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Roberta Corbellini intervista Teresa Numerico

Alla fine della pandemia abbiamo visto crescere il dibattito pubblico sul mondo globalizzato e su come farlo ripartire dopo due anni di crisi. Esperti e osservatori politici, attraverso i media, hanno presentato pregi e difetti della macchina globale, prospettando come traguardo possibile una nuova cooperazione fra tecno-scienze, istituzioni e società per risolvere il cortocircuito creatosi tra bisogni sociali e strategie di sviluppo. Si è assistito in tal modo al consolidarsi di una macro-narrazione che, da un lato, ha chiesto di usare cautele verso monopoli tecnologici e interessi del neoliberismo ma, dall’altro, ha confermato il modello globale e il suo principale strumento tecnologico (app, big data, intelligenze artificiali…), riconoscendo all'uno la pervasività nei contesti sociali e all'altro l’innegabile ruolo di agente di convivenza sociale.

Nel suo ultimo volume big data e algoritmi lei analizza vari aspetti delle tecnologie di ultima generazione anzitutto come una questione di cultura politica. L’importanza di essere consapevoli dei rischi associati a questa fase di transizione è ben esemplificata in un equivoco molto diffuso, spiegato nel libro: si tratta dell’idea erronea che i dati governino i problemi e che la quantità di dati raccolti dal caos e organizzati automaticamente possa fornire un quadro affidabile e rappresentativo della realtà. Iniziamo da questi concetti?

In passato, quando i dati venivano raccolti, esisteva una metodologia esplicita e contestuale che garantiva una rappresentazione attendibile dei fenomeni e permetteva di risalire al modo in cui erano stati raccolti. Ecco, questa pratica non è più valida per i big data che, proprio in funzione della loro grande quantità, non permettono di definire precisamente le fonti originarie e le modalità di estrazione. Prevale l’idea che la vasta quantità di dati possa sostituire la necessità di esaminarli e comprendere come siano stati raccolti. Questa prospettiva, nota come ‘ideologia del data deluge’ o ‘diluvio di dati’, è stata proposta da Chris Anderson nel 2008 e renderebbe superflue le spiegazioni, poiché l’analisi complessa dei dati dovrebbe garantire già l’effetto desiderato, ossia la capacità di previsione, utile per adottare posizioni strategiche e manipolare le scelte per adattarle alle tendenze che più ci aggradano. Evidentemente questa trasformazione digitale ha implicazioni sia epistemologiche che politiche. Chi dispone dell’infrastruttura e delle risorse industriali necessarie per l’estrazione dei dati gode pure di una posizione privilegiata nel governare i fenomeni e detiene a tutti gli effetti un monopolio dell’interpretazione. Una dinamica difficilmente contestabile, poiché per raccogliere tale immensa quantità di informazioni servono costose strumentazioni e attori che cooperano tra loro, evitando la concorrenza con altri mezzi di rappresentazione e interpretazione dei fenomeni sociali. Questo controllo da parte di detentori privilegiati porta con sé una visione del potere e del sapere che trascende le autorità tradizionali e che è, in un certo senso, un prodotto della globalizzazione. Non a caso, il web è emerso proprio nel 1989, all’epoca della caduta del Muro di Berlino. Anche se questa connessione potrebbe sembrare simbolica, è interessante notare come l’abbattimento della visione bipolare del mondo abbia aperto la strada all’idea di unificare e universalizzare ogni sguardo sulla realtà.

Questo scenario mi fa pensare a una sintesi efficace proposta da Donna Haraway, filosofa femminista e fondatrice della teoria cyborg, nel momento in cui esplicita una profonda connessione tra società globale e tecnologie: una sola cultura, un circuito integrato dove individui, macchine, neoliberismo e politica si ritrovano in un’unica matrice discorsiva. Cosa pensa di questa visione e quali conseguenze si prospetterebbero per i sistemi di potere e l’effettiva tenuta delle democrazie?

