S/VELO

Per questa nota sul senso del mostrare e del nascondere nella lunga storia dell’arte, che è stata, a seconda delle civiltà, storia delle figure oppure storia dei segni e della decorazione, vorrei fare riferimento a una recente lettura. Si tratta di Contro le immagini, uno studio di Maria Bettetini sulle diverse forme e i diversi gradi di iconoclastia che ritroviamo presso platonici, islamici, ebrei, cristiani. Nel testo, dopo aver analizzato le oscillazioni storiche e culturali di questo fenomeno nel passato, l’autrice conclude giudicando iconoclasta anche la nostra civiltà contemporanea della finzione, dell’apparenza, del simulacro, nella quale le immagini proliferano ma si autodistruggono, dando luogo a processi di cannibalismo visivo, dunque di oscuramento e nascondimento. Ma al di là degli attuali meccanismi di comunicazione e consumo delle immagini, che pur discendono dalla storia dell’arte e ne sono la forma di estrema massificazione, tutta la storia dell’arte è una fitta e continua metafora del mostrare ma del nascondere, dell’indicare ma dell’alludere, accada questo attraverso l’invenzione radicale oppure attraverso la ripresa e la rivitalizzazione di figure e segni che di volta in volta si sono caricati di sensi diversi, in un processo di crescente frammentazione e complessità.

Non esiste alcun tipo di arte che possa dirsi semplice, né esiste alcun artista che attraverso la propria opera sia orientato a chiarire, svelare, spiegare, per il motivo fondamentale che l’arte non può essere chiara. Il meccanismo stesso del gesto artistico ha radici nella complessità umana più profonda dalla cui lontananza misteriosa emergono, come da un oscuro pozzo, figure, scenari, segni, colori, forme, leggibili solo in apparenza. Anche nel gioco terminale del Dada, nel quale l’immagine parla solo di se stessa e l’oggetto presenta solo se stesso, sottolineando l’assurdo che sta nel gesto stesso del ‘rappresentare’, significati altri si affacciano sempre insistentemente, oltre l’immagine che è solo se stessa e oltre l’oggetto che recita solo se stesso, rendendo ancora più remoto il senso del gesto artistico.

Una grande mostra in corso in questi mesi al Filatoio di Caraglio (Cuneo), a cura di Andrea Busto, direttore del Centro Sperimentale per le Arti Contemporanee, si intitola Il velo ed è dedicata al tema del velo nell’arte, sia esso l’oggetto vero e proprio, oppure diaframma, superficie, quinta, o corpo stesso dell’opera. Il velo, ‘manufatto ambiguo e sfuggente’, accompagna l’uomo antico e contemporaneo dalla vita alla morte: «Le fasce di un neonato sono simile alle bende di un defunto, il velo di una sposa se tinto di nero rimanda al lutto, il pudore si avvolge nel bianco mentre un velo nero è metafora di sensualità ed erotismo», scrive il curatore.

La mostra compie dunque un attraversamento ed ‘espone’ opere d’arte che si fondano sul fascinoso tema del velo tra occidente e oriente. Ma il suo valore più alto è certamente quello di porsi come ‘presentazione’ della metafora dell’arte stessa, che sempre mostra e in realtà mai svela, procede per meccanismi di reticenze, omissioni, slittamenti di significato talvolta sconosciuti all’artista stesso. Il dipinto per il pittore, la materia tridimensionale per lo scultore, i materiali ready made che costituiscono le installazioni, le registrazioni meccaniche della fotografia e del video, sono veli essi stessi, fisici o virtuali, dietro ai quali l’opera si cela e dai quali il significato affiora soltanto, come se il suo destino, la sua altezza, forse la sua condanna, fosse quello di stare, sempre, ‘dietro’. Nell’opera d’arte si ripropone sempre la condizione che Magritte indica in Ceci n’est pas un pipe: l’oggetto non è l’oggetto ma la sua immagine, ma non sappiamo, infine, che cosa sia l’immagine.

multiverso

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