TRANS-
Verso quale sistema di cura e salute?
di Giovanni Boniolo e Silvio Garattini
Francesco Curcio intervista Giovanni Boniolo e Silvio Garattini
La recente esperienza della pandemia ha fatto emergere implicazioni su ricerca medica, diritto alla salute, etica ed equa assistenza. Sia dal punto di vista politico che da parte dei cittadini, disorientati rispetto a un sistema sanitario che sta cambiando, c’è la necessità di una riflessione su come devono essere distribuite le risorse, sul ruolo della medicina e sui meccanismi di decisione relativi al diritto di cura.
Il sistema sanitario italiano è forse l’ultimo al mondo ad essere rimasto universale: non lo sono più i sistemi europei, non lo è più nemmeno quello della Gran Bretagna, e non lo sono mai stati quelli di altri paesi. Nel 17° Report CREA Sanità dell’Università di Tor Vergata del 2022, vengono indicati i pregi del nostro sistema sanitario ma anche problemi sempre più rilevanti: lunghe liste di attesa per cure e visite specialistiche, quasi 800.000 famiglie che rinunciano alle spese sanitarie per la difficoltà di accedere a determinate terapie sempre più efficaci ma onerose. Qual è la situazione attuale e soprattutto con quali prospettive?
Giovanni Boniolo. Bisogna considerare che siamo estremamente fortunati, abbiamo un sistema sanitario nazionale che nessuno ha, nel senso che chiunque vada al pronto soccorso – che sia cittadino italiano oppure no, di qualunque fede e cultura – viene curato. Abbiamo inoltre accesso gratuito a una vasta fascia di farmaci. Il problema è che un sistema sanitario di questo genere forse non è più sostenibile per una serie di motivi. In Italia, fino a poco tempo fa ogni sindaco voleva avere un ospedale, tuttavia ciò non è possibile con l’attuale medicina fortemente tecnologicizzata che necessita di apparati estremamente costosi per poter curare al meglio. E non è un problema di rapporto tra medicina gestita dai privati e medicina gestita dal servizio pubblico: bisogna proprio ripensare la struttura dei servizi per la salute all’interno del territorio. Il fatto che vi siano 800.000 famiglie che rinunciano alle cure sanitarie è davvero un grande tema che ci porta a riflettere, prima di tutto, sulle determinanti della malattia. Quando l’epidemiologo inglese Michael Marmot, nel 1990 circa, ha steso un report su quelli che si chiamano i ‘determinanti sociali’ della malattia, ha dimostrato che coloro che hanno meno denaro hanno meno possibilità di far fronte alle spese sanitarie, e le conseguenze possono essere un cronicizzarsi della malattia e un peggioramento della qualità di vita. Ma non ci sono solo i ‘determinanti economici’.
Nel 2014 un report sulla malattia mentale in Italia ha riscontrato quanto forte sia pure l’influenza dell’ambiente e dello stile di vita su certe patologie. E c’è un altro fattore divenuto fondamentale nella società contemporanea: riguarda la conoscenza, la circolazione di notizie e informazioni che possono spingere a fare delle scelte sanitarie appropriate oppure sbagliate. Sul ‘determinante epistemico’ ci si sofferma ancora troppo poco. Lo si è visto durante il periodo della pandemia nella contestazione da parte dei no-vax che manifestavano con il cartello «Io sono il medico di me stesso». Ora, se sei effettivamente medico e hai una patologia legata alla tua specializzazione, puoi anche essere il medico di te stesso, ma questo non funziona in generale. È ovvio che il paziente dovrebbe avere l’opportunità di discutere con il proprio medico la scelta di una particolare terapia o dove andare per farsi curare; tutto questo implica però che il paziente abbia delle capacità, degli strumenti conoscitivi. Da un report UNESCO del 2005 emerge tuttavia il fenomeno del knowledge divide, un divario conoscitivo che non è soltanto tra i paesi del cosiddetto terzo mondo e il nostro, ma taglia trasversalmente qualunque società, le famiglie, anche le università. In sostanza, chi sa di più riesce ad avere una qualità della vita e della morte migliore rispetto a chi sa di meno.
Alcuni dati sulla sanità mettono in luce un fattore molto significativo su cui riflettere. L’Italia è tra i paesi europei avanzati che spende di meno per questo settore: 2.690 euro pro capite rispetto alla media dei Paesi che sono entrati nell’Unione Europea prima del 1995, che ammonta a 4.196 euro pro capite. Peraltro, il livello del nostro outcome è invece mediamente molto buono.
