S/VELO

In Italia, oggi, pochissimi malati conoscono in modo esplicito, attraverso le espressioni verbali dei loro curanti e non solo dai molteplici segnali del contesto di cura, di essere in una condizione terminale: tra i malati oncologici se ne contano solo uno su otto. I medici ritengono, a grande maggioranza, che sia inappropriata una comunicazione esplicita al paziente sulla inguaribilità della sua malattia, mentre è raro che ritengano inappropriato informarne i parenti senza il permesso del paziente stesso. In Europa la situazione è molto diversa, per certi aspetti ribaltata. In Olanda poi, dove modalità e tempi del morire possono essere decisi dalla persona che soffre in modo insopportabile e irreversibile, non solo la inguaribilità di una malattia, ma anche l’aspettativa di vita è oggetto frequente di comunicazione aperta al malato.

Per anni anche da noi si è dibattuto su, e combattuto per, la obbligatorietà del consenso informato per ogni atto medico. Lo scontro con un contesto orientato in modo opposto è stato tale che questa strada di rinnovamento e apertura ha conosciuto più fallimenti (il proliferare di moduli di consenso intesi per proteggere i medici) che successi. Di fronte a queste deviazioni si torna sempre più spesso a riflettere su come l’arte della guarigione richieda tutte le potenzialità del rapporto di fiducia con il curante e su come l’informazione sia efficace solo all’interno di tale rapporto.

Ma di fronte alla terminalità emergono anche altre considerazioni, e più ci si immerge in questo tipo di situazioni più si comprende che esse possiedono una ambiguità intrinseca e che vanno affrontate con la disponibilità a contraddirsi per poter seguire nel miglior modo possibile i percorsi interiori di chi muore, percorsi a volte bruscamente interrotti, intermittenti, ambigui. Non è solo, come nel resto della pratica medica, un problema di chi conta di più, di chi alla fine decide, ma piuttosto di imparare a costruire relazioni di cura più paritarie.

Parte del problema della verità nel rapporto col malato terminale, della verità intesa come problema e non invece come risorsa, sta nelle difficoltà emotive dei medici, nei loro imbarazzi, nel loro non sapere, nel sentimento di avere fallito. L’Unità operativa di Psicologia dell’Istituto Tumori di Milano, rispondendo a questi disagi ormai ben documentati, ha aperto la strada per la costruzione di modelli di intervista che, con la dovuta gradualità, permettano al medico di sondare il proprio assistito sulle sue preferenze intorno alle cure di fine vita. È successo, però, che quando questo tipo di strumento è stato sperimentato in un ambiente di cura ben predisposto e favorevole, come quello delle cure palliative (che generalmente seguono i pazienti solo nel loro ultimo mese di vita), solo in un caso su venti il medico abbia proposto l’intervista. Eppure si trattava di medici palliativisti, i più formati a considerare il morire come parte del vivere e, soprattutto, come oggetto di assistenza medica. Anche loro nell’imbarazzo quindi, anche loro nel convincimento che di certe cose si possa parlare solo finché sono ancora lontane; saldamente previste, magari, ma ancora lontane dal sentire. Sembra quasi che l’ideale sia che noi tutti pensiamo alla nostra morte solo quando stiamo davvero bene, magari al momento di scegliere il medico di famiglia, per dettare le nostre preferenze generali sulle cure di fine vita, sull’utilizzo del nostro corpo dopo il decesso, sui limiti alle cure che riteniamo accettabili o obbligatorie in caso di incoscienza. C’è del paradossale in questo, eppure già risolverebbe alcuni problemi. Ma non quello della verità sulla condizione terminale.

