SENSO
Verso un ‘Laocoonte’ condiviso. L’iper-sensorialità nella fruizione dell’arte d’oggi
di Giovanni Rubino
Nella vita quotidiana la vista, il tatto, l’udito, l’olfatto e il gusto sono la sostanza della fenomenologia della percezione. Secondo la fisiologia, la capacità umana di produrre oggetti di senso compiuto nacque quando l’ominide, abbandonata la posizione orizzontale, sfruttò l’andatura eretta, scindendo l’alto dal basso.
Cominciò allora a concepire gli oggetti nello spazio circostante e, sull’olfatto e sull’udito, privilegiò la vista. La nuova percezione del mondo lo spinse a trasformare la realtà per mezzo dei primi manufatti artistici, conseguendo così un godimento estetico. Trascorsi i secoli, il coinvolgimento dei sensi, attraverso pittura e scultura, ha successivamente acquistato sempre più forza nella sfera personale e pubblica fino all’epoca moderna.
Dopo le grandi innovazioni nei materiali (l’olio su tela) e nelle tecniche (la prospettiva centrale), nel Settecento un evento extra artistico caratterizzò la relazione tra spettatore e opera: il museo. Pur se concepito con nobili scopi, l’effetto paradossale che ne è derivato – ancora oggi – è stato il distanziamento, fisico e sensoriale, dello spettatore dall’opera. Il ‘senso della contemplazione’, illustrato dalla ben nota fila di schiene che contemplano alla parete un rettangolo di tela dipinto, è divenuto così il bersaglio degli artisti d’avanguardia.
Pablo Picasso e Umberto Boccioni, infatti, hanno segnato l’inizio e gli sviluppi del Novecento per mezzo della frammentazione delle forme, della moltiplicazione dei punti vista, fino all’estrema perdita di quello privilegiato. La ‘perdita del centro’ nella cultura europea corrisponde anche alla perdita progressiva di un organo fondamentale della percezione.
Con l’opera d’arte totale delle avanguardie, l’arte è entrata nella vita quotidiana e, viceversa, il quotidiano (Marcel Duchamp) e l’inconscio (Salvador Dalì) hanno fatto irruzione in essa con oggetti e forme surreali.
Anche la fotografia ha influenzato la fruizione dell’arte. Walter Benjamin evidenziò che la riproducibilità tecnica dell’opera ne aveva modificato la stessa percezione. Le riproduzioni fotografiche delle opere conservate nei musei (come ad esempio il Laocoonte del Vaticano) hanno consentito, per un pubblico sempre più vasto, la circolazione a livello planetario di oggetti che fino a quel momento si potevano osservare solo dal vivo. È cambiata così la distanza a livello temporale e l’unicità si è fatta molteplice, mentre la vista ha avuto la meglio sugli altri sensi. Contemporaneamente, l’arte è diventata un fenomeno globale, profetizzato dal ‘museo immaginario’ di André Malraux.
Dal secondo dopoguerra, anche le geografie dell’arte hanno perso importanza. Modi di dipingere simili, dalla pittura gestuale di Pollock – il senso del dripping è l’azione dell’artista – al prelievo iconico dai mass media di Warhol – l’immagine visiva è un ‘precipitato’ del capitalismo – si sono diffusi ovunque, avvalorando la tesi che, secondo la formula di Marshall McLuhan, il medium è il messaggio.
Tra gli anni ’60 e ’70 i sensi come atti percettivi sono divenuti il messaggio dell’arte poiché nuove ricerche hanno ridato importanza agli altri organi recettori. Alle ambiguità cromatiche e visuali di Victor Vasarely, basate sui modelli teorici della Gestalt, si è opposto il mangiare l’opera – il gusto – e la sua versione escrementizia – suzione invertita – nel caso di Piero Manzoni.
Inoltre, la temporalità tattile e spaziale, ossia la ‘cinestesi’, con gli happening di Allan Kaprow – discarica di detriti – e gli ambienti cinetici del Gruppo T (Anceschi, Boriani, Colombo, Devecchi, Varisco) – riflesso della società tecnologica – ha dato allo spettatore un nuovo ruolo performativo e partecipativo. Peraltro, con il rifiuto di qualsiasi mezzo artistico tradizionale, Cavalli di Jannis Kounellis ha coinvolto pure l’olfatto.
