S/VELO

Da quanto tempo la comunicazione e la diffusione del sapere, la pubblica discussione delle teorie, la luce gettata sulle ‘ragioni’ e sulle procedure seguite sono avvertite come valori irrinunciabili, costitutivi di ciò che chiamiamo civiltà? Alla comunicazione come valore, all’immagine del sapere e della filosofia come dialogo, disputa, discussione si è sempre contrapposta – fino dalle origini della civiltà europea – una differente immagine del sapere: come iniziazione, come rivelazione, come un essere vicino agli dèi, come un segreto, come possesso di un patrimonio al quale solo pochi possono attingere. Contrapponendo la chiarezza al sapere velato, la schiettezza all’ambiguità, la divulgazione al segreto si tende a dimenticare che la contrapposizione è molto antica e che essa tende continuamente a riemergere entro la cultura.

Socrate era quasi brutto, aveva il naso camuso, vestiva come i suoi concittadini, si aggirava per le piazze attaccando discorso con amici e passanti, ponendo domande comprensibili e apparentemente banali, che affrontavano questioni interessanti per tutti e per ciascuno. Empedocle prometteva la sconfitta della vecchiaia e il dominio sulle tempeste, vestiva di porpora, e i suoi discepoli sacrificarono a lui come a un dio, dopo che era morto nel fulgore di una luce celeste.

Questa contrapposizione è ancora in mezzo a noi. Nello scorso secolo Bertrand Russell credeva che la filosofia potesse anche aiutare le persone a vivere meglio, scrisse raffinate opere di logica e di filosofia di ardua lettura e anche una montagna di testi che si rivolgevano in modo chiaro e diretto ai suoi contemporanei non-filosofi. Questi libri cercavano di cambiare i modi di pensare e di vivere non dei filosofi e dei professori universitari, ma delle donne e degli uomini del suo tempo: quelli che si arrabattano nella quotidianità e che tuttavia, di tanto in tanto, sono costretti a scelte decisive, a decidere (per esempio) di continuare a combattere anche da soli, dopo che Hitler ha conquistato l’Europa. Martin Heidegger, in quello stesso secolo, riteneva invece che la filosofia non avesse nulla a che fare con la banalità del quotidiano; teorizzava una differenza di essenza tra coloro che davvero pensano e coloro che restano per sempre confinati nel mondo della chiacchiera. Dato che a suo avviso, come ribadì più volte, si può veramente pensare solo in tedesco e in greco, il numero dei pensatori possibili (vuoi del suo presente, vuoi del passato e futuro) è, dal suo punto di vista, drasticamente ristretto.

C’è un passo del Vangelo di Matteo (7, 6) nel quale Gesù afferma: «Nolite dare sanctum canibus neque mittatis margaritas vestras ante porcos» (Non date ai cani ciò che è sacro e non gettate davanti ai porci le vostre perle). Per molti secoli e da molti autori questo testo è stato letto come se significasse: ciò che è prezioso non è per tutti, la verità va mantenuta segreta al volgo, la sua diffusione è pericolosa. E anche: ci sono uomini veri e ci sono uomini simili a porci che hanno solo l’aspetto e la figura di uomini.

I Secreta secretorum (che venivano attribuiti ad Aristotele) ebbero nel Medioevo larga circolazione. In forma di lettera, Aristotele rivela al suo discepolo Alessandro il Grande i segreti riservati ai più intimi fra gli scolari. Di questo testo, che è stato qualificato ‘il libro più popolare del Medioevo’, sono stati identificati nelle biblioteche europee più di 500 manoscritti. La letteratura sui segreti resta estranea al mondo delle grandi università medievali, ma circola largamente anche presso i grandi esponenti della nuova cultura. Alla fine del secolo XIII Ruggero Bacone teorizza una scientia experimentalis che è per due terzi ermetica e non trasmissibile al volgo dei profani: «I sapienti hanno omesso questi argomenti dai loro scritti o li hanno velati in un linguaggio figurativo […]. Come hanno insegnato Aristotele nel suo libro sui segreti e il suo maestro Socrate, i segreti delle scienze non sono scritti su pelli di capra o di pecora in modo da poter essere accessibili alle moltitudini».

La distinzione, che ha origini gnostiche e averroistiche, fra due tipi di esseri umani – la folla dei semplici e degli ignoranti e i pochi eletti che sono in grado di cogliere la verità celata sotto la lettera e i simboli e che sono iniziati ai sacri misteri – è saldamente legata alla visione del mondo e della storia che fu propria dell’ermetismo. La ritroviamo chiaramente espressa nei quattordici trattati del Corpus hermeticum, risalenti al II secolo dopo Cristo, che venivano attribuiti ai più antichi egiziani e furono tradotti da Marsilio Ficino fra il 1463 e il 1464.