Niente come la rilevazione dei bisogni dei malati ci porta dentro all’ambiguità della richiesta di verità su malattie di non certa guarigione. Otto malati oncologici su dieci affermano di avere bisogno che il medico sia il più sincero possibile su diagnosi e prognosi. Otto su dieci chiedono anche che il medico (lo stesso medico?) maggiormente li rassicuri. Qualcuno penserà che c’è il modo per corrispondere ad entrambe le esigenze, ma è importante non fuggire di fronte alla palese contraddittorietà di tali richieste, contraddittorietà che ancor più caratterizza l’esperienza clinica col malato in condizione terminale. In questo caso poi numerosi sono gli studi che dimostrano la veloce variabilità dei desideri, anche di quello di morire, il condizionamento degli eventi estremi, delle varie crisi di organo che precipitano sempre più il malato e la sua rete di assistenza nella condizione di terminalità e cambiano il senso delle cure, fino a far preferire la qualità sulla durata della vita rimasta, ma anche quello delle fasi intermedie di recupero e di raggiungimento di nuovi equilibri cui ci si àncora. A ciascun momento la sua verità: la turbolenza di quello che accade alza e abbassa di continuo il velo su ciò che si avvicina. Ed anche, a ciascun rapporto la sua verità: è esperienza clinica comune che lo stesso paziente usi linguaggi diversi, e addirittura sia in convinzioni diverse, con le diverse persone che si avvicendano intorno a lui. Non è detto che il medico sia la figura scelta per trattare un tema tanto intimo come la verità sulla propria morte. Può essere un infermiere, un amico, un familiare, una persona amata.

La biografia del malato, la comunicazione aperta, l’opzione per la relazione possono essere punti di riferimento per il clinico – ma anche per il resto della rete di supporto e cura – per decidere una condotta. Si cerca di non esporre alla comunicazione esplicita di terminalità chi non ha dato segno fino a quel momento di volersi affrancare dal ‘si’ impersonale, chi ha realizzato negli anni la rinuncia all’apertura verso il proprio destino, verso una consapevolezza e un decidere in prima persona, preferendo perlopiù il conformismo del ‘si’ dice, ‘si’ fa, ‘si’ muore. Ne sarà invece esposto chi ha dato indicazioni di una tendenza contraria se non darà segnali di rifiuto (come nell’idea dell’‘autopaternalismo’ di Augusto Viano: se nulla più vale decidere, anche se ho sempre voluto essere la guida di me stesso, ora posso decidere di farmi guidare e le informazioni sulla terminalità diventano meno essenziali di quello che la mia biografia lasciava prevedere). Comunque, l’informazione sarà aperta, realizzata al congiuntivo, cioè capace di sopportare diversi scenari, e affidata alla metafora prima che alle statistiche (che comunque per alcuni possono giocare il ruolo comunicativo della metafora). La delicatezza del sentire l’angoscia della terminalità di cui si sta trattando è presupposto a questo tipo di comunicazione, senz’altro poco standardizzabile. Se proprio di verità deve preoccuparsi chi sta vicino ad una persona che affronta la propria morte, la verità in senso biblico, cioè la verità della relazione stabile, della fedeltà nei diversi accadimenti, può essere un modello più capace di leggere le situazioni e il loro evolvere che non l’idea greca dello svelamento. Anche perché lo svelamento sul proprio morire è un passaggio personale, esistenziale, in cui nessuno può sostituirsi a un altro.

Ma cosa dice il corpo in tutto questo? Non ci penserà il corpo malato ad informare di quello che trattiamo con tanta reticenza? In parte è vero, ma qui si apre di nuovo la finestra sulla situazione paradossale che andiamo creando man mano che la morte si medicalizza. Proprio l’intervento della medicina palliativa – che sta definendo una nuova naturalità del morire di contro a quella tutt’altro che perfetta con la quale siamo usciti dalla evoluzione (che probabilmente del modo di morire non si è presa affatto cura perché non le interessava) – crea una capacità di dissimulazione del corpo, cancellando il dolore e altri sintomi, per ora con alterno successo (ad esempio, la grande fatica del morente è sempre lì, è ancora un segnale percepibile). Fino al punto di farci diventare un po’ spettatori della nostra propria morte, grazie alle condizioni fisiche meglio conservate. Facciamo ancora fatica ad abituarci a queste nuove situazioni, a volte estreme (nutrizione artificiale, ventilazione artificiale, dialisi), che porteranno inevitabilmente con sé il problema di aggiungere alla consapevolezza, attuale o previa, di terminalità la domanda su quando porre fine alla stessa.

Se la verità sulla condizione di fine vita è un passaggio non banale, se è una apertura sulla responsabilità per l’esistenza propria e di altri, non meraviglia che parlarne, sia nella pratica col singolo malato sia in una riflessione più teorica, porti a un pensiero dialettico, senza però sintesi possibili; porti cioè a riconoscere e sopportare, a soffrire, ambiguità e contraddizioni: in tutti, in chi sta morendo e in chi gli sta vicino; e più si regge questa mancanza di definitività del discorso, più è probabile che ci si avvicini a capire di cosa davvero si sta parlando.

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