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Silvia Bolognini intervista Marco Deriu e Adriano Zamperini

Deforestazioni, coltivazioni e allevamenti intensivi sono tra le cause più importanti della perdita di biodiversità del territorio. Su questo fronte, la filiera agro-alimentare può farsi carico di incentivare il consumatore ad acquistare in modo più informato, consapevole e sostenibile. Attraverso programmi come il Green Deal, anche l’Unione Europea sta cercando di sensibilizzare maggiormente verso il tema della sostenibilità e, in particolare, della transizione ecologica. Dal punto di vista giuridico, però, manca ancora una definizione chiara del concetto di ‘sostenibilità’: a volte è declinata esclusivamente in chiave ambientale, altre invece va a comprendere anche un’ottica sociale ed economica. Oggi si parla molto di ‘transizione ecologica’ che, tuttavia, non può prescindere da un’altra transizione, quella culturale. A dialogare su queste tematiche trasversali la giusagrarista Silvia Bolognini, il sociologo Marco Deriu e lo psicologo sociale Adriano Zamperini.

Da giurista, partirei proprio dalle definizioni: che cosa intendiamo con ‘transizione ecologica’ e con ‘transizione culturale’?

Adriano Zamperini. Sono uno psicologo sociale, non un economista; quindi affronterò queste problematiche guardando il mondo dal basso, dall’orizzonte delle persone comuni. All’interno di questo scenario, quando si parla di ‘transizione ecologica’ si vuole indicare, secondo un certo tipo di narrazione, un cambiamento socioeconomico che sappia rendere lo sviluppo sostenibile. Quello di sostenibilità è un ‘concetto saponetta’, tutte le volte che si prova a definirlo ci scivola via dalla mano poiché non è un principio autoevidente, ma è invece costretto a essere definito ed è sottoposto a mille interpretazioni. Da studioso e anche da cittadino, ho quindi l’impressione che ci stiano solo raccontando una bella favola, la favola del progresso che ci ha dato benessere e ci ha permesso di affrancarci da molte condizioni gravose. Poi, però, ci si è resi conto che il progresso ha conseguenze negative, come i cambiamenti climatici, perciò ora se ne parla molto. Eppure gli storici delle scienze e dell’industria testimoniano come i dibattiti di oggi erano già presenti al principio della Rivoluzione industriale: già allora si sapeva quel che sarebbe potuto accadere…

Marco Deriu. La dimensione culturale di questo cambiamento passa perlopiù in sordina, ma è fondamentale per evitare di credere che la crisi ecologica e le problematiche ambientali possano essere risolte con un approccio puramente pragmatico o tecnico-manageriale, come se si trattasse esclusivamente di gestire meglio le limitate risorse. Ciò alimenta l’illusione di avere un controllo che in effetti non abbiamo. Inoltre, c’è il rischio di credere che la questione ambientale sia qualcosa di ‘esterno’ – suggerito da una profonda e radicata tradizione di pensiero religioso, filosofico e anche politico dell’epoca moderna. Pensiamo a quanto sia iconica, per il movimento ambientalista, l’immagine della Terra vista dallo spazio, un’immagine peraltro ‘prodotta’ dalla modernità. Dovremmo in primo luogo abbandonare gli schemi dualistici antropocentrici cui ci siamo abituati. La crisi ecologica non ci sta ‘di fronte’, ma rivela qualcosa di noi e del nostro modo di pensare, di stare al mondo e di stare in relazione. È una crisi nella quale siamo completamente immersi, con le nostre azioni, ma anche con le nostre idee, i pensieri, le metafore e i linguaggi che usiamo per parlarne. Sta aumentando in noi anche un certo senso di impotenza. Fredric Jameson sosteneva che per noi occidentali è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo: questo la dice lunga sulla nostra capacità di immaginare delle alternative al disastro che stiamo producendo.
Per provare a uscire da tale vicolo cieco abbiamo due strade che dobbiamo cercare di incrociare. La prima è lavorare su quella che Gregory Bateson chiamava l’‘ecologia della mente’, ovvero prendere coscienza del fatto che i disastri ambientali non sono frutto esclusivamente di cattivi comportamenti, bensì di un modo dualistico di pensare che non può essere ecologico; esso incentiva un antropocentrismo deleterio che ci spinge a credere di poter controllare la realtà e i sistemi di cui facciamo parte. La seconda cosa è provare a inquadrare il tema della crisi ecologica come un problema che riguarda noi in quanto società e in quanto cultura. Pensare la crisi che stiamo vivendo anche come una crisi del nostro immaginario, del nostro modo di pensare e della nostra cultura. Questo ci permetterà di vedere altro, aprire altre visioni del mondo non così chiuse, negative.