La visione unificata del mondo ha un potenziale enorme, ma è anche pericolosa in quanto si estende oltre i sistemi di potere e di sapere tradizionali. È necessaria una riflessione approfondita, poiché da questo punto non c’è via di ritorno. Attraverso una ricognizione storica o un’analisi del presente siamo in grado di vedere dove sono posizionati i sistemi di potere che conosciamo e riconosciamo e che fanno parte del nostro mondo, un mondo che vorrebbe essere democratico. Siamo capaci quindi di valutare cosa questi sistemi di potere possono comprendere e cosa lasciano fuori. Tuttavia, quando abbiamo a che fare con i big data, la percezione si confonde, viene meno: ci troviamo di fronte a un’‘agenzia di potere’ il cui posizionamento è più difficile da individuare, risulta più vago e privo di una discrezionalità umana. In proposito, Haraway ritiene infatti che sia necessario affrontare il problema e vivere all’interno di un nuovo orizzonte: una prospettiva tecno-umana, postumana o trans-umana in cui le persone non sono assenti, ma profondamente interconnesse con attori non umani, partecipanti anch’essi all’azione. Dobbiamo cioè convivere con questo sistema, poiché non siamo abbastanza forti per abbatterlo e dobbiamo cercare con esso una forma di kinship, di ‘parentela’, come la definisce: una convivenza tra esseri artificiali e biologici, con l’obiettivo di preservare le condizioni di vita del pianeta. C’è ancora una possibilità di regolare i sistemi di potere e di governo che conosciamo, resta però da vedere se ci saranno le risorse e la volontà per farlo e come sarà progettata tale regolamentazione, poiché ci sono molte anomalie del vecchio mondo che potrebbero essere trasportate nell’orizzonte futuro.

Queste osservazioni implicano una ridefinizione del concetto di responsabilità poiché la transizione con cui ci stiamo confrontando può avere un impatto significativo sulle strutture democratiche in cui viviamo. Ultimamente lei si è concentrata su come i poteri che raccolgono e gestiscono i big data utilizzano infrastrutture proprie, oltrepassando in qualche modo i tradizionali sistemi di giurisdizione statale e spingendosi ben al di là di ogni confine fisico o politico…

Questo aspetto, infatti, è di estrema rilevanza. Siamo abituati a un sistema di potere che si basa sulla sicurezza dei confini, su una territorialità chiaramente definita. Un modello evidente nelle guerre territoriali, in cui le dispute si concentrano sulla delimitazione degli spazi, facendo collidere la volontà di espansione degli uni con la volontà di contenimento degli altri. Ma non solo. Pensiamo, ad esempio, alla questione dell’immigrazione e alla sfida rappresentata dall’incontrollabilità e permeabilità di questi confini. Il concetto di ‘confine’ sembrerebbe essere costitutivo per definire l’identità degli Stati. Un altro elemento chiave che ci aiuta a contraddistinguere lo Stato, almeno da un punto di vista strettamente giurisdizionale, è quello che lo identifica come l’unico detentore legittimo della violenza. Lo Stato detiene il monopolio nell’uso della forza, seppur regolamentato: ecco perché la polizia può usare il manganello, il manifestante no. Questi due aspetti sono molto concreti e sono entrambi legati alla difesa del territorio.

Perciò quale rapporto vige fra le infrastrutture proprie del mondo globalizzato, in particolare quelle relative al digitale, e la loro adeguata regolamentazione?