Il linguaggio dell’alchimia è strutturalmente e non accidentalmente pieno di slittamenti semantici, di metafore, analogie, allusioni. Gli alchimisti non parlano dell’oro concreto e dello zolfo concreto. L’oggetto non è mai semplicemente se stesso; è anche segno di altro. Tutti i cultori dell’Arte, scrive Bono da Ferrara, «si intendono reciprocamente come se parlassero una sola lingua che è incomprensibile a tutti gli altri». La distinzione fra homo animalis e homo spiritualis, la separazione fra i semplici e i dotti si converte nell’identificazione degli scopi del sapere con la salvezza e la perfezione individuali. La scienza coincide con la purificazione dell’anima, è un mezzo per sfuggire al destino terreno. La conoscenza intuitiva è superiore a quella razionale: l’intelligenza occulta delle cose si identifica con la liberazione dal male. Scrive Cornelio Agrippa: «Solo per voi, figli della dottrina e della sapienza abbiamo scritto quest’opera. Scrutate il libro, raccogliete il sapere che abbiamo disperso in più luoghi. Ciò che abbiamo occultato in un luogo lo abbiamo manifestato in un altro […]. Non abbiamo scritto che per voi, che avete lo spirito puro, la cui mente è casta e pudica, la cui fede illibata teme e riverisce Iddio […]. Voi solo troverete la dottrina che solo a voi abbiamo riservato».

Il tema della segretezza si affaccia nelle prime pagine del Picatrix (che è il più famoso dei testi ermetici tradotti da Marsilio Ficino) e ricompare di continuo. La magia fu celata dai filosofi ed essi la velarono accuratamente parlando con parole segrete. Lo fecero per il bene del genere umano, perché se la scienza fosse aperta a tutti, l’universo ne verrebbe confuso. La scienza si divide in due parti di cui l’una è manifesta, l’altra nascosta. La parte nascosta è profonda: le parole che si riferiscono all’ordine del mondo sono le stesse che Adamo ricevette da Dio e possono essere intese solo da pochissimi.

Questo «arcano», scrive Paracelso in un testo, fu già considerato dagli antichi Padri fra le cose occulte affinché non pervenisse fra le mani degli uomini empi. Vi scongiuriamo perché, imitando quei Padri, «vogliate trattare e conservare in segreto questo divino mistero». Il mercurio sublimato – afferma in uno scritto del 1584 – diviene oro, argento, rame, ferro, appare fusibile come la cera, si liquefa al sole come la neve e ritorna infine al suo stato primitivo. Ciò era sconosciuto sia ad Arnaldo da Villanova sia allo stesso Aristotele. Si tratta di un segreto che è necessario tener ben celato e che non va affidato a coloro che ne sono indegni: «Un’oca preferirà una rapa ad una gemma; perciò il volgo non è degno di conoscere questo segreto e Dio ha espressamente vietato di dare perle ai porci». Abbiamo posto davanti agli occhi del lettore – scrive Giovambattista Della Porta nella Magia naturalis – pochissimi esempi. Ma questi e ciò che da essi si può ricavare devono essere trattenuti con cuore fidato affinché non si avviliscano giungendo fra le mani degli uomini indotti che appartengono al gregge («ne passim per manus ignari et gregarii hominis pervenientia vilescant»).

I veri sapienti o Sòphoi – scriverà Thomas Norton a metà del Seicento – introducono umbratili figure nei loro scritti «affinché gli asini cui bastano i cardi non bruchino le elettissime lattughe che crescono nel giardino delle Esperidi». Al gregge degli indotti, in pieno Seicento, farà riferimento anche Robert Fludd in una delle sue molte risposte a Keplero che lo aveva accusato di «dilettarsi con enigmi tenebrosi». Tutti i grandi filosofi, Ermete e Apuleio, Pitagora e Salomone e lo stesso Cristo hanno grandemente lodato «il silenzio e l’occultamento della scienza segreta». Giustamente la sapienza celeste «è stata nascosta ai non eletti».

Ciò che colpisce, di fronte al tema della segretezza, non è la varietà, ma l’immutabilità delle formule. In scritti composti in epoche diverse ritornano gli stessi autori, le stesse citazioni, gli stessi esempi. Platone – troviamo scritto nel testo di Cornelio Agrippa – impedì la divulgazione dei misteri, Pitagora e Porfirio obbligavano al silenzio i loro discepoli, Orfeo esigeva il giuramento del silenzio e così faceva Tertulliano, Teodoto divenne cieco per aver tentato di penetrare i misteri della scrittura ebraica. Indiani, etiopi, persiani, egizi parlarono solo per enigmi. Plotino, Origene e gli altri discepoli di Ammonio giurarono di non rivelare i dogmi del maestro. Cristo stesso adombrò il suo verbo in modo che solo i discepoli più fidi potessero intenderlo e proibì esplicitamente di dare ai cani le carni consacrate e ai porci le perle. «Ogni esperienza di magia aborre il pubblico, vuol essere nascosta, si fortifica nel silenzio e viene distrutta ove venga dichiarata».

