TRANS-

Molte e molti di noi, entrando in un seggio elettorale, avranno visto la scritta che campeggia davanti al banco degli scrutatori: MASCHI e FEMMINE, o UOMINI e DONNE. E senza pensarci troppo si saranno adeguati all’indicazione, anche se davanti al banco che non li riguardava non c’era nessuno. Esigenze di celerità e di razionalità organizzativa, infatti, suggerirebbero di dirigersi verso lo scrutatore libero. Eppure, non è possibile: le liste elettorali sono divise per sesso. Si tratta di una norma organizzativa che risale alle prime elezioni amministrative in cui votarono le donne. Una norma, dunque, che aveva una sua ragion d’essere al momento dell’emanazione: occorreva creare liste elettorali individuando puntualmente tutte le nuove elettrici che avessero compiuto 21 anni. Tuttavia, dopo tanti anni, esauritesi le ragioni alla base di quella disposizione, ci si potrebbe chiedere perché sia ancora in vigore. La risposta non risiede tanto nel fatto che le proposte di legge per la sua abrogazione, pur presentate nelle scorse legislature, non hanno mai visto l’Aula di uno dei due rami del Parlamento. Né nel fatto che il Ministero dell’Interno sia insensibile alle richieste di quanti non si sentono categorizzabili in base al sesso documentato nelle loro carte di identità, adducendo esigenze di carattere organizzativo. La risposta è più semplice: il binarismo sessuale è una regola sociale e culturale che il nostro diritto incorpora.
È una distinzione così radicata nella nostra cultura da inibire una diffusa familiarità (non solo tra i giuristi) con il concetto di genere e da impedire allo stesso tempo il riconoscimento di un diritto all’autodeterminazione di genere. A questa spiegazione di carattere culturale, gli operatori del diritto sogliono aggiungere che distinguere in base al sesso sia interesse della collettività, connesso alla certezza dei rapporti giuridici. A loro dire, ‘etichettare’ le persone in base a un sesso è imprescindibile per il diritto, poiché sul binarismo maschio/femmina si fonda l’organizzazione dell’intera compagine sociale. Una petizione di principio – a dire il vero – sol che si consideri che la preminente funzione del diritto è organizzare la società e non sancire acriticamente qualsiasi regola organizzativa in essa diffusa. Nella fase precedente l’entrata in vigore della legge n. 164/1982 (che consente la rettificazione degli atti anagrafici in considerazione del sesso di elezione della persona), quello che contava per il diritto era il sesso che l’osservazione morfologica di un corpo consentiva di individuare, al momento della nascita. A tale criterio oggettivo, la legge ha avvicinato un criterio soggettivo, dando rilevanza alla dimensione psicologica e quindi alla percezione che ciascuno ha del proprio sesso di appartenenza. In presenza di un’incongruenza profonda e irreversibile tra il dato corporeo e la percezione psicologica del proprio sesso, l’autorità giudiziaria può ordinare una rettificazione degli atti dello stato civile, affinché si riallinei il sesso legale al sesso percepito dal soggetto.
Va quindi distinto concettualmente il sesso dall’identità di genere. Il ‘sesso biologico’ è la risultante di caratteristiche determinate dai cromosomi, dagli ormoni e dai genitali interni ed esterni. Si noti che non sempre è possibile un’individuazione univoca del sesso biologico. Infatti, sebbene la percentuale della popolazione mondiale sia esigua, esistono anche le persone intersessuali. L’‘identità di genere’, invece, è la consapevolezza profonda di sé come maschi o come femmine o come altro. Potremmo anche definire l’‘identità di genere’ come il ‘sesso psicologico’, rimarcando che esso non sempre coincide con il ‘sesso biologico’: nella persona trans il primo non si sovrappone al secondo. L’‘identità di genere’ non si può considerare una dimensione statica, ma un processo dinamico, particolarmente attivo nel suo sviluppo tra i 18 mesi e i 3 anni di vita.
Sarebbe troppo lungo, in questa sede, ripercorrere l’evoluzione interpretativa della legge n. 164/1982. Qui basta solo sottolineare il segno profondo che ha lasciato una sentenza della Corte di 77 Cassazione (prima sezione civile, 20 luglio 2015, n. 15138). Questa sentenza si può considerare un vero e proprio spartiacque tra due opposti orientamenti giurisprudenziali. In base al primo orientamento, la modificazione degli atti anagrafici doveva necessariamente essere preceduta dalla riattribuzione chirurgica dei caratteri sessuali primari. In base all’attuale orientamento giurisprudenziale – espresso dalla ricordata sentenza di legittimità – l’effettuazione dell’operazione chirurgica, incidente sui caratteri sessuali primari, è rimessa alla libera scelta della persona interessata: per la rettificazione degli atti anagrafici è bensì necessario accertare giudizialmente che vi sia quanto meno una compiuta identificazione con il genere verso cui si transita dal punto di vista psicologico e fisico. I giudici di legittimità hanno chiarito che «per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari […] l’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità».
Tale approdo ermeneutico è stato suffragato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 221/2015, che qui va ricordata non tanto perché ribadisce quanto già affermato dalla Cassazione, ma perché per la prima volta ha sottolineato la centralità della tutela dell’identità personale, in casi del genere. In questa sentenza, i giudici delle leggi avvalorano l’interpretazione della Corte di Cassazione, fondandola genericamente sui «supremi valori costituzionali», senza ulteriormente precisare quali essi siano. Solo in una sentenza successiva (la n. 180/2017 a cui è seguita l’ordinanza n. 185/2017), che ribadisce ancora le acquisizioni interpretative appena riferite, si è precisato che tali valori sono rappresentati dalla libertà e dalla dignità della persona umana. Da tale assunto, possono farsi discendere due conseguenze sul piano argomentativo: i) è rimessa alla persona interessata la scelta delle modalità con cui effettuare la transizione, quale espressione del diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo; ii) i trattamenti sanitari devono pur sempre essere contenuti entro il limite previsto dall’art. 32 Cost., ossia il rispetto della persona umana; pertanto non possono essere mai imposti alla persona, sia che riguardino i caratteri sessuali primari sia che riguardino i caratteri sessuali secondari.
Dunque, quella interdipendenza che nel passato avevano le due questioni, per cui senza operazione chirurgica modificativa dei caratteri sessuali primari non si sarebbe potuta ottenere la rettificazione degli atti anagrafici, è venuta meno. Oggi al giudice spetta accertare che il percorso di transizione da un genere all’altro sia frutto di una scelta ponderata, libera e che si esplichi nella quotidianità della persona attraverso la conformazione al ruolo di genere verso cui transita. Se si prende sul serio l’indicazione della Corte costituzionale, che addita all’interprete i «valori supremi dell’ordinamento» della libertà e della dignità della persona, quali parametri per bilanciare l’interesse dell’individuo da un lato e quello della collettività alla certezza delle relazioni giuridiche dall’altro, ci si avvede della delicatezza del ruolo del giudice. Nel corso del processo per l’autorizzazione alla rettificazione degli atti anagrafici, non ci si può limitare a un inventario delle modificazioni dei caratteri sessuali, sia pure secondari, realizzate dalla persona. Occorre, piuttosto, valutare l’insieme delle circostanze relative alle scelte di vita della persona, al ruolo di genere assunto nei rapporti sociali, ai riscontri peritali di natura psicologica, a tutte le tipologie di interventi estetici, farmacologici e – ove possibili e liberamente scelti – chirurgici, capaci di incidere sull’aspetto della persona ricorrente. E tutto ciò con una precisazione, forse ovvia, ossia che ogni storia è una storia a sé. Come ci ricorda da ultimo la Corte costituzionale, nella sentenza n. 180/2017, spetta al giudice «nella valutazione delle insopprimibili peculiarità di ciascun individuo, il compito di accertare la natura e l’entità delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, che concorrono a determinare l’identità personale e di genere».
Il sesso, in altri termini, non è l’unico aspetto che conforma le nostre relazioni sociali. La biologia non è tutto – verrebbe da dire – anche se non si può per ovvie ragioni prescinderne. Siamo dinanzi a un progressivo cambiamento socio-culturale, in cui l’acquisizione teorica degli anni Settanta in forza della quale il genere è un continuum tra gli opposti in cui ogni persona si posiziona diversamente, alla luce di una molteplicità di fattori, sta diventando pratica sociale. Le persone non binarie, pertanto, rivendicano uno spazio sociale.
Abbiamo dinanzi a noi una sfida: immaginare nuove regole perché possano liberamente convivere tanto le persone che 79 sentono coincidere il loro genere con il loro sesso (persone cis), quanto le persone che soffrono per la mancanza di tale coincidenza e vogliono transitare verso il genere elettivo (persone trans). Tuttavia, è necessario tener conto anche del fatto che c’è chi non può, per ragioni biologiche, essere ascritto univocamente a un sesso (persone intersex) e chi rifiuta una categorizzazione rigida in un determinato sesso per tutta la durata della propria vita, così autodeterminandosi in funzione del proprio benessere e della propria realizzazione personale (persone non-binarie).
Tutte loro sono persone e in quanto tali intrinsecamente portatrici di un valore, cioè di una propria dignità. Il compito principale del diritto – alla luce della nostra Costituzione – non è garantire certezza alle relazioni giuridiche, bensì il rispetto della dignità di cui ogni persona è portatrice organizzando quelle relazioni. Il primo obiettivo si deve piegare al secondo e non viceversa.
Il binarismo sessuale ci restituisce una realtà semplificata, facile da descrivere e da comprendere e tuttavia lontana da quella che si può osservare guardandosi intorno. Le persone trans esistono da sempre, come testimonia la letteratura. Sono uno sprone ad andare oltre le apparenze e a destrutturare le nostre comode convinzioni. Due attitudini che mai come in questo momento storico sarebbe opportuno coltivare.

Nel presente scritto l’uso del maschile plurale non marcato è imposto da esigenze di sintesi e di spazio.

multiverso

18