S/VELO
Il ‘velo di Maya’, un’invenzione dell’Occidente
di Alessandro Grossato
Diversamente da quel che molti ancor oggi credono, la fin troppo nota espressione ‘velo di Maya’ non traduce alcuna frase sànscrita o di altra lingua dell’India, semplicemente perché non è stata mai così formulata in nessun testo indù o buddista. Tanto meno esprime correttamente il concetto, l’idea di Māyā così come essa è stata originariamente concepita dalle menti indiane. Nelle Upanishad esiste semmai il simbolo, ben diverso, della ‘rete’ divina, jāla, nella quale sono impigliati tutti gli esseri viventi, ciascuno legato dal proprio nodo. Der Schleier der Maya è dunque semplicemente un’invenzione, l’invenzione di un celebre filosofo occidentale del XIX secolo, Arthur Schopenhauer, coniata per la prima volta ne Il mondo come volontà e rappresentazione pubblicato a Dresda nel 1819. La sua incredibile e perdurante fortuna, peraltro, da un lato ci aiuta a comprendere la grande differenza che esiste fra il pensiero europeo e quello asiatico, dall’altro ci fornisce l’occasione di restituire il vero significato a questo termine, che è pressoché intraducibile in una lingua occidentale.
Se ci si chiede poi da dove Schopenhauer abbia potuto trarre l’idea di velo quale simbolo dell’illusorietà della realtà che ci circonda, ebbene non occorre andar molto lontano, e certamente non in India, perché questo simbolo appartiene peculiarmente a quel gruppo di religioni che non a caso si autodefiniscono come ri-velate; come se venissero nascoste una seconda volta, dove se il secondo velo corrisponde all’oscurità della rivelazione spirituale in quanto tale, e cioè ineffabilmente incomprensibile, il primo è certamente quello corrispondente alla natura ingannevole del mondo, di quel mondo al cui richiamo si deve resistere e che va infine trasceso.
Senza poterci qui dilungare sugli aspetti etimologici della questione, ricorderemo che la parola sànscrita māyā esprime ad un tempo le idee di produzione, arte, magia, illusione. Dunque di qualcosa o di un insieme che viene prodotto naturalmente, o mediante procedimento artistico o magico, e che comunque mantiene sempre in sé una natura essenzialmente illusoria. Illusoria, ma, si badi bene, non per questo irreale. Per gli indù, come per molti altri asiatici, anche l’arte e la magia infatti conservano a loro modo dei gradi di realtà relativa, se non proprio assoluta. Di questo dunque si tratta, d’una gerarchia di gradi di realtà, tutti comunque l’uno all’altro collegati, dal più basso al più alto e viceversa. L’irrealtà anche di uno solo fra essi porrebbe infatti una cesura irrimediabile fra i diversi gradi dell’essere e dell’esistenza, e questo non può mai darsi secondo l’induismo. Il discorso è leggermente diverso per il buddismo, ma la differenza, anche qui, è più apparente che reale, quasi solo una differenza di stile.
Proprio in riferimento al significato di ‘arte’ che può assumere il termine māyā, non va infine dimenticata l’espressione giapponese Ukiyo, la quale significa esattamente ‘mondo fluttuante’, in riferimento alla dottrina buddista della impermanenza di quella realtà che si può cogliere con i nostri sensi. Oltre ad essere presente in molti capolavori della letteratura giapponese, anche contemporanei, quest’espressione ha infatti prestato il nome alla cosiddetta Ukiyo-e, le ‘Immagini del mondo fluttuante’, una forma d’arte di stampe popolari sviluppatasi in Giappone, in particolare nella città di Edo fra il XVII e il XVIII secolo, che è giustamente assai nota ed apprezzata in Occidente, anche per la frequente, esplicita rappresentazione di scene intensamente erotiche. Ma se il mondo fluttuante è transitorio, dunque impermanente alla stregua di un fiume che scorre, non per questo è anche irreale, né dal punto di vista terreno degli uomini, né da quello sublime del Buddha. Ben lungi dall’essere un impedimento alla visione diretta della realtà suprema e permanente, la māyā può essere, anzi è l’unico tramite per giungere alla Liberazione finale, all’Illuminazione. Perché in fondo Māyā è pur sempre anche il nome della madre naturale del Buddha, dell’Illuminato. E questo non è certamente un caso. Ella morì subito dopo averlo dato alla luce… e non poteva essere diversamente.