S/VELO

La statistica nasconde la realtà, la manipola, la deforma?
Forse non può che fare questo, dal momento che, per costruire una rappresentazione quantitativa di un fenomeno, è necessario dapprima darne una definizione univoca e convenzionale, spesso astratta, lontana dalla sua percezione immediata, ma altrettanto spesso capace di diventare, col tempo, luogo comune. L’inflazione, la disoccupazione, la fecondità sono concetti abitualmente utilizzati, che tuttavia corrispondono al risultato di un calcolo, al rapporto tra quantità misurate sulla base di convenzioni ben precise ma molto meno note.

Quando qualcosa non funziona, quando il dato numerico sembra non trovare riscontro nella percezione diffusa, è quindi dentro la scatola degli attrezzi dello statistico che bisogna guardare per comprendere che cosa viene davvero misurato e in che modo. Questa considerazione vale anche nei casi in cui appare fortemente plausibile che i risultati, le statistiche, siano stati volutamente falsificati per scopi politici di propaganda, in particolare sotto regimi autoritari o totalitari.

Le censure e le correzioni arbitrarie imposte alle pubblicazioni statistiche ufficiali dai dittatori del Novecento sono note e sono state ampiamente studiate. Ma, appunto, la questione non è così semplice: per lo storico interessato a studiare l’economia e la società, il problema dell’attendibilità dei dati disponibili non si risolve con la constatazione della presenza o meno di manipolazioni, pure documentabili, ma concerne innanzitutto gli obiettivi delle indagini, le scelte metodologiche operate nella fase di rilevazione ed elaborazione delle informazioni, l’interpretazione dei risultati. La dialettica tra le finalità propagandistiche della politica e la costruzione statistica del dato è spesso più contorta e complessa di quel che ci si potrebbe aspettare, e produce effetti inattesi quando entra in gioco il problema storico dell’attendibilità e dell’interpretazione delle cifre ufficiali.

Un caso che mi sembra esemplificare perfettamente questo problema è quello delle cifre sull’andamento dei salari degli operai dell’industria in periodo fascista, oggetto di un acceso dibattito fra gli studiosi prima e dopo la guerra. Quella polemica storiografica ha infatti trascurato alcuni aspetti, tutti interni alla costruzione del dato statistico.
E quegli aspetti, forse, gettano una luce diversa sull’intera vicenda.
Dico ‘forse’ perché, nonostante l’evidenza delle conclusioni ricavabili da una analisi attenta dei dati e delle procedure usate per calcolarli, l’interpretazione storica di quanto accaduto è ben lontana dall’essere univoca, e solo ulteriori ricerche negli archivi che conservano le carte delle istituzioni e dei personaggi coinvolti potranno consentire di confermare o smentire le ipotesi che qui si presentano. Proprio per questo il termine ‘favola’ mi è parso quello più appropriato per il titolo da dare a questo breve intervento: ‘favola’ nel senso appunto di ipotesi, di possibile scenario inventato da chi scrive per provare a tenere assieme i diversi elementi di una storia complicata.

Hypotheses fingo, e vale la pena di dichiararlo apertamente. Ma andiamo con ordine.
Sotto il fascismo, in seguito all’abolizione della libertà di associazione sindacale e all’istituzione nel 1926 di un regime corporativo, il livello dei salari veniva concordato tra le rappresentanze padronali e il sindacato fascista, riuniti nelle ‘corporazioni’ di settore. Diventava in tal modo possibile adeguare le retribuzioni nei diversi comparti alle supposte esigenze della produzione nazionale attraverso provvedimenti che avevano valore di legge. Riduzioni consistenti del salario furono così imposte nel 1927, nel 1930 e ancora nel 1934, in seguito alla rivalutazione della lira a ‘quota 90’ rispetto alla sterlina e al conseguente calo dei prezzi, poi aggravato dalla crisi mondiale dei primi anni ’30. In seguito, a partire dal 1936 fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, i salari furono invece aumentati in risposta alla crescita dei prezzi al consumo e del costo della vita.

Per conoscere l’andamento effettivo dei salari non basta però seguire i cambiamenti delle tariffe decise a livello centrale: la presenza di cottimi e straordinari, le variazioni nella quantità effettiva delle ore lavorate e nelle condizioni del mercato del lavoro comportavano infatti forti scostamenti rispetto a quanto previsto dai contratti collettivi. Per fare un solo esempio, esiste un’abbondante documentazione che dimostra che nei periodi di crisi i lavoratori spesso accettavano di essere assunti con qualifiche inferiori a quelle effettive, mentre nelle fasi di espansione potevano costringere gli imprenditori a offrire condizioni migliori, sia pure nei limiti imposti dall’assenza di libertà sindacali.

Una misura più attendibile dell’evoluzione effettiva dei salari industriali è fornita dalle serie statistiche ufficiali esistenti, delle quali soltanto due presentano una continuità tale da permettere di valutare l’andamento del fenomeno nell’arco di un periodo sufficientemente lungo. Si tratta delle rilevazioni eseguite, con criteri diversi, dalla Cassa nazionale per gli infortuni sul lavoro (in seguito trasformata nell’Inail) e dalla Confederazione fascista dell’industria italiana (Confindustria).

Sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, l’Inail pubblicava una propria statistica dei salari industriali, ricavata dai dati forniti dagli operai infortunatisi nel corso di ogni anno. Ma non tutti i lavoratori erano assicurati, e non tutti lo erano presso l’Inail; inoltre, il meccanismo stesso della rilevazione portava a sopravvalutare il peso assegnato alle categorie di lavoratori maggiormente soggette a infortuni sul lavoro. Sulla base di queste considerazioni, l’Istituto centrale di statistica (Istat) preferì avviare sin dal 1926, anno della sua fondazione, una autonoma rilevazione dei salari, basata sui dati contenuti nei registri contabili delle aziende, resi disponibili dalla Confindustria. A partire dal 1928, poi, la Confindustria iniziò per parte sua a elaborare e pubblicare in proprio quegli stessi dati, rendendo di fatto inutile il lavoro dell’Istat, che dal 1930 si limitò a riportare nel «Bollettino dei prezzi» e nel «Bollettino mensile di statistica» i «guadagni orari degli operai dell’industria» calcolati dalla Confindustria stessa.

Questa nuova serie di dati sui salari era il risultato di un calcolo effettuato dividendo la massa complessiva dei salari pagati mensilmente da tutte le aziende aderenti alla Confindustria per il numero totale delle ore lavorate. Ma la composizione numerica e qualitativa delle aziende prese in considerazione variava assai rapidamente, dal momento che queste potevano rinnovare o meno l’adesione alla Confindustria, oppure fallire o, ancora, nuove aziende potevano iscriversi all’associazione. Si trattava quindi di trovare un modo per depurare le variazioni rilevate nei salari medi dagli effetti provocati dai cambiamenti nel campione delle ditte interpellate, che negli anni successivi di fatto si venne progressivamente restringendo alle aziende di maggiori dimensioni, dove i salari erano mediamente più alti.

La soluzione fu trovata nel metodo del concatenamento proporzionale: ogni mese, a tutte le aziende associate veniva chiesto di mettere a disposizione i dati sul monte salari e sulle ore lavorate nei due mesi precedenti. In tal modo, disponendo del dato medio relativo al mese precedente, lo si poteva confrontare con quello rilevato un mese prima e verificare quale fosse l’effetto sui salari dei cambiamenti avvenuti nel frattempo nel numero delle aziende associate. Diventava inoltre possibile costruire un indice concatenato semplicemente applicando al salario medio rilevato nel periodo compreso tra il luglio 1928 e il giugno 1929 le variazioni relative dei salari medi rilevate nei mesi successivi.

Facciamo un esempio concreto: supponiamo che la rilevazione effettuata nel marzo 1928 desse come salario medio orario 100 (in realtà diede 2,02 lire), mentre quella effettuata in aprile desse 180 per aprile e 200 per marzo (in realtà diede 2,11 lire per aprile e 2,10 per marzo). Lungi dall’essere aumentati dell’80% (del 4% circa nella realtà), i salari erano in realtà calati del 10% (dello 0,5% circa): l’indice concatenato avrebbe quindi riportato sul primo dato di marzo una variazione proporzionale a quella rilevata in aprile rispetto a marzo, dando per aprile un salario medio di 90 (2,01 lire). Fin qui tutto bene.

A partire dal gennaio 1929 la Confindustria aveva deciso però di rendere bimestrale la rilevazione: ogni due mesi (nei mesi pari), alle aziende venivano così chiesti i dati riguardanti i tre mesi precedenti. Di fatto non cambiava nulla: per ogni mese, si sarebbe dovuta applicare all’indice la variazione rilevata rispetto al mese precedente sullo stesso campione. Facciamo ancora un esempio: se nel febbraio 1929 si fossero rilevati salari pari a 100 (2,04 lire) per il dicembre 1928, a 90 (2,03 lire) per il gennaio 1929 e a 81 (2,02 lire) per febbraio, l’indice avrebbe dovuto segnare una diminuzione del 10% (0,5% circa) tra dicembre e gennaio e un’ulteriore diminuzione del 10% (0,5% circa) tra gennaio e febbraio.

Invece, a partire dal febbraio 1929 è possibile rilevare un errore nel metodo usato dalla Confindustria e dall’Istat per calcolare l’indice concatenato dei salari: nei mesi pari, anziché riportare sull’indice le variazioni rispetto al mese precedente, venivano sistematicamente riportate variazioni calcolate rispetto al precedente mese pari, per il quale si disponeva di una doppia rilevazione. Per intenderci ritorniamo all’esempio appena fatto: nei primi mesi del 1929, l’Istat non riportò due diminuzioni successive del 10% (0,5%), ma un calo del 10% (0,5%) a gennaio e un calo del 19% (1%) a febbraio, applicando a questo mese la variazione verificatasi rispetto a dicembre.