Da diverso tempo sentiamo parlare di sviluppo sostenibile, un concetto consacrato già dal rapporto Brundtland che risale al 1987. In che cosa consiste l’attuale ‘retorica della sostenibilità’?

Marco Deriu. Oggi uno dei rischi maggiori è quello di non cogliere una crisi del linguaggio; alcune delle categorie che abbiamo imparato a usare infatti non ci aiutano più a leggere la realtà. Il vero ostacolo non è rappresentato tanto da chi nega del tutto che ci sia un problema ecologico o ambientale, bensì dal fatto che si riconosca una criticità, ma poi si usi un modo di leggerla, interpretarla e affrontarla non all’altezza della radicalità delle sfide e delle difficoltà che abbiamo di fronte. Siamo davanti a una serie di situazioni critiche che non si riducono alla questione climatica o all’enorme perdita di biodiversità. E abbiamo bisogno di elaborare paradigmi che ci sottraggano alla comodità delle abitudini e ci spingano in qualche modo a pensare in termini di ‘disapprendimento’. Scomparsa l’illusione che una forte espansione economica, con la crescita della produzione, del consumo e della ricchezza, avrebbe giovato a tutti, e perfino portato dei miglioramenti sul piano ambientale, oggi siamo in una fase di aumento delle diseguaglianze, di precarizzazione diffusa, di aumento dei costi dei beni; per continuare a vivere normalmente lavoriamo sempre di più, siamo sempre più stressati. Occorre invece tornare a chiederci che cosa conta per la qualità della vita, ridiscutere il concetto di prosperità e di benessere. Sono state coniate di recente tante altre definizioni: chi parla di decrescita, chi di post-crescita, di prosperità senza crescita, di convivialità, di sobrietà. Non necessariamente ne dobbiamo scegliere una, però dobbiamo ampliare il canone della discussione.

Il dibattito sulla transizione ecologica si concentra molto sull’individuazione di soluzioni che consentano di conservare lo status quo in tema di consumi (‘consumo sostenibile, purché sia consumo’), di mantenere il modello attuale attraverso il reperimento di nuove materie prime, nuove fonti di approvvigionamento energetico. In questo progetto, ciò che sembra mancare è proprio la transizione culturale, una riflessione sull’opportunità di mantenere questo modello. Questo non ci sta portando forse verso una direzione sbagliata?