È ormai evidente l’inadeguatezza degli attuali sistemi giurisdizionali costruiti attorno al principio territoriale e dei codici extraterritoriali esistenti nel regolamentare il quadro generale. Serve una nuova giurisdizione internazionale, in quanto le infrastrutture tecniche e culturali della globalizzazione operano a distanza e sono lontane dai luoghi in cui producono le loro conseguenze. La logistica è stata uno dei primi settori che ha fatto emergere problemi e limiti delle giurisdizioni nazionali in vigore; penso soprattutto alle controversie sui diritti dei lavoratori di note aziende di distribuzione statunitensi arrivate alla Corte europea. Il punto è che il sistema digitale, cuore e motore della globalizzazione, pone sfide che richiedono procedure innovative per mandare ad effetto i provvedimenti amministrativi. Prendiamo l’infrastruttura delle compagnie che concentrano, conservano e utilizzano i big data: sono apparati capillari, pervasivi e impattanti sui territori. Dall’approvvigionamento di minerali essenziali per la costruzione di processori e batterie al litio ai data center, si tratta sempre di impianti industriali complessi che occupano aree scelte sulla base di una precisa configurazione idrogeologica. L’approvvigionamento idrico, ad esempio, è essenziale per i processi di raffreddamento, ma ci sono altri componenti di questo sistema esteso su cui non riflettiamo abbastanza quando ci interessiamo di produzione del digitale. Raramente, infatti, viene chiesto di fare previsioni sul costo energetico e sulle materie prime necessarie al mantenimento delle infrastrutture, eppure si tratta di uno dei nodi cruciali della rivoluzione digitale. Sono queste le interconnessioni che ci richiedono strumenti adeguati, tesi a definire modalità e limiti di autorizzazione.
Se accettiamo l’analisi di Saskia Sassen sulla natura espulsiva e predatoria del capitale, specialmente dopo gli anni Ottanta, vediamo chiaramente come stanno le cose. Attraverso una serie di infrastrutture logistiche e digitali, il capitale ha notevolmente rafforzato il proprio potere internazionale e si è liberato da molti vincoli. Quindi la regolamentazione può costituire l’oggetto di una contesa internazionale di natura principalmente politica e non è chiaro se coloro che stanno perdendo terreno, penso agli Stati nazionali o a certe organizzazioni sovranazionali come l’Unione Europea, siano pienamente consapevoli della situazione.

Tale questione collima con una richiesta sempre più precisa che proviene dalla società civile e da chi sta monitorando le disuguaglianze prodotte dai sistemi digitali, una richiesta che riguarda la ridefinizione di bene comune. Quali priorità, oltre a quelle appena indicate, richiedono una negoziazione che tenga conto del sociale prima che degli interessi dei monopoli tecnologici?

Pur non essendo una giurista, posso suggerire un possibile approccio. Ad esempio, considerando il concetto di dominio pubblico si potrebbe affermare che i dati personali dei cittadini sono beni comuni e appartengono a un patrimonio condiviso. Pertanto, anche se qualcuno può raccoglierli, ciò non gli dà il diritto di usarli per previsioni che influenzano le nostre scelte o per indirizzare decisioni. Potremmo obbligare le piattaforme a non vendere dati che riguardano cittadini italiani o europei a terze parti per scopi commerciali; potremmo stabilire condizioni molto restrittive per l’utilizzo di registrazioni finalizzate al riconoscimento facciale; potremmo pretendere un risarcimento se ci troviamo in una situazione in cui i sistemi digitali sfruttano le nostre debolezze, rintracciate online, per manipolare il nostro comportamento. Il Digital Services Act (DSA) europeo, ad esempio, stabilisce che i dati dei bambini non possono essere utilizzati per il profiling, allora perché non estendere questa restrizione agli adulti soprattutto se si trovano in una condizione di vulnerabilità? Sono questioni che vanno oltre la privacy perché attengono a un principio fondamentale di libertà inteso in senso ampio come valore condiviso. Attualmente, però, il business digitale si basa prevalentemente su pratiche di profilazione dalle quali provengono notevoli profitti ed è perciò difficile far valere una legislazione del genere. Eppure questo è il momento di intervenire, poiché all’orizzonte già si profila un modello di business ancora più anonimo e vorace, basato sull’addestramento intensivo di IA generativa.

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