SENSO

La ‘spinta a esistere’ (S. Freud, Inibizione, sintomo, angoscia, 1924; W.R. Bion, Seminari clinici. Brasilia e San Paolo, 1987) indica una pulsione interna all’individuo che avvia la vita psichica, la sua rappresentazione e le azioni efficaci da compiere nella realtà. Ma essa indica anche un livello che trascende l’individuo e riguarda le leggi della natura e della specie. In quanto parte della natura, le pulsioni ci giungono come forze impersonali, come dettati della specie completamente indifferenti ai singoli individui e al loro destino.

La spinta a esistere travalica dunque il singolo individuo, ignora la sua specificità, è indifferente a scelte o desideri possibili. Per il tramite della pulsione preme misteriosamente dal nostro mondo somato-psichico alla ricerca di realizzazione.

L’individuo può vivere queste spinte pulsionali come ‘patite’, subendone una dipendenza oscura, oppure può soggettivarsi rispetto a questa dimensione magmatica ed esistere agganciandosi a essa per diventare soggetto attraverso l’attribuzione di un significato specifico per la propria vita: questo vuol dire diventare se stessi. La spinta a esistere si confronta nell’uomo (a causa dello sviluppo speciale del suo cervello) con una continua e indomita tensione a significare individualmente l’esperienza della propria vita, a raccontare storie che in qualche modo sottraggano al destino impersonale della specie il senso specifico della propria esistenza.

Siamo – come dice Jacques Monod (Il caso e la necessità, 1970) – «come uno sciame di moscerini sperduti nell’universo». Ma siamo moscerini pensanti e abbiamo sviluppato un vero tesoro di rappresentazioni per rendere sopportabile, attraverso la costruzione di senso, la nostra irrilevanza nella compagine dell’universo. Attraverso la nostra capacità rappresentativa le pulsioni, emissari di un insondabile altrove e in ultimo della realtà che percepiamo fuori e dentro di noi, vengono tessute in significati personali e trasformate in derivati conoscibili e infine pensabili. Freud, nel 1911 (Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico), affrontando il compito di individuare il rapporto dell’uomo con la realtà, definisce due polarità dell’accadere psichico: i processi mentali guidati dal principio del piacere, che obbediscono alla fantasia di allontanare ciò che produce disagio, e il principio di realtà che si impone nel tentativo di fare i conti con la realtà stessa che ci sta addosso, resistendo all’onnipotenza delle trasformazioni allucinatorie.

Ma come si costruisce il senso nel lavoro psicoanalitico e a quale realtà si riferiscono gli psicoanalisti? Scrive Freud: «Possiamo provare ad accrescere al massimo le possibilità di prestazione dei nostri organi di senso con mezzi artificiali, comunque ci si aspetta che tutti questi sforzi non cambieranno il risultato finale. Il reale rimarrà sempre inconoscibile» (Compendio di psicoanalisi, 1938). L’inconoscibile attiene allo scarto che si crea fra il percepito dell’osservazione e l’oggetto in sé, in questo transito la corrispondenza non è mai piena: l’oggetto è sempre soggettivo. L’essere umano stabilisce un rapporto conoscitivo con la realtà attraverso rappresentazioni soggettive che si organizzano in oggetti di conoscenza. Cosa stabilisce allora la corrispondenza fra oggetto reale e oggetto di conoscenza? Dal vertice psicoanalitico, la qualità dei meccanismi di identificazione e proiezione mediante i quali ci si appropria dell’oggetto; ma non solo, credo si debba aggiungere ciò che a questa appropriazione resiste. Vi è, in fondo, un’alterità irriducibile delle cose che dobbiamo tollerare: per quel che riguarda la psicoanalisi, significa avere a che fare con l’attrito differenziale dell’esistenza dell’altro che crea un limite alla nostra onnipotenza conoscitiva. È dunque necessario abbandonare la pretesa di assumere il controllo totale dell’oggetto, pena la sua distruzione intrapsichica. Detto in altri termini: dobbiamo rispettare il nostro paziente e non costringerlo dentro le nostre teorie e le nostre interpretazioni ma, al contrario, porci con rispetto di fronte alla sua ricerca di diventare se stesso, anche quando questo percorso non dovesse corrispondere ai dettami della teoria psicoanalitica.

I modi che l’individuo utilizza per significare l’impatto con gli elementi grezzi della percezione del reale, che si manifestano massicciamente soprattutto nei momenti di maggior cambiamento nella vita (a partire dalla nascita per arrivare alla morte), si muovono sullo spettro che procede dal delirio, alla depressione, fino alla produzione di opere d’arte e alle teorie scientifiche con gradienti diversi di efficacia nel rapporto col reale.