Silvio Garattini. Il nostro servizio sanitario nazionale è un bene straordinario che dobbiamo cercare di conservare e migliorare, soprattutto per quelli che verranno dopo di noi. È iniziato solo nel 1978, prima c’erano le cosiddette Casse mutue che mettevano a disposizione risorse limitate e, una volta esaurite, solo chi aveva soldi poteva curarsi. Quello che oggi irrita maggiormente le persone sono sicuramente le lunghe liste di attesa, le visite urgenti posticipate di mesi, ma più ancora il fatto che, se paghi, le stesse apparecchiature, lo stesso personale sono disponibili entro pochi giorni. Questa è una profonda ingiustizia a cui dobbiamo rimediare perché ogni problema di funzionamento dei servizi sanitari, seppur complesso, tocca i diritti fondamentali. La nostra Costituzione, all’articolo 32, dice che tutti gli italiani hanno lo stesso diritto alla salute. La realtà è tuttavia diversa: siamo il paese europeo che, in generale, spende di meno per la salute. La media europea è di circa l’8% del PIL, in Italia è del 6% circa. Questo, oltre a tutto, determina stipendi bassi per i nostri medici, per i nostri infermieri e per tutti quelli che lavorano nella sanità. I loro salari sono il 30% in meno della media europea, ma se li intendessimo adeguare non basterebbe certamente il 6% del PIL. Eppure, se vogliamo che il servizio sanitario nazionale funzioni, i nostri politici devono investire molto di più per sanare le carenze. Prendiamo la questione degli organici. Mancano circa 85.000 infermieri e la maggior parte di loro se ne va da altre parti. Non è vero, invece, che c’è carenza di medici rispetto alla media europea, dal momento che ne abbiamo 4,1 ogni mille abitanti.
Sta succedendo piuttosto un’anomalia a cui bisognerebbe porre rimedio: molti medici di medicina ospedaliera o di medicina generale si costituiscono in cooperative per coprire i posti che mancano al sistema pubblico offrendo un costo di prestazione molto elevato, 1.200 euro per una notte e 120-150 euro all’ora per il pronto soccorso. Il risultato è che un professionista sanitario raggiunge in dieci giorni di lavoro lo stipendio che prenderebbe in un mese. Un altro aspetto critico riguarda i piccoli ospedali, dove la produttività è molto bassa e che comunque sottraggono risorse. Si calcola che in Francia, per realizzare 30.000 interventi di cardiochirurgia, si impiegano due terzi del personale che impieghiamo da noi, semplicemente perché in pochi ospedali sono concentrati tutti gli interventi più complessi. In Italia abbiamo punti nascita per 250 neonati all’anno, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità dice che bisogna averne almeno 1.000 per essere in grado di affrontare le emergenze con personale preparato alle situazioni di anormalità. La soluzione, quindi, non è quella di aumentare il numero dei medici ma di non perderli e organizzare meglio il sistema generale.
Francesco Curcio. Quindi abbiamo un problema etico e un problema economico. A questo proposito, tengo a sottolineare una cosa: quando leggo di spesa sanitaria, contesto proprio questa terminologia perché in sanità non si tratta di ‘spesa’, ma di investimento. E, se adottiamo il profilo strettamente economico, curare bene le persone significa migliorare le prospettive economiche generali del paese, non solo quelle sanitarie: la persona curata lavora meglio, lavora di più, il PIL migliora e così pure l’intero sistema. L’Italia, poi, ha una situazione a macchia di leopardo: non c’è ‘un’ sistema sanitario nazionale, ma venti sistemi regionali e provinciali; pensiamo al paradosso dei sistemi sanitari della Provincia di Trento e di quella di Bolzano che sono separati, con organizzazioni, approcci e modelli completamente diversi. Questa parcellizzazione delle strutture, comprese quelle di altissima specializzazione, è un fattore di spreco, ma soprattutto pone un problema di qualità, perché in medicina il numero delle prestazioni che vengono erogate da una singola struttura, da un singolo medico o infermiere, ha un effetto diretto sulla qualità della prestazione.
Succederà allora che, quando il problema verrà affrontato con determinazione, ci si accorgerà dell’aumento dei costi dovuti al ritardo nell’intervenire e del fatto che curare bene significa curare prima. Si ritorna così al tema del territorio.
Il rapporto del cittadino con la sanità inizia a casa, non nell’ospedale ad alta specializzazione. Quando il cittadino arriva all’ospedale specializzato vuol dire che qualche cosa, molto probabilmente, non ha funzionato prima, come accade negli Stati Uniti che hanno la spesa più alta e l’outcome peggiore perché lavorano fondamentalmente sull’acuto, non fanno prevenzione, non fanno medicina territoriale. Possiamo commentare questi elementi per rendere più evidente di quale concetto di ‘cura’ stiamo parlando?