Adriano Zamperini. Si sta coltivando infatti la nostra ignoranza per continuare a tenere in piedi uno zombie che non sa di essere morto. Ma ormai le scienze, con tutti i limiti, le inevitabili manipolazioni, sono arrivate a un punto di conoscenza incontrovertibile. La prima è che il nostro corpo è una storia: la storia di noi che abitiamo un certo ambiente, di noi che abbiamo avuto un certo tipo di accudimento materno. Gli studi di epigenetica ci dicono che le carezze ricevute incidono sul nostro patrimonio biologico e questa azione modificante si trasmette alle generazioni future; più nell’immediato, una madre che beve acqua inquinata durante la gravidanza trasmette tali sostanze nocive al nascituro. Quella di una realtà separata da noi è appunto una favola: oggi sappiamo che persona e ambiente sono compenetrati. La natura non è una proprietà, non è un bene a disposizione per fare profitti. Non si tratta di amare il mondo bucolico-pastorale, sono un acerrimo avversario della moda green, dell’idea di natura incontaminata. Però viviamo una schizofrenia, abbiamo un io diviso: noi da una parte, la natura dall’altra. Ad esempio, riguardo il tema dell’‘inverno demografico’ nel nostro paese, si pensa basti garantire qualche contributo economico per assicurarsi un aumento delle nascite, eppure nessuno si preoccupa del fatto che l’inquinamento sta abbattendo la capacità riproduttiva dei maschi e siamo pieni di interferenti endocrini.
Per poter uscire da questa schizofrenia e dai paradossi correlati dobbiamo imparare a mettere insieme quel che credevamo essere separato. Queste evidenti contraddizioni richiedono infatti un ripensamento della società in cui vogliamo vivere. Si costruisce per il cittadino una grande ‘architettura’ di scelte, in realtà abbiamo solo l’impressione di scegliere, anzi scegliamo sempre meno. Oggi paghiamo il peso di una ‘bassa pensabilità’, pensiamo poco e finiamo per essere schiacciati dall’esistente. Questo discorso sulla transizione rappresenta una reazione, non un’azione, non è la progettualità di un mondo. C’è una gigantesca ‘povertà ideativa’ che mi spaventa.

Nel mercato agro-alimentare l’introduzione delle certificazioni ambientali pare indicare al consumatore una possibilità anche per ripulirsi la coscienza, senza indagare sull’effettiva sostenibilità del prodotto. Tuttavia, negli ultimi decenni sembra essere aumentata la sensibilità nei confronti dei problemi connessi al cambiamento climatico con varie prese di posizione, da Greta Thunberg ai più recenti movimenti che imbrattano opere d’arte o monumenti. Cosa ne pensate? Questo uso del linguaggio si può definire violento ed è efficace?

Adriano Zamperini. Innanzitutto la risposta ‘muscolare’ contro questi comportamenti sembra voler zittire un fenomeno già svilito da una palese carenza di ascolto, visibilità e riconoscimento. La violenza, quando è agita contro le cose, ha una componente molto potente a livello comunicativo. Imbrattare una parete serve per farsi vedere e sentire. Questi atti possono anche essere illegittimi, rischiosi, perché prestano il fianco a critiche, però credo che, prima di inasprire le pene, bisognerebbe riflettere su che cosa stanno comunicando e soprattutto sul motivo per cui questi giovani arrivano a tal punto. Dovremmo abbassare un po’ i muscoli e tendere di più le orecchie.

Marco Deriu. Vorrei sottolineare la necessità di considerare questi movimenti anche da una prospettiva storica e sociale. Credo abbiano un significato culturale. Ci troviamo ora di fronte a ciò che Miguel Benasayag e Gérard Schmit hanno definito come un’inversione di segno del futuro, ossia l’idea del futuro più come una minaccia che come viaggio ottimista lungo un certo percorso di progresso. Un mutamento con cui gli adulti – educatori, insegnanti, genitori – devono confrontarsi. Significa l’erosione del senso condiviso di una possibile convivenza in un mondo comune e fiducioso. Ciò implica anche una comprensione più profonda della gravità dei rischi ambientali ed ecologici, i quali non sono solo uno dei tanti problemi da affrontare, ma una categoria distinta di problemi a causa della loro portata, dell’impatto, degli effetti a lungo termine e delle ripercussioni profonde. Questi movimenti stanno portando alla luce un senso di ansia, di impotenza e paure che risiedono in ognuno di noi e nell’inconscio collettivo. È come se questi giovani avessero assunto la responsabilità di riconoscere ed esprimere tale disagio collettivo e avessero abbracciato l’incarico di custodire questo senso di angoscia che il mondo degli adulti ha in parte rimosso. Una delle sfide, però, nell’immaginare lo sviluppo sostenibile è che tali movimenti non si possono concentrare solo su problemi ambientali isolati. Piuttosto devono attirare l’attenzione su una prospettiva più ampia, che richiede una rivalutazione del nostro modo di percepire il progresso e il nostro rapporto con il pianeta. Inoltre, rimane aperta la questione della durata di tale attenzione e della sua profondità. L’efficacia di queste azioni è legata principalmente alla loro spettacolarità, ma spesso manca una congruenza simbolica che sia in linea con i messaggi e gli obiettivi dei movimenti stessi. Mentre alcune manifestazioni, come il die-in, simulare la morte per rappresentare l’impatto ambientale, hanno un significato simbolico coerente, altre azioni, come l’imbrattamento di opere d’arte, possono risultare disconnesse dal messaggio simbolico che si vorrebbe veicolare. Nonostante i numerosi dibattiti sulla violenza associata a queste azioni, è essenziale mantenere una prospettiva equilibrata, ma anche evitare di concentrarsi troppo sull’aspetto mediatico a scapito della coerenza simbolica e del messaggio profondo. Solo attraverso una combinazione di strategie politiche efficaci, comunicazione sensata e azioni simbolicamente coerenti possiamo sperare di affrontare adeguatamente le sfide del cambiamento climatico.

