TRANS-
Giovanni Ziliani. Immagini come flussi
di Roberta Valtorta
La ‘morbidezza’ del tempo, il suo stratificarsi, è al centro di una delle forme più intensamente espressive della fotografia: la posa lunga. Grazie a questa scelta, che non è solo tecnica ma anche filosofica, accade che in presenza di soggetti in movimento si generi ciò che conosciamo come ‘mosso’ fotografico, descrivibile come la resa malriuscita dell’istante (così era per la fotografia delle origini), non correttamente fissato dalla macchina. È il frutto della mancata coincidenza tra il tempo di posa e il movimento presente nella scena: due tempi tra loro diversi che producono qualcosa di ‘anomalo’ in grado di pregiudicare la somiglianza, ossia il fondamento teorico della fotografia. È noto come Henri Bergson avversasse la rappresentazione scientifica del tempo e del movimento, che giudicava meccanicistica e capace di riprodurre solo semplificazioni strumentali a un’analisi schematica dei fenomeni, misconoscendo l’importanza della durata in essi presente. È ciò che fa, invece, la fotografia quando ‘cattura’ e parcellizza il tempo in istanti, restituendo una visione basata su una concezione del moto come susseguirsi di elementi singoli e tra loro divisi, e non offrendo un approccio più complesso che sappia suggerire l’esperienza del divenire (quello che nei primi anni Dieci del Novecento, in clima futurista, sperimentarono i fratelli Bragaglia, con prove fotografiche definite ‘fotodinamiche’). Come afferma Bergson, infatti, nella transizione c’è di più che una serie di stati e nel movimento c’è di più che una serie di posizioni. Il tempo, non più sezionato nei suoi successivi momenti, si manifesta dunque nel suo stratificarsi.
Questo di più è profondamente presente nel lavoro che negli anni Ottanta del secolo scorso (ma anche oltre e fino a oggi) sviluppa Giovanni Ziliani, artista e studioso del problema della rappresentazione del tempo in fotografia. Egli utilizza la posa lunga (talvolta unendola alla sequenza) in una serie molto ampia di riprese di figure in movimento nella metropolitana di Milano, luogo della contemporaneità in cui l’individuo transita anonimo, generico, privo di identità, una condizione alla quale il mosso dà piena evidenza visiva. Ziliani dimostra che non uno ma innumerevoli attimi (non più separati tra loro ma percepiti nel loro accumularsi e fuggire via senza intervalli) possono essere registrati dall’obbiettivo fotografico se questo viene tenuto aperto molto a lungo. La ripresa meccanica, dilatandosi sul tempo, non solo coglie la durata ma distrugge anche la materialità dei corpi rappresentati, mettendone in plastica evidenza il carattere precario e transitorio. A tale proposito, in uno dei suoi numerosi scritti, l’artista osserva che vi è in questo processo una contraddizione: il massimo della scrupolosità (cercare di registrare tutto il tempo, di considerare gli istanti nel loro continuo e indistinguibile susseguirsi) genera qualcosa di molto complesso e quasi indecifrabile, cioè immagini-fantasma, forme effimere e imprecise, flussi inafferrabili, onde trasparenti e fragilissime, come l’esistenza stessa.