Silvio Garattini. Una delle obiezioni dei politici di fronte alle lamentele per la carenza di investimenti consiste nel rimarcare che noi siamo la popolazione più longeva di tutto il mondo: abbiamo un’attesa di vita alla nascita che è pari quasi a 82 anni per i maschi e a oltre 85 anni per le femmine. Questo, però, è un dato parziale, perché quello che interessa non è la durata di vita, ma la durata di vita sana. Allora, se andiamo a guardare la durata di vita sana della popolazione italiana scendiamo al quindicesimo posto. Come mai arriviamo così in basso? Come mai abbiamo tanti anni – 10 per i maschi e circa 12 per le femmine – in cui la qualità di vita è molto bassa perché segnata da malattie? 129 Le risposte possono essere diverse, ma una riguarda il fatto che ci siamo concentrati sulla terapia. Questo è giusto, non c’è dubbio, visti i passi avanti nell’ambito di sintomi e malattie che prima non si curavano. Però ci siamo dimenticati della prevenzione, che vuol dire molte cose, ad esempio che la maggior parte delle malattie è evitabile. In Italia spendiamo quasi il 70% per malattie croniche. Di queste il 50% è evitabile. Come i tre milioni e mezzo di italiani che hanno il diabete di tipo 2 per sovrappeso, per cattiva alimentazione e mancanza di movimento, o come l’insufficienza cardiaca o quella renale, che dipendono soprattutto dalle nostre abitudini di vita. Persino il 50% dei tumori è evitabile. Ancora oggi ci sono dodici milioni di fumatori e ci sono ragazzi e ragazze che cominciano a fumare a 12-13 anni, esponendosi a ben ventotto malattie a cui non pensiamo, come l’artrite reumatoide, l’infarto cardiaco, l’ictus cerebrale… Anche l’alcool è cancerogeno, con buona pace di quelli che vendono il vino. E poi c’è la somma di fumo e alcool che eleva a sei il fattore cancerogeno. Questo ci fa capire che l’alimentazione e l’esercizio fisico sono componenti determinanti per la durata di una vita sana. Abbiamo bisogno di mangiare di meno, con moderazione, di fornire al nostro organismo i micro e macronutrienti capaci di contrastare gli inquinanti. L’esercizio fisico – trenta o quaranta minuti al giorno purché ci faccia fare fatica – è importante per liberare sostanze che puliscono le arterie e i piccoli trombi che si formano nei capillari. Anche il sonno è fondamentale, non solo per il riposo dei muscoli ma per far riposare il nostro cervello, l’organo che lavora di più. Il sonno serve per purificarlo dalle scorie che produciamo usando energia. E infine, nella prevenzione, metto i rapporti sociali. Avere molti interessi, andare al cinema, a teatro, seguire le mostre, visitare dei luoghi, vedere paesaggi: è tutto un input di dati nel nostro cervello che aiuta ad avere quella ‘riserva cognitiva’ che è molto importante perché con il tempo la perdiamo.
Tutte queste buone abitudini di vita devono essere seguite ogni giorno poiché è soltanto così che ne sentiremo il vantaggio man mano che andiamo avanti con il tempo. Non possiamo impedire il sopraggiungere dell’invecchiamento, tuttavia esso può avvenire non solo in senso anagrafico ma – e di più – in senso biologico.
Certamente, la prevenzione è in conflitto con gli interessi del grande mercato della medicina. In Italia spendiamo ventidue miliardi all’anno per acquistare farmaci che ci vengono dati gratuitamente, ma se riuscissimo a diminuire le malattie – e, lo ripeto, le malattie sono evitabili con un atto di ‘sano egoismo verso noi stessi’ – sarebbe possibile risparmiare molto per fare tante cose che oggi non siamo in grado. Il mercato della medicina va quindi controllato e, poiché non ci sono mercati che vogliono diminuire il loro spazio di azione, il maggior antidoto è la prevenzione.
C’è una tendenza relativamente recente che va verso un’organizzazione del sistema sanitario che si chiama di co-produzione. In sostanza, si cerca di andare oltre i modelli della medicina basata sull’intensità di cura, superando tutta una serie di difficoltà derivate da modelli più economicisti che tecnico-sanitari. Che cosa comporta questo orientamento rispetto ai temi sociali, alle conoscenze e competenze di cui abbiamo parlato?