Spesso vengono organizzati anche sondaggi per indagare la disponibilità dei comuni cittadini a fare qualcosa in più per la sostenibilità, ad esempio se sono pronti a spendere un po’ di più per acquistare prodotti più sostenibili o a contribuire in altri modi. Dalle risposte che questi sondaggi ci restituiscono sembrerebbe che tutti siano pronti a fare il possibile. Quanto sono affidabili questi sondaggi?

Adriano Zamperini. Concentriamoci in primo luogo su chi risponde ai questionari. Così come nessuno oggi ammetterebbe di essere razzista, lo stesso vale per l’atteggiamento ecologico: essere ‘ecologici’ e ‘sostenibili’ è diventato un valore di moda, costantemente presentato attraverso una narrativa omologante. All’interno di questa narrazione, tutti sembrano adottare uno stile di vita ‘verde’. Dalle ‘mamme ecologiche’ ai ‘bambini ecologici’, la pubblicità ci spinge costantemente a ritenere che l’essere ecologici sia una scelta positiva e vantaggiosa. Ma l’‘impronta antropogenica’ non può essere considerata uniforme per l’intera umanità. Vi sono popoli che hanno marchiato il pianeta in modo più preponderante, altri sono stati ‘colpiti’, pagando un prezzo elevatissimo, da queste tracce. Non possiamo ignorare le differenze storico-culturali che hanno condotto a tale situazione. Parallelamente, dal lato di chi raccoglie i dati, seppure possano essere strumenti utili, bisogna compiere un passo successivo: oltre a raccogliere le risposte dai questionari, dovremmo metterci dei guanti e scavare nei cassonetti della spazzatura per vedere cosa le persone consumano effettivamente. In pratica, a ciò che viene dichiarato dovremmo affiancare ciò che viene fatto.

Marco Deriu. I sondaggi forniscono una sorta di fotografia istantanea della situazione: non ho molta fiducia in essi, ma ne riconosco l’utilità. Di fatto, dobbiamo imparare a rinunciare a certe comodità a cui eravamo abituati e a ridurre la dipendenza da sistemi e tecnologie ormai parti integranti della nostra vita. Prendiamo ad esempio la mobilità e il traffico: non si tratta solo di decisioni personali, coinvolgono anche l’organizzazione delle città e il funzionamento della mobilità. Ciò va oltre la sfera individuale. Stiamo trattando questioni complesse che comportano fatica e costi e coinvolgono scelte, cambiamenti e abitudini, nel presente ma anche per il futuro. Penso dunque che sia una questione politica, che richiede una visione ampia e una collaborazione tra individui e istituzioni per affrontare le sfide della trasformazione verso la sostenibilità. Non mi pare allora particolarmente utile concentrarsi sulla predisposizione individuale iniziale di ciascuno. Piuttosto, è essenziale comprendere in che misura e come dovrebbero essere orientate le risorse collettive – la politica, la spiritualità, la religione o la filosofia – per guidarci e aiutarci ad affrontare il cambiamento. Questo passaggio potrebbe garantirci condizioni di vita più prosperose, rigenerative e sostenibili. In prospettiva, sembra che tali condizioni abbiano maggiori probabilità di rivoluzionare un senso nuovo dell’essere, del relazionarsi e del pensare, migliorando la qualità delle nostre vite. Pertanto, credo che avremmo bisogno di meno sondaggi e più pratiche che sfidino il pensiero individuale attraverso il confronto con gli altri.
La vera democrazia implica l’ascolto di diverse prospettive e la condivisione delle fatiche altrui. Anche l’esperienza della pandemia ci ha in effetti dimostrato che i cambiamenti implementati all’interno di un quadro collettivo costruiscono solidarietà e condivisione; invece, quando sembrano arrecare beneficio solo ad alcuni a spese di altri, scaturiscono conflitto e polarizzazione, e ritengo che non sia questa la strada da seguire.