Le figure dominanti nel mondo della cultura, in Occidente, sono per un migliaio di anni (vale a dire per i dieci secoli del Medioevo) il santo, il monaco, il medico, il professore universitario, il militare, l’artigiano, il mago. Si affiancano più tardi a queste figure, quelle dell’umanista e del gentiluomo di corte. Fra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento si affacciano ancora figure nuove: il meccanico, il filosofo naturale, il virtuoso o libero sperimentatore. I fini che perseguono questi personaggi nuovi non sono né la santità, né l’immortalità letteraria, né la produzione di miracoli atti a stupire il volgo. Il nuovo sapere scientifico nasce anche sul terreno di un’aspra polemica contro il sapere dei monaci, degli scolastici, degli umanisti e dei professori. Nelle università, scrive John Hall nel 1649 rivolgendosi al Parlamento, non si insegnano né la chimica, né l’anatomia, né le lingue, né gli esperimenti, «è come se i giovani avessero appreso tremila anni fa tutta la scienza redatta in geroglifici e poi avessero sempre dormito come mummie per risvegliarsi solo adesso».

Nell’epoca delle guerre di religione che sconvolsero l’Europa, gli uomini che composero i primi gruppi di coloro che si autodefinivano ‘filosofi naturali’ costruirono, all’interno della più grande società nella quale vivevano, delle società più piccole e tolleranti. «Quando abitavo a Londra – scrive John Wallis nel 1645 – ebbi occasione di far conoscenza di varie persone che si occupavano di ciò che viene ora chiamato filosofia nuova o sperimentale. Dai nostri discorsi avevamo escluso la teologia, il nostro interesse si volgeva alla fisica, all’anatomia, alla geometria, alla statica, al magnetismo, alla chimica, alla meccanica, agli esperimenti naturali».

Chi si associa alle prime accademie intende proteggersi soprattutto da due cose: la politica e l’invadenza delle teologie e delle chiese. I Lincei «hanno per costituzion particolare sbandita da’ loro studii ogni controversia fuor che naturale e matematica, e rimosse le cose politiche». A tutti i membri della società – recita un testo della Royal Society – «si chiede un modo di parlare discreto, nudo, naturale, significati chiari, una preferenza per il linguaggio degli artigiani e dei mercanti piuttosto che per quello dei filosofi».

Ci sono alcuni punti che, a proposito delle Accademie e delle Società scientifiche, vanno sottolineati: l’esistenza di riunioni fra dotti, l’accordo su particolari regole di comportamento per quelle riunioni, l’assunzione di un atteggiamento critico verso le affermazioni di chiunque come norma principale del comportamento. La verità non è legata all’autorevolezza della persona che la enuncia, ma solo alla evidenza degli esperimenti e alla forza delle dimostrazioni.

Va in secondo luogo ricordata la presa di posizione, che è comune a tutti gli esponenti della nuova scienza, in favore del rigore linguistico e del carattere non allusivo della terminologia. Quella presa di posizione coincide con il rifiuto di ogni distinzione di principio fra i semplici e i dotti, si manifesta come una sorta di elogio della intelligenza normale. Le teorie devono essere integralmente comunicabili e gli esperimenti continuamente ripetibili. Scrive William Gilbert: «Impieghiamo talvolta parole nuove. Ma non, come fanno gli alchimisti, per velare le cose ma perché le cose nascoste risultino appieno comprensibili». È appena il caso di richiamare il celebre inizio del Discorso sul metodo di Cartesio ove si afferma che il buonsenso «è la cosa del mondo meglio ripartita». La facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso (in ciò consiste la ragione) «è uguale per natura in tutti gli uomini». E anche: la ragione che ci distingue dagli animali «è tutta intera in ciascuno». Nel De corpore Hobbes insiste sulla necessità di spiegare «i pochi e primi elementi della filosofia», che sono i «semi» dai quali potrà a poco a poco svilupparsi la filosofia vera. Quei semi o primi fondamenti della scienza gli si configuravano come privi di speciosità e di ornamenti, come «umili, aridi e quasi deformi». La filosofia, aveva detto all’«amico lettore», è «figlia della tua mente», è «ancora informe in te stesso». Il metodo che Hobbes ha seguito, che egli teorizza e che conduce alla scienza e alla verità è costruito per tutti gli uomini: «Se ti piacerà – scrive nella prefazione al De corpore – potrai usarlo anche tu».