Giovanni Boniolo. Varie ricerche dimostrano che il declino cognitivo, dovuto all’età, può essere rallentato, non fermato, facendo uno sport con una componente tecnica per cui devi mettere in moto quelle facoltà cognitive che ti permettano di avere una certa abilità fisica. Tutto questo ha a che fare con i determinanti epistemici della malattia di cui ho già parlato: se lo sai, puoi farlo. A questo proposito, è interessante quello che succede con i pacchetti di sigarette: le terribili immagini di tumori ai polmoni o alla bocca sono degli incentivi – tecnicamente si chiamano nudge, ‘spintarelle’ – per dire di non fumare. L’obbligo di stampare queste immagini viene dallo Stato con conseguenze totalmente diverse. Negli Stati Uniti, ad esempio, ci può essere l’avvertimento a non fumare perché fa male e tu sei libero di fare quello che vuoi, ma poi ti devi pagare le cure. In Italia, dove lo Stato ha il monopolio di vendita del tabacco, sei libero di fare ciò che ti fa male, però le spese di cura e guarigione saranno a carico della collettività perché abbiamo un sistema sanitario nazionale.
Il rapporto tra malattia e collettività è anche più complesso. Esistono infatti anche dei costi indiretti; ad esempio, mentre sei malato non lavori, oppure hai bisogno che qualcuno ti faccia assistenza. Questo modello sanitario e assistenziale è reso ancora più complicato dal fatto che oggi viviamo molto di più di quanto si viveva prima ed è perciò cresciuto il numero degli anziani. Aumentando gli anziani, aumentano i costi del vivere, mentre le patologie croniche richiedono ospedalizzazioni più frequenti e somministrazioni di farmaci il cui valore cresce in modo esponenziale, soprattutto in ambito oncologico.
Se affermiamo che lo scopo della medicina non è guarire ma curare, vediamo che il tempo della guarigione che si svolge attraverso l’intervento farmacologico o l’intervento chirurgico ospedalizzato è diverso dal tempo della cura che si gioca nella relazione tra il medico e il paziente. Un collega ematologo della Columbia University mi ha raccontato che per loro il problema è molto semplice: arriva un paziente, il medico gli dice la patologia che ha e gli prospetta la terapia A, la terapia B e la terapia C, e il paziente, in cinque minuti, deve decidere quale seguire. Questo è un modo 131 aberrante di pensare l’autonomia del paziente, che probabilmente non sa cosa sia la terapia A, la B o la C, e che, soprattutto, non ha soltanto il problema di scegliere la terapia, bensì di essere curato nel senso più ampio del termine, secondo le sue convinzioni, le sue tradizioni culturali. Una ginecologa di Monaco mi raccontava delle difficoltà che hanno nella sala d’attesa della sala parto: una volta, lì entrava il marito e al massimo una, due persone. Oggi, con gruppi culturali e di tradizioni diverse, ci sono anche trenta, trentacinque persone in attesa. Viviamo in una situazione multiculturale e questo cambia drasticamente non tanto l’approccio alla guarigione, quanto l’approccio di cura. Ci deve essere attenzione nei confronti del paziente, perché se uno è ebreo deve mangiare quello che la sua religione gli consente; se uno è musulmano e ha un problema urologico, dovrebbe avere la possibilità di non essere toccato da una urologa, se è disponibile un urologo maschio. Sono situazioni complesse, che dobbiamo però affrontare se vogliamo che la cura tenga conto della persona nella sua totalità. È la stessa questione della scuola dell’obbligo e dell’istruzione universitaria. Ritengo non sia possibile avere venti sistemi sanitari diversi, così come non sia possibile – ritornando alla guarigione come diritto del singolo e scopo del servizio – che i farmaci che uno può avere in una data USL non siano esattamente i farmaci che può avere in un’altra. Oggi scopriamo infatti che non esiste soltanto un turismo culturale, ma esiste anche un turismo farmacologico, e tutto questo va a incidere sulla idea di ‘cura’ che un paese ha.
Concludendo, direi che a decidere sulla mia salute da un lato dovrei essere io, perché ho l’autonomia di scegliere, d’altro lato però non può essere un’autonomia dovuta all’assenza del medico, il quale scarica sul paziente la responsabilità totale della scelta. Dico questo perché la scelta della cura di cui un paziente ha bisogno non consiste solo nel decidere una terapia. È la scelta che riguarda la sfera esistenziale nel suo complesso e si estende ai rapporti sociali, alle relazioni interpersonali e familiari del paziente. Il malato non è una malattia, è un uomo, una donna, una bimba; il malato è una mamma, un papà, un nