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Secondo il ben noto proverbio, il traduttore è (inevitabilmente) un traditore. Una esagerazione che, provocando, rivela un fondo di verità. Le etimologie di tradurre e tradire sono prossime, la prima da qualcosa come ‘trasferire’, la seconda da qualcosa come ‘consegnare’ (senza l’assenso volontario del soggetto). Da notare che anche qui devo basarmi su traduzioni dal latino date nel vocabolario (Treccani) come fonte di una sequenza etimologica. Una parte significativa della terminologia inerente al linguaggio pertiene a questo senso del ‘trasferimento’: pensiamo al trasferimento di esperienza (fisica, mentale, sensoriale, cognitiva, ecc.), pensiero, memoria, in (ovviamente solo nel senso metaforico di ‘contenuto’) un sistema semiotico/simbolico, di cui appunto anche i linguaggi ‘naturali’ fanno parte. Quindi dal mondo degli oggetti i significati dei linguaggi rimandano al mondo in un certo senso non (o comunque meno) corporeo (tridimensionale) dei significati (ri)costruiti dal pensiero umano. Questo rimando o ‘trasferimento’ avviene seguendo le prassi della ‘reference’: partendo dall’uso più tecnico del termine in linguistica e semiotica, intendo quelle prassi referenziali collegate sia ai processi generativi dei significati costruiti, e poi depositati, nei linguaggi naturali e altri sistemi semiotici, quindi tipicamente necessari durante i periodi e le attività di apprendimento di una lingua, sia le prassi di ‘riferimento’ e ‘identificazione’ di enti reali nel mondo a partire da significati costruiti in precedenza, sia ulteriori pratiche di arricchimento, precisazione, modificazione di questi significati in seguito a successive prassi di reference; la reference è quindi una prassi geneticamente fondamentale per tutti questi ‘trasferimenti’ inerenti alla semantizzazione.
Per imparare il significato di ‘tavolo’ (di solito con l’aiuto di altri esseri umani) devo vivere in un ambiente dove esiste almeno un tavolo concreto, o una sua immagine o rappresentazione, che io posso esperire con sensi, apparato cognitivo, moto, memoria, ecc. Poi imparerò magari che il tavolo può avere più o meno di quattro gambe, che può non essere quadrato, ma avere altre forme, essere di materiali diversi, ecc. Un beduino, per imparare le moltissime espressioni collegate a ‘cammello’ dovrà vivere in un mondo contenente non solo cammelli, ma tutte le pratiche relative a interazioni con loro, tramandate dalla sua società e cultura. Anche a livello metalinguistico o meta-retorico, abbiamo questo senso del trasferimento: pensiamo ad esempio all’etimologia di ‘metafora’.
Quindi, quando parliamo della traduzione nel senso che più precisamente e comunemente diamo a questo termine, e cioè di ‘trasferimento’ da un linguaggio naturale ad o in un altro, questo senso del trasferire risalta in grado anche maggiore. In periodi storici di forte relativismo filosofico, spesso poggianti su filosofie del linguaggio piuttosto discutibili, di irrazionalismo filosofico, come nel presente, si tende a sottolineare ed enfatizzare il lato soggettivo, ‘creativo’, per certi versi arbitrario dei procedimenti di traduzione linguistica. Le opere di Lawrence Venuti sulla traduzione (forse in modo più esplicito in Contra Instrumentalism. A Translation Polemic) o, nell’ambito della filosofia del linguaggio, di un filosofo in parte di matrice hegeliana come Charles Taylor (The Language Animal. The Full Shape of the Human Linguistic Capacity), si situano in gran parte in questo solco e cercano quindi di polemizzare, nel caso di Venuti contro l’uomo di paglia dello ‘strumentale’, con cui vorrebbe distruggere un dogma quasi inesistente, una prospettiva rigida di ‘equivalenza contenutistica perfetta’ tra testo originale e traduzione. Allo ‘strumentale’ Venuti contrappone lo ‘ermeneutico’ (cfr. certe tradizioni filosofiche legate alla critica letteraria postmoderna, alle sue basi entro filosofie del linguaggio irrazionalistiche, perlopiù di origine post-heideggeriana, postmoderna francese). Come quasi sempre, nella realtà effettiva i due ‘estremi’ si situano su di un continuo, e la scelta fatta da Venuti dell’estremo ‘ermeneutico’ è tipica del conformismo accademico dominante in tema di filosofie del linguaggio. Anche Taylor si basa su di una opposizione alla fine spuria, sebbene come filosofo la esplori più sistematicamente: fra teorie che privilegiano l’aspetto di comunicazione e codificazione del linguaggio – la linea filosofica Hobbes-Locke-Condillac (HLC), empirista, razionalista, illuminista – e teorie che privilegiano invece l’aspetto ‘creativo’ dei linguaggi naturali – la linea Hamann-Herder-Humboldt (HHH), romanticismo tedesco, ‘idealista’ anche se, per Humboldt soprattutto, si tratta di approssimazioni. E Taylor si propone esplicitamente il traguardo di eliminare le tracce sopravvissute della linea HLC nelle riflessioni linguistiche contemporanee. Focalizzandosi soprattutto su questa opposizione, omette i filoni materialistici di riflessione sul linguaggio che, per quanto storicamente sia scarsi che sparsi, hanno avuto rappresentanti d’eccezione come Sebastiano Timpanaro, il quale critica la prospettiva formalistica, matematizzante e logicizzante (che Timpanaro situa come prossima a forme di idealismo oggettivo) di Noam Chomsky in maniere ben più radicali ed illuminanti di quanto faccia Taylor.
Sebbene il XX secolo sia stato dominato in filosofia da riflessioni sul linguaggio (che fossero linguaggi formali o naturali, da tradizioni della filosofia analitica perlopiù anglosassone o da quella ‘continentale’), in realtà tutte omettono un elemento tanto fondamentale quanto macroscopico inerente all’acquisizione dei linguaggi umani, alle prassi linguistiche, alla semantizzazione e alla diffusione dei linguaggi: le prassi inerenti alla reference. Quando operiamo con linguaggi naturali e con sistemi semiotici perseguiamo un numero molto vasto di fini, tra cui appunto quelli situati in opposizione tra loro da Venuti e Taylor. Ma a prescindere, a fondamento della ‘operatività’ dei linguaggi naturali, si situa la loro semantizzazione, che è costruzione e prassi umana, sia sociale che individuale, temporale e storica.
E il rapporto tra reference e semantizzazione risulta essere fondamentale anche quando dobbiamo affrontare le pratiche della traduzione.
Faccio alcuni esempi provenienti dall’ambito della lepidotterologia. Esistono numerosissime specie di farfalle, su un vasto continuum, ma i diversi linguaggi naturali vi si riferiscono secondo modalità e classificazioni/raggruppamenti diversi.
In inglese troviamo i termini butterfly, moth, burnet e skipper. In italiano ‘farfalla’ e ‘falena’. In francese papillon,phalène e mite. In tedesco Schmetterling, Falter e Motte (o, tipico esempio della fusione di parole diverse in tedesco, Nachtfalter; in svizzero tedesco per ‘farfalla diurna’ si usa un altro termine composito, Summervögeli, metafora più poetica e approssimativa). Grosso modo potremmo porre come ‘equivalenti’ butterfly, ‘farfalla’, papillon e Schmetterling. Ma l’etimologia varia: in inglese si riferisce a credenze popolari inerenti a burro, metamorfosi delle streghe e farfalle; l’etimologia del termine tedesco dipende da una credenza analoga e dal termine Schmetten (panna) e non dal verbo schmettern. Italiano e francese discendono dal latino e preservano una semi-onomatopeia, che si riferisce al battito delle ali. Per le farfalle notturne l’italiano e il francese hanno termini simili derivati dal greco, e anche inglese e tedesco condividono una loro comune etimologia.
Tuttavia, quando si tratta di creare classificazioni all’interno del continuum di questi insetti, le diverse lingue ci presentano soluzioni diverse: l’inglese contempla sia i termini burnet che skipper per famiglie di insetti diverse, entrambe in qualche modo intermedie tra le farfalle e le falene (spesso gli entomologi parlano di ‘notturne’ e non di ‘falene’, cfr. Nachtfalter). Burnet come raggruppamento delle Zygaenidae, e skipper come termine che corrisponde grosso modo alle Hesperiidae. Italiano, francese e tedesco non hanno in realtà alcun equivalente nel linguaggio comune (Google o Reverso non danno alcun equivalente per questi raggruppamenti). L’etimologia dei due termini inglesi dipende da associazioni metaforiche diverse: nel caso di burnet (termine più usato in area anglosassone che statunitense: Webster dà solo il significato corrispondente alle piante, non agli insetti) dal colore delle macchie dell’insetto, nel caso di skipper dalle caratteristiche di volo di questi insetti.
Il francese mite non ha in realtà corrispondente preciso nelle varie altre lingue citate, perché si riferisce a ciò che in inglese spesso si designa con clothes moth, un termine composito, utilitario (ci si riferisce al vestiario), simile all’italiano ‘tarma’. Spulciando i dizionari online (approssimativi ma indicativi), i corrispondenti in italiano (‘falena’) e in tedesco (Motte) in realtà ricadono in raggruppamenti più generici, senza la specificità del francese. L’inglese ha recentemente adottato neologismi (non di uso comune) per la categoria delle Microlepidoptera (di gran lunga la più numerosa e con le più forti localizzazioni) parlando di micro moths o di small moths.
Per spiegare queste diverse modalità di classificazione e queste specificità linguistiche a un utente di un’altra lingua, bisogna ricorrere di nuovo alle pratiche della reference, un ritorno al mondo materiale dell’empiria (o delle sue rappresentazioni, foto, immagini, ecc.). Quindi il fondamento sia della semantizzazione che delle prassi di traduzione rimane la reference, benché la traduzione, apparentemente ‘disancorata’ dall’empiria e legata ai rapporti tra linguaggi naturali, si presti alla speculazione, di matrice teologica, del linguaggio come ‘creatore’ del mondo (ci si illude di avere a che fare con rapporti esclusivamente interlinguistici), cui le filosofie di matrice idealista, romantica e irrazionalista, in maniere diverse, e più o meno radicali, spesso fanno ricorso.
Quindi la traduzione può mirare a una serie di fini diversi, non necessariamente contradditori, ma complementari, integrantisi, dove sia la componente ‘strumentale’, comunicativa e referenziale che quella creativa ed espressiva hanno il loro peso. E anche nei casi delle traduzioni apparentemente più difficili, come quelli di poesie liriche altamente ermetiche (pensiamo a Paul Celan), l’interrogativo verte su quali fini la traduzione si pone nei confronti degli utenti: per comprendere Celan, bisogna conoscere un vastissimo retroterra culturale tedesco, il vocabolario dei Grimm, la biografia del poeta, le circostanze storiche; il testo tradotto non potrà mai, isolato, senza apparato, rendere la ricchezza, la ‘situazione’ all’interno dell’opera complessiva né dell’autore e della sua cultura, né dell’universo di significati e di ricchezze sinestetiche, formali e semantico-storiche che provengono dall’originale. Celan, di origine ebraica, sopravvissuto all’Olocausto, aveva un rapporto molto complesso e difficile con il tedesco, come fonte di cultura storica, ma anche linguaggio di chi aveva annichilito gli ebrei. Esempio appunto delle complessità del ‘tradire’ e ‘sentirsi traditi’, perché oltre che poeta era un traduttore, molto interessato ai problemi dell’ermeneutica e della traduzione.
Persino un ipotetico ‘linguaggio privato’, o un codice per spie, in ultima analisi, per acquisire significato, poggia sulle prassi della reference.

multiverso

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