Il metodo della scienza, aveva affermato dal canto suo Francis Bacon, tende a far scomparire le differenze fra gli uomini, ad eguagliare le loro intelligenze. Coloro che si smarriscono seguendo vie straordinarie, scriverà Cartesio, sono meno scusabili di quelli che sbagliano in compagnia di altri. In queste «tenebre della vita», dirà Leibniz, è necessario camminare insieme perché il metodo della scienza è più importante della genialità degli individui e perché il fine della filosofia è il miglioramento non del proprio intelletto ma di quello di tutti gli uomini.

«Perché i seguaci dell’alchimia – si era chiesto Marin Mersenne – non sono disposti a studiare i risultati delle loro scoperte senza più misteri né arcani»? Alla valutazione positiva del coraggio intellettuale manifestato da Galilei nelle sue scoperte astronomiche, era stato associato da Francis Bacon l’elogio della sua onestà intellettuale: «onestamente e in modo perspicuo uomini di tal genere hanno dato conto via via del modo in cui ad essi risulta ogni singolo punto della loro ricerca».

Credo che gli storici (anche gli storici dell’idea di tolleranza) dovrebbero degnare di una qualche considerazione anche il mondo, a loro per intero sconosciuto, della storia della scienza. Dentro quella storia fu infatti teorizzato, assai prima che comparissero i testi di John Locke, che tutti coloro che possono essere qualificati come appartenenti ad una comunità hanno diritto di parola, che è lecito discutere di tutto e che l’inevitabile varietà delle opinioni è un bene da difendere e non un male da estirpare. Nella Storia della Royal Society di Thomas Sprat si trova scritto quanto segue: «Per quanto concerne i membri che devono costituire la Società, è da notare che sono liberamente ammessi uomini di differenti religioni, paesi e professioni […]. Essi professano apertamente di non preparare la fondazione di una filosofia inglese, scozzese, irlandese, papista o protestante, ma quella di una filosofia del genere umano […]. Essi hanno tentato di porre la loro opera in una condizione di perpetuo accrescimento, stabilendo un’inviolabile corrispondenza tra la mano e la mente. Hanno cercato di farne l’impresa non di una stagione o di una fortunata opportunità, ma qualcosa di saldo, durevole, popolare, ininterrotto. Hanno cercato di liberarla dagli artifici, gli umori, le passioni delle sètte, di trasformarla in uno strumento mediante il quale l’umanità possa ottenere il dominio sulle cose e non solo quello sui giudizi degli uomini».

È opportuno ritornare all’inizio. Come vide con chiarezza Ernesto De Martino, la scelta fra pensiero magico e pensiero razionale non è conclusa. Anche dopo la grande scelta storica degli inizi dell’età moderna, il ‘magico’ tende continuamente e inesorabilmente a riaffiorare in alcune forme della vita religiosa, nella manipolazione delle coscienze da parte di innumerevoli ‘guru’, nella mistica del capo carismatico, nell’immagine dello scienziato onnipotente. La magia e la tradizione ermetica (e la visione del mondo e dell’uomo che ad esse è collegata) non sono state cancellate dalla storia ad opera della Rivoluzione scientifica: sopravvivono in forme diverse e a differenti livelli.

Come Sigmund Freud non mancò di sottolineare, ogni volta che si parla di scienza andrebbe tenuto presente il carattere recente di ciò che chiamiamo ‘scienza’. Se è vero (come molti hanno sostenuto) che gli uomini di Neanderthal praticavano forme di magia, le prime pratiche magiche risalgono a circa 50.000 anni fa. Il che vuol dire che se la storia di questi innumerevoli anni venisse rispecchiata in un immaginario libro di 5.000 pagine, la storia della scienza da Euclide ad oggi occuperebbe non più di 250 pagine (da Galileo ad oggi solo 37 pagine). Le altre 4.750 pagine sarebbero tutte piene di ‘storie di magia’.

Quando l’ambiguità e l’enigmaticità del linguaggio diventano essenziali ad una filosofia e la chiarezza linguistica viene accuratamente evitata ed esplicitamente condannata come espressione di semplice buon senso e di superficialità; quando il tema ‘guardare al passato’, l’affermazione di una Riposta Sapienza delle Origini e l’immagine di una Verità che è all’Inizio dei Tempi diventano le grandi idee guida e i motivi centrali di una filosofia; quando infine viene teorizzata una differenza di essenza fra gli eletti e i pneumatici (che possono attingere a quella Sapienza) e coloro che restano per sempre confinati nella temporalità del quotidiano e sono capaci solo di intelletto, ma del tutto incapaci di Pensiero; quando tutto questo avviene contemporaneamente o in una stessa filosofia (come ancora oggi avviene), allora la antica Tradizione Ermetica rivela la sua non spenta presenza, mostra la sua operante persistenza, celebra i suoi tardivi trionfi.

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