Continuando a promuovere la conoscenza e la riflessione critica, potremmo dare forma a una società più consapevole, impegnata e positivamente incline al cambiamento. Sono troppo ottimista o intravedete anche voi un germe di speranza in tutto questo?

Adriano Zamperini. Ci sono sicuramente molti ostacoli davanti a noi e credo che la prima grande sfida sia l’‘incontro’ umano. Infatti, la relazione fra esseri umani, sempre fonte generativa di nuovi mondi, non può limitarsi ai presenti: deve abbracciare anche coloro che non sono ancora nati. Dalla riflessione filosofica della seconda metà del Novecento emergono concetti come il ‘principio responsabilità’, che si è sviluppato in risposta a un mondo profondamente mutato e che abbraccia anche il problema delle generazioni future. La nostra società ha indebolito il legame che un tempo univa gli esseri umani. Mi riferisco non tanto al liberalismo in sé, ma alla prevalente mentalità del free rider, di chi si muove nel mondo ‘del qui ed ora’ cercando di ottenere quel che può anche a scapito degli altri. La logica premiale dei giochi a somma zero (io vinco, tu perdi), su cui è incentrata la società contemporanea, spinge all’individualismo.
Sono però fiducioso nelle risorse dei giovani. Sanno pensare oltre l’esistente, considerando non solo se stessi, ma anche le generazioni future. Le decisioni prese oggi influenzeranno infatti coloro che non hanno ancora messo piede su questo mondo. Questo cambierà la nostra mentalità e il nostro approccio. Il nostro profilo biografico non esaurisce ogni cosa, dobbiamo recuperare il senso di trascendenza e appartenenza, una coesione fondata su una responsabilità pronta a rispondere ai bisogni del presente e insieme aperta al futuro.

Marco Deriu. Penso che la questione non riguardi tanto l’ottimismo o il pessimismo, ma piuttosto la fiducia, che va oltre l’individuo e coinvolge aspetti politici ed etici. È necessario un cambio di visione, non solo sul presente, ma anche sul futuro. Ciò richiede però un impegno a vedere oltre le prospettive attuali e a considerare anche le generazioni future e altre realtà al di fuori della nostra cerchia. L’invisibilità è un altro aspetto importante: migranti, rifiuti, risorse nascoste e lavoro di cura spesso non ricevono la giusta attenzione. Questo ci spinge a riconoscere le relazioni interdipendenti tra esseri umani e altre specie viventi, alterità vicine e lontane. Anche la sfida ecologica richiede un’immaginazione che tenga conto di questa pluralità di voci e presenze invisibili e che, attraverso esse, ci aiuti a ripensare noi stessi, a capire come il nostro rapporto con il mondo e gli altri influisce su chi siamo. Inoltre, l’ascolto di voci da tradizioni culturali diverse e le esperienze di crisi di altre parti del mondo possono offrirci prospettive e risorse per affrontare il cambiamento in modo più aperto e creativo.
Insomma, la fiducia nell’affrontare il futuro non riguarda solo l’ottimismo, ma la capacità di abbracciare la complessità delle relazioni e dei cambiamenti.

Come può l’università agevolare la transizione culturale? Quali sono le sue possibilità comunicative e come può migliorare la relazione con gli studenti e con il pubblico esterno?

Adriano Zamperini. Credo ci siano due versanti su cui, come università, possiamo fare qualcosa. Innanzitutto, dobbiamo essere i primi, nella realtà quotidiana, a saper incarnare ciò in cui crediamo, altrimenti nasce l’impressione che ci sia una sorta di ‘intrattenimento pubblico’ e non risultiamo più credibili: gli atenei hanno un impatto sulla città, sull’ambiente, importantissimo, perciò deve diventare una sorta di impegno pratico a livello quotidiano, per essere vera comunità di cui gli studenti si sentano parte. Poi c’è la componente degli accademici, degli studiosi. E, anche qui, credo che possiamo fare molto. C’è però un problema. La scienza, come tutte le attività umane, può essere piegata, distorta sulla base di alcuni interessi. La responsabilità di essere rigorosi davanti a certi fenomeni spetta a tutti noi che facciamo scienza. Dobbiamo avere il coraggio di condurre ricerche scomode, che esplorino luoghi inaspettati, e la capacità di creare un’alleanza tra ricercatori e cittadini nella produzione di conoscenza. Dobbiamo entrare in una logica in cui il nostro studio e il nostro lavoro non sono fatti per qualcuno o su qualcuno, ma con qualcuno.

Marco Deriu. Il mondo universitario ha una responsabilità rispetto al modo in cui siamo abituati a pensare a questi problemi. Si parla di interdisciplinarità, ma in realtà il funzionamento dell’università è vincolato da logiche, schemi e steccati disciplinari molto rigidi. Che rapporto c’è tra questo e la crisi che stiamo vivendo? La crisi ecologica è frutto di una segmentazione. C’è una scissione anche nei saperi. Tra le scienze naturali, o scienze dure, e dall’altra parte le scienze umanistiche. Come se si potessero affrontare le questioni di cui abbiamo parlato senza vedere l’inseparabilità tra i due ambiti. La questione climatica non riguarda solo la fisica, la chimica dell’atmosfera o la vita dell’oceano. Riguarda come mangiamo, ci spostiamo, consumiamo, ma anche come scegliamo, stiamo assieme, comunichiamo. Finché abbiamo una mentalità e una scienza così frammentate, non avremo gli strumenti per affrontare questa crisi. Dobbiamo ripensare l’architettura dei saperi nell’università. Non significa perdere i saperi specialistici, ma insistere sul fatto che c’è bisogno di connessioni, come diceva Roger Caillois, di ‘scienze diagonali’, tipi di sapere capaci di integrare e connettere, di pensare assieme o da punti di vista diversi. Problemi complessi hanno bisogno di una complessità di tipo nuovo, ecologico, che ancora non abbiamo né nelle scienze cosiddette dure, né in quelle umanistiche sociali.
Inoltre, dobbiamo innovare le nostre pratiche. Abbiamo bisogno di pratiche didattiche nuove, per esempio, in cui coinvolgiamo soggetti della realtà attorno a noi per discutere insieme. È importante ampliare le idee della scienza, allargare i canoni e nutrire gli immaginari, rendendo più ospitali possibili le nostre discussioni anche a punti di vista eterodossi, magari anche discutibili, per aprire un confronto e un dialogo, anche critico. Il dibattito sulla Post-Normal Science richiama la necessità di discutere le opzioni e gli scenari assieme alla gente che è toccata dagli effetti delle scelte e dei cambiamenti che affrontiamo quotidianamente.
Concluderei dicendo che un tema su cui oggi abbiamo bisogno di riflettere è quello di ripensare la discontinuità. Come studiosi, accademici, pensatori abbiamo il compito di aiutarci collettivamente a immaginare strade che rendano questa discontinuità attraversabile, affrontabile, sopportabile, forse anche creativa.

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