Dagli anni ’70 in poi una grande importanza ha assunto anche il disattendere al godimento estetico preferendo il concetto, come in Una e tre sedie di Joseph Kosuth. Tali esempi non hanno spodestato del tutto la vista dal suo piedistallo. Ciò che è mutato, invece, è il modo di guardare poiché hanno riportato l’arte fuori dai musei.
Alle pratiche concettuali sono seguite quelle performative di Marina Abramovic´ e Gina Pane, in cui l’oggetto da esperire non è altro che l’artista stesso che, oltre a essere visto, è toccato, odorato e forse ‘gustato’, come nelle opere dell’Azionismo viennese (Brus, Mühl, Nitsch, Schwarzkogler). Gli artisti e l’uomo della strada hanno adottato un medesimo idioma: il corpo e i sensi.
Un ulteriore passaggio da considerare, nella relazione tra arte e sensi, riguarda il rapporto tra fare artistico e tecnologia. È comunemente accettato che la tecnologia, dalla radio alla televisione fino ai computer, abbia segnato gli anni ’80 rendendo la vista, l’udito e il tatto gli organi più sfruttati. I video di Bill Viola e Fabrizio Plessi, ad esempio, sono opere che sono ‘qui e ora’ ma allo stesso tempo possono essere ‘là e prima o dopo’. Non si tratta di riproduzioni di un originale ma di una dematerializzazione dell’oggetto-opera d’arte, che si comporta come un fluido la cui caratteristica è di trasmigrare, adattandosi, da un luogo a un altro. Potrebbero essere trasmessi in contemporanea nelle gallerie di tutto il mondo ma anche nelle case di ognuno di noi, cambiando così la percezione spazio-temporale e il senso sociale dell’arte.
Negli anni ’90, inoltre, si è assistito al moltiplicarsi dei lavori di carattere installativo, sia di alto livello tecnologico, sia realizzate con i materiali più disparati: l’opera è letteralmente esplosa, riversandosi nell’ambiente e inglobandolo. Le installazioni offrono allo spettatore la possibilità di un’esperienza immersiva e totalizzante per i sensi, ad esempio grazie all’impiego di essenze profumate, oggetti da toccare o manipolare, forme, suoni e così via. Si pensi alle recenti Orbit di Tomás Saraceno, a Rain Room del gruppo Random International (Wood, Ortkrass, Koch) e, infine, a Eletronic ether di Marcos Lutyens, esposta a Bologna nel 2014.
Un’ultima considerazione riguarda il world wide web o, più comunemente, internet. Oramai i nostri dispositivi sono tutti connessi e interconnessi tra loro su piattaforme virtuali on line, e ciò ha scardinato il primato dei vecchi mass media per inaugurare la dimensione globalizzante dei social network. Nell’arte questa situazione ha creato nuove frontiere: opere virtuali che sono modificabili dallo spettatore attraverso un touch screen e quindi con il tatto, come nelle installazioni di Ennio Bertrand o di Studio Azzurro. Altre sono create attraverso la rete e possono essere fruite con la navigazione sul web, come nel caso di potatoland.org/riot di Mark Napier. Anche per i musei e le gallerie con la digitalizzazione delle collezioni, la conoscenza o la memoria dell’opera d’arte non è più affidata alla riproduzione su carta e lo spettatore, senza un supporto fisico, può visitare con lo ‘sguardo’ i simulacri delle collezioni stesse.
In tale situazione, in cui la tecnologia informatica è una protesi estensiva dei nostri sensi, un nuovo fattore nell’arte è relato alla connessione: la condivisione (cum più dis-videre: ‘vedere separato’). Avendo come presupposto che l’‘attività della forma’ (dal tedesco Gestaltung) modifica le aspettative sensoriali – le idee e le espressioni messe ‘in forma’ a loro volta modellano non solo i sensi del creatore ma anche quelli dello spettatore –, possiamo sostenere che sia gli artisti sia gli spettatori abbiano influenza gli uni su gli altri, feedback dopo feedback. La connessione e condivisione delle proprie esperienze estetiche riguardano tutte le tipologie di opere d’arte. Non si tratta di semplice ‘informazione’ bensì si sarebbe a una svolta ‘formativa’ dei sensi.
La conclusione non può che essere una domanda aperta sull’eventualità di accettare, nell’arte odierna, una diversa sensorialità che incroci differenti fattori tecnici, antropici e neurali, per dare ragion d’essere ad un iper-senso di connessione.