S/VELO

Fra le piccole, accanite battaglie domestiche c’è stata alcuni anni fa quella natalizia fra panettone e pandoro. Conflitto geografico e commerciale (Verona contro l’imperialismo dolciario natalizio milanese), conflitto di gusto, conflitto generazionale dentro le famiglie, come anche a casa mia, tanto che si era e si è obbligati a tenerli in casa entrambi per soddisfare sia gli adulti tradizionalisti amanti di uvetta e canditi, sia i bambini. Miracolo delle tecniche pubblicitarie, il pandoro si è conquistato uno spazio nuovo e largo nell’immaginario del Natale. La leggenda di fondazione attribuisce al pasticciere Domenico Melegatti, nel 1898, il brevetto del dolce a tronco di cono, sagomato a forma di stella a otto punte, su disegno del pittore della ‘veronesità’ Angelo Dall’Oca Bianca. La storia della fortuna industriale del pandoro invece è più recente, e ne fa parte integrante il fatto che il dolce debba essere innevato. Un dato funzionale è stato trasformato in gesto rituale dai forti risvolti simbolici, capace di evocare e creare atmosfera. Lasciato a lungo sulla superficie del dolce e per reazione al burro dell’impasto, lo zucchero diventerebbe umido e grigio, brutto da vedere. Ecco l’idea: inserire nella confezione oltre al pandoro anche una bustina di zucchero a velo, con le istruzioni per l’uso. Attore del cerimoniale, il capofamiglia: apri il sacchetto contenente il pandoro, versi il contenuto della bustina per tre quarti sul dolce, richiudi il sacchetto e agiti in modo che lo zucchero aderisca e si distribuisca bene, togli, versi la polvere restante sulla cima, così da ottenere un gradevole effetto neve.

Non zucchero, dunque, e neppure zucchero semolato; zucchero, invece, di quella consistenza impalpabile che le moderne tecniche di macinazione rendono possibile. A velo e magari vanigliato, perché si sa quanto l’aroma ne guadagni. Da generazioni gli ambulanti di dolciumi usano vaniglia e vanillina per attirare la gente al mercato verso il proprio bancone; l’effetto è garantito: l’aroma di vaniglia è un guinzaglio potente, i nasi restano agganciati, il flusso del branco cambia direzione. Allo stesso modo il velo di zucchero aggancia il Natale. Sotto le feste evoca l’atmosfera alpina delle montagne spolverate di neve che vengono replicate nei presepi (immagini non a caso richiamate dagli spot televisivi, dalle e-card e dalle card-fedeltà di molte ditte di pandoro); evoca l’atmosfera velata e nebbiosa dell’inverno, che invita a chiudersi nel calore di casa; ma evoca atmosfere ancora più raccolte e intime, perché lo zucchero a velo partecipa della consistenza impalpabile, intrigante e seducente delle polveri odorose, dei talchi e delle ciprie. La somiglianza con le polveri sottili che uccidono è neutralizzata.

Veli di seduzione, insomma, che stanno al polo opposto dei veli pesanti che richiudono e nascondono. Veli che arricchiscono di ambiguità i versanti metaforici che hanno amplificato il significato primario e tecnico che ‘velo’ possiede nel lessico dei tessili. Di per sé il termine indica manufatti dall’intreccio rado, trasparente e prezioso, ottenuto (prima delle fibre artificiali) con fili di seta o di cotone e lino della qualità più alta. Tessuti leggeri da arricchire, arricciare, plissettare, ricamare, sovrapporre; non capi di vestiario, ma accessori d’ornamentazione, da mettere in campo nel gioco allusivo delle scoperture, amplificando l’effetto con atmosfere in penombra e con suoni e gesti di danza.

Coinvolgere, sedurre, ingannare. ‘Fare velo’ è anche uno dei fondamentali in molti giochi di squadra, quando si tratta di attirare a sé gli avversari – come l’odore di vaniglia – per sottrarre un compagno alla marcatura stretta e liberarlo per il colpo decisivo. Del resto, i giornali di quest’anno sono tornati più volte sull’interesse che stanno suscitando i veli islamici del vicino e lontano oriente tra gli stilisti: attratti, ancora una volta come già in passato nei riguardi dei corredi quaresimali di tradizione cristiana, dalla scommessa di rendere elegante e seducente (e costoso) un capo di abbigliamento che si direbbe nato per mortificare l’attrazione e il desiderio. Da identitaria, la questione si trasforma in estetico-identitaria: cambia l’atmosfera e i manufatti cambiano natura.