L’errore era cumulativo, vale a dire che le successive variazioni furono applicate, sempre in maniera errata, a un indice che già era deformato dagli errori precedenti. Se l’andamento dei salari fosse stato altalenante, le variazioni in eccesso in un senso e nell’altro avrebbero potuto in parte compensarsi; ma sfortunatamente, come si è visto, i salari dal 1929 fino al 1935 furono in continuo calo, e questo calo risultava enfatizzato dall’errata procedura di calcolo adottata dall’Istat.

Soltanto nel marzo 1938, quando ormai da tempo i salari avevano ripreso a crescere, e l’indice mostrava ormai un aumento superiore a quello reale, l’Istat procedette a una completa revisione della metodologia utilizzata per calcolarlo. Chi si prese la briga di mettere mano al problema fu Benedetto Barberi, all’epoca capo ufficio nel Servizio studi e cartografia, e in seguito direttore generale dell’Istat dal 1945 al 1963. Barberi giustificava la necessità di una revisione sulla base degli scostamenti sempre più evidenti tra i dati dell’indice, risultato dell’applicazione del metodo del concatenamento al dato rilevato nel marzo 1928, e i salari effettivamente rilevati ogni due mesi. Attribuiva tuttavia lapidariamente quello scostamento al fatto che proprio nel marzo 1928 si fosse verificato uno dei maggiori scarti tra le due rilevazioni relative allo stesso mese.

Proponeva quindi una soluzione «adeguata a rappresentare non solo le variazioni» dei salari «attraverso il tempo, ma anche e sia pure approssimativamente, la successione delle misure assolute». Si trattava di «combinare il procedimento della concatenazione dei dati con una semplice perequazione dei guadagni osservati in ciascun mese di doppia rilevazione», laddove lo scostamento fosse inferiore a una soglia di tolleranza determinata a priori. In pratica, quando la differenza tra le due rilevazioni relative allo stesso mese era trascurabile, si utilizzava la media dei due dati, mentre in caso di scostamenti più significativi si applicava il metodo del concatenamento, questa volta in maniera corretta. Come base dell’indice veniva inoltre utilizzata la media dei salari rilevati nel 1928.

Sono credibili le giustificazioni portate allora da Barberi per motivare la revisione dell’indice? È a partire da questo punto che le interpretazioni di quanto accaduto divergono: quella che propongo nel seguito è infatti soltanto una ipotesi, per quanto sostenuta da forti evidenze empiriche.

Dall’estero, Gaetano Salvemini espresse nel 1939 forti sospetti sull’arbitrarietà della revisione operata da Barberi, accusando di fatto l’Istat di manipolare le cifre per sminuire l’entità della compressione salariale attuata dal regime nel corso degli anni ’30. Le sue osservazioni furono riprese nel dopoguerra nel contesto di un approfondito dibattito storiografico sull’affidabilità delle statistiche ufficiali dei salari in periodo fascista, dibattito che ha focalizzato l’attenzione sulla correttezza metodologica della revisione di Barberi, trascurando tuttavia l’esame della procedura utilizzata per tutti gli anni ’30 per calcolare i dati ufficiali. Si è così persa traccia dell’errore nel calcolo dell’indice Istat, errore rimasto sepolto nei fascicoli del «Bollettino dei prezzi», che riporta sia i risultati delle rilevazioni che l’indice calcolato per concatenamento: quelle cifre, sottoposte a un dettagliato confronto, perdono infatti il velo di oggettività che le riveste.

La revisione proposta da Barberi, benché accettabile a prima vista come procedura utile a ridurre lo scarto tra i dati rilevati e quelli dell’indice, alla luce dell’errore rilevato nella procedura di calcolo appare piuttosto una comoda soluzione volta a porvi rimedio senza renderlo noto: il nuovo indice combinato dava infatti risultati molto vicini a quelli che si sarebbero ottenuti utilizzando in maniera corretta il metodo del concatenamento.

Vi sono peraltro alcuni indizi che confermano in via indiretta l’ipotesi che si è appena avanzata, suggerendo che le ragioni reali della revisione fossero in qualche misura note, almeno negli ambienti scientifici italiani. Ad esempio Libero Lenti, in una pubblicazione didattica del 1939, trattando del metodo del concatenamento proporzionale ne propone l’applicazione proprio al calcolo dell’indice dei salari, presentando un esempio in cui utilizza la procedura corretta per ricalcolare i dati del 1936, senza mai applicare il metodo di perequazione.

Certo non era possibile per i vertici dell’Istat ammettere apertamente uno sbaglio così grossolano, talmente grossolano da far sospettare potesse essere stato commesso in malafede. Sorgono a questo punto altre questioni. All’Istat fino al 1938 non si erano davvero accorti dell’errore nella procedura di calcolo? Sapevano dell’errore ma non potevano correggerlo per non rischiare di mettere apertamente in discussione di fronte al regime l’affidabilità delle statistiche ufficiali? Oppure l’errore stesso era stato mantenuto fino ad allora per volontà dei dirigenti stessi dell’Istat, alcuni dei quali, a partire dal direttore generale Alessandro Molinari, erano notoriamente restii a un’adesione piena al regime?

Come si diceva, soltanto ricerche più approfondite potranno consentire di rispondere a queste domande, e di confermare in via definitiva l’interpretazione che qui si è voluta suggerire.

La morale della favola resta aperta.

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