Possiamo dire che il criterio ultimo per discriminare la salute mentale dalla patologia sia proprio la capacità di tollerare l’esposizione alla spinta a esistere, questa forza sconosciuta che pervade la nostra esistenza. Non tollerarla comporta tentativi illusori e sterili di governare, attraverso la sintomatologia psichica, ciò che è ignoto. La trasformazione di base che consente di vivere la vita può essere considerata come il passaggio dal sentirsi annichiliti, inermi e senza protezioni dinanzi all’impersonale spinta a esistere, al poterla invece sperimentare e significare come interna e personale: il mio destino, ciò che ho accettato di essere (l’accettazione del proprio percorso di vita è il tema centrale dell’Edipo a Colono in cui il protagonista del meraviglioso ultimo dramma di Sofocle conferisce senso e valore alla propria straordinaria esistenza significandola con un sentimento di responsabilità tragica ben lungi dalla colpa di cui è accusato dagli abitanti di Colono).

Nell’uomo questo processo è avviato – come evidenzia la ricerca e la clinica psicoanalitica – dalle figure primarie: esse danno un nome, estraggono dal magma delle emozioni confondenti e vorticose del bambino un senso attraverso un’azione efficace a trasformare l’angoscia del reale. Il bambino, come il paziente in analisi, ha bisogno che i caregiver possano tollerare la moltitudine di emozioni che attraversano l’incontro con il mondo, possano nominare questo vortice e tradurlo in azioni appropriate. Se questo accade il bambino o il paziente interiorizza questi pensieri-azioni come una propria possibilità di modellare il mondo: quello interno, ineffabile e inconscio, e quello esterno, impersonale e incontrollabile, dando diritto di cittadinanza alla curiosità, alla fantasia e all’esplorazione di ciò che è ignoto.

Per gli psicoanalisti la questione metafisica della natura ultima della realtà è sostituita dall’indagine del processo attraverso il quale l’individuo prova il sentimento che ciò che accade è reale. La clinica psicoanalitica ci dimostra che lo sviluppo del sentimento del reale avviene primariamente non come risultato della frustrazione e delle delusioni, ma attraverso la sintonizzazione convalidante (D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino, 1987) da parte dell’ambiente di accudimento. Una sintonizzazione ottenuta mediante un’intera gamma di esperienze affettivamente congrue e significative: in questo modo la realtà si organizza in significati per il soggetto che la esperisce. Così facendo, il pensiero, anziché sostituire l’azione, la prelude, la nutre di una intenzionalità che placa il terrore della realtà caotica e il ricorso all’onnipotenza o alle difese estreme della psicopatologia. Nel realizzare un senso di competenza e di potenza personale si crea una separatezza e una distanza che permette di individuarsi per appropriarsi della spinta a esistere: in altre parole, di accogliere le pulsioni come oscuro bagaglio del proprio mondo interno e trasformarle in motivazioni, aspirazioni, ambizioni.

Occorre coraggio al ‘moscerino umano’ per intraprendere una esistenza personale e cercare i suoi propri significati. Quest’attività profondamente creativa si sviluppa dentro l’esperienza del limite, del reale che resiste, dell’impotenza e della morte; essa è frutto della spinta mescolata a una quota di megalomania a travalicare l’oscurità delle cose. Il lavoro per realizzare la nostra esistenza dentro la realtà è quindi un misto di fiducia-illusione che ci muove alla ricerca di pensieri e azioni efficaci.

Dal vertice che qui propongo, l’obiettivo del lavoro psicoanalitico è aiutare i pazienti a costruire nella propria mente oggetti capaci di fare fronte alla realtà senza cadere nella disperazione. Se il paziente non ha fiducia di poter vivere la propria vita, se si sente sopraffatto dalle vicissitudini dell’esistenza, allora egli ha bisogno di incontrare una persona che sia capace di soffrire l’angoscia del destino impersonale, di nutrire fiducia senza negare o aggirare la zona oscura e indifferente in cui gli uomini sono sperduti nello spazio infinito e impersonale. Si tratta dunque di dare voce e valore alla storia del paziente volgendosi altresì a ciò che non c’è ancora, al potenziale che cerca sviluppo: la prospettiva del divenire deve essere centrale per la psicoanalisi quanto quella ricostruttiva. Occorre quindi che anche gli analisti come i loro pazienti escano dai rifugi protetti, dai nidi sicuri per confrontarsi con il compito di ‘offrire senso alla realtà’, affiancando alla dimensione ermeneutica azioni relazionali che possano generare nuovi affetti capaci di costruire un luogo in cui valga davvero la pena di vivere.

L’analista deve poter condividere, dal suo punto personale, la domanda con cui i pazienti si confrontano: vale la pena vivere? Forse è la risposta a questa domanda il senso ultimo non solo del lavoro psicoanalitico, ma anche di quello di tutti gli esseri umani.

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