Arnold van Gennep già un secolo fa (I riti di passaggio, 1909), utilizzando un quadro comparativo a larga prospettiva e muovendo dalla tradizione occidentale del ‘prendere il velo’ da parte di vergini consacrate a Dio, poteva elencare una grande varietà di ruoli che prevedevano veli provvisori o permanenti e una grande varietà di riti che ne contemplavano l’uso simbolico: riti di separazione e di aggregazione per religiosi, viaggiatori e mercanti; riti di iniziazione e di adozione, pratiche di transizione verso contesti e identità nuove, cerimonie di affiliazione ad associazioni e congregazioni; riti di protezione, purificazione, consacrazione, adozione, intronizzazione, fusione; riti di esibizione o di nascondimento; riti della prima, dell’unica o dell’ultima volta.

Alla molteplicità di funzioni e significati corrisponde la varietà delle associazioni e delle omologie. Mettersi sotto lo stesso velo vale come sedere sulla stessa sedia, bere dallo stesso contenitore, scambiarsi un boccone di cibo, bagnarsi con la stessa acqua, legarsi con il medesimo laccio, allattare simbolicamente dallo stesso seno, pronunciare insieme l’identica formula. Mettersi o togliersi il velo equivale a stringere o a sciogliere la pettinatura, lasciar crescere o radersi la barba, mutare nome, farsi una tonsura, cambiarsi d’abito, cingere una cintura, infilarsi un anello, superare un confine, togliersi o infilarsi le calzature, percorrere lo stesso cammino. Sovrapporre a un oggetto il velo, occulta o esalta; mettendosi sotto un velo si opera la ‘transitio ad sacra’, ci si dichiara morti alla condizione precedente, ma anche ci si sposa, si esprime nascondimento oppure autorevolezza; ponendosi sotto un lenzuolo – come la povera Julia Carta, processata per questo dall’inquisitore Gamarra nel Real Castello di Sassari, il 20 maggio del 1597 – ci si può confessare direttamente a Dio, evitando i rischi che comporta lo svelare le proprie cose a un prete.

Di fronte alla ricchezza di significati e di tradizioni associata a un rettangolo di tessuto dalle mille fogge, connesso al capo, ai capelli e al volto (e perciò all’anima, allo spirito, alla coscienza, all’identità, alla soggettività; espressione di status, ma anche di stati d’animo e di atteggiamenti interiori), e di fronte all’ambivalenza del velo, capace di esprimere sia sottomissione che autorità, colpisce che da alcuni anni l’attenzione si incanali, impoverendosi, sulla sola questione del velo islamico femminile, assunto anch’esso in termini semplificati e approssimativi. Il problema, allora, non è il velo delle donne islamiche (quali?), ma la riduzione occidentale delle donne musulmane a solo problema. Lo esprime con chiarezza Elif Shafak, scrittrice turca, stanca di sentirsi riproporre in giro per il mondo le stesse domande sullo stato di oppressione delle donne del suo paese, alle prese con il ‘ritorno del velo’: «Perché quasi sempre, quando si parla di donne musulmane, le si associa a dei problemi? Le donne musulmane non hanno momenti di gioia? Non provano mai piacere, felicità, soddisfazione? Come mai le donne musulmane sono sempre ritratte come creature oppresse, obbedienti, ignoranti, incapaci di descriversi da sole e bisognose che siano altri a farlo? Le donne musulmane hanno bisogno di essere salvate? Da chi, da voi?».

Contro le riduzioni e le semplificazioni, buon esercizio potrebbe essere un ‘ritorno al velo’ che recuperi, in tutte le culture e anche nella nostra, almeno un poco della straordinaria ricchezza di significati di cui è imbevuto questo pezzo di stoffa, capace di esprimere e di occultare, di schermare o di esaltare, ma sempre in ogni caso di lasciar trasparire.

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