S/VELO

Da bambino, si andava d’estate in vacanza in Sardegna. Si era ospiti di parenti, e le visite familiari occupavano gran parte della permanenza: le famiglie erano ampie, a quel tempo, e i legami di parentela si intendevano ‘stretti’ almeno sino al sesto grado.

Un paio di giorni era dedicato alle visite nel paesino del nuorese che era stato abbandonato alcuni decenni prima dai nonni in cerca di fortuna. Al nostro arrivo le zie (cioè più o meno tutte le donne della zona) uscivano dalle loro case per salutarci, ci invitavano a entrare e a ripararci dal sole abbagliante. Offrivano agli adulti bicchierini di malvasia; ai bambini dolcetti e gassosa.

Le donne più anziane – quelle oltre la quarantina – vestivano in genere di nero e avevano il capo coperto; non saprei dire se a causa di lutti familiari o per antiche abitudini.
Dovuto a vedovanza era invece senz’altro il nero indossato dalle donne più giovani. E il tempo trascorso dalla perdita poteva essere in parte intuito dal progressivo diradarsi dei segni esteriori del dolore. Le regole non scritte del controllo sociale consentivano che, col passare degli anni, il rigore dell’abito venisse attenuato; permettendo via via di non indossare calze nere, fazzoletto al capo, maniche lunghe. Credo che più di un lustro fosse necessario per poter inserire qualche nota di colore negli abiti. Molte però allungavano spontaneamente il periodo, a dimostrazione dell’intensità della devozione verso il caro estinto; e non mancava qualcuna che – indossato il lutto in un certo frangente della propria vita – da quel momento non l’aveva più abbandonato. Le giovani vedove restavano per la maggior parte da sole per tutta la vita.

Erano anni, d’altronde, nei quali non erano soltanto i costumi a essere assai diversi da quelli attuali, ma anche le regole del diritto.
Il Codice penale irrogava sanzioni decisamente lievi per chi uccidesse «il coniuge, la figlia o la sorella» ove fosse stato spinto a ciò da motivi d’onore; e ugualmente indulgenti si era – sempre in presenza di causa d’onore – nel caso di infanticidio e aborto.

Il tradimento della donna era sempre un reato (adulterio); quello dell’uomo solo in certi casi (concubinato). Anche lo stupro poteva esser condonato, in caso di «matrimonio riparatore».

Il Codice civile dichiarava il marito «capo della famiglia», e poneva la donna in stato di subordinazione e obbedienza; mentre i figli erano sottoposti alla «patria potestà».

I giudici riconoscevano senza difficoltà un risarcimento in danaro alla donna che si fosse concessa perché ingannata da una falsa promessa di matrimonio: persa l’illibatezza, alla sedotta restavano, infatti, ridotte possibilità di sistemazione matrimoniale.

Ormai la nostra società non è più così, e non lo sono più nemmeno i nostri codici. La nostra legislazione e i nostri costumi sono decisamente cambiati, e in meglio: nel segno della libertà e dell’uguaglianza. Ma non da molto: le regole sopra descritte sono state smantellate tra la metà degli anni ’70 e i primi anni ’80.

Allora non ci farebbe male girare qualche volta lo sguardo all’indietro e ricordare come eravamo, solo l’altro ieri. Ci aiuterebbe a capire le regole e gli usi di altri popoli, con i quali siamo chiamati a confrontarci e a convivere. Ci aiuterebbe a ricordare le difficoltà, gli ostacoli, le resistenze che si sono dovuti superare per giungere ai risultati dei quali siamo giustamente orgogliosi.

Le nostre nonne portavano il velo; tutte lo portavano in chiesa; molte anche fuori. Alcune lo indossavano per pressione sociale; altre perché costrette dai mariti; molte per abitudine o perché sentivano di doverlo fare. Con tutta probabilità, se qualcuno avesse loro vietato di indossarlo, non l’avrebbero mai più abbandonato.

Le nonne di adesso vanno invece a capo scoperto; nessuno impone, né vieta loro un qualsiasi indumento; non indossano più il velo perché questo è il loro sentire, maturato nel corso degli anni, in sintonia con i cambiamenti della società che le circonda. È una libertà conquistata nel corso del tempo, con fatica e pagando anche dei prezzi.

Per molte donne provenienti da altri paesi ciò che indossano è un segno di identità, è un legame con quel poco di ‘casa’ che è loro rimasto una volta sradicate. Per altre il velo è invece il segno di una sottomissione.

E noi, che ci siamo passati meno di una generazione fa, non possiamo che assicurare alle une e alle altre il massimo della libertà.

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