. Esiste quindi uno spazio per l’incontro fra individui? La questione può essere scomposta: l’incontro implica la possibilità di un inizio o di un nuovo inizio. In altre parole, il problema del libero incontro fra l’uno e l’altro è legato alla possibilità di instaurare una novità radicale. Fondamentalmente si tratta della responsabilità effettiva della democrazia, che deve impegnarsi per gestire al meglio la necessità del senso sociale e il bisogno di libertà individuale – impegno di cui si può rendere testimonianza in termini temporali: reazione, conservatorismo e progressismo.

Ritroviamo questa tensione e queste inflessioni nel nostro rapporto con le arti cosiddette ‘minori’, che sono anche quelle più quotidiane e più condivise, come la canzone. Temi, ritornelli, arie sentite mille volte, che un fisarmonicista improvvisato snocciola e storpia in un vagone della metropolitana per spillare qualche spicciolo al pubblico ‘catturato’? Oppure folgorazione improvvisa, emozione istantanea, effimera ma reale, la quale s’impossessa di noi all’ascolto di appena tre note: esse ci hanno forse già commosso prima di allora ma, lungi dall’essere semplice rievocazione del passato, liberano fugacemente la vaga e tenace impressione che, indipendentemente dalla nostra età e dai nostri problemi, qualcosa sia ancora possibile e che la vita si possa congiungere al futuro?

L’arte possiede quindi una dimensione rituale. Il rito ripete e segna un inizio. Deve rispettare le proprie forme rituali, ma non si realizza compiutamente se non apre all’avvenire.

In tutte le situazioni della vita individuale e collettiva, nella vita sentimentale come in quella politica, siamo sensibili ai fenomeni di usura che a volte siamo tentati d’imputare alle azioni degli uni o degli altri ma che, da una certa distanza, ci appaiono – e questo è senza dubbio ancor più grave – come inevitabilmente legati alla semplice azione del tempo, a una forma d’erosione storica o d’invecchiamento quasi biologico che suscita di rimando enormi nostalgie. 1789, la Comune, 1936, la Liberazione, maggio ’68, il verde paradiso degli amori giovanili o il ‘tempo delle ciliegie’* sono celebrati e cantati quando hanno ormai perduto la loro forza inaugurale e sono ascesi allo status di mito. Nella vita moderna, quantomeno, i miti nascono quando i riti muoiono e perdono la loro potenza creatrice. Il recupero della ritualità è quindi una necessità vitale; essa solamente permette di sfuggire all’isolamento mortificante e alla regressione che mitizza il tempo dei principi. Abbiamo bisogno che il rapporto con l’altro, che definisce il senso sociale, possa congiungersi al futuro, come una libertà: un incontro e non un destino…


* Le temps des cerises, celeberrima canzone del 1866 legata alla Comune di Parigi, divenuta un classico del periodo rivoluzionario, nonostante l’apparente contenuto amoroso. [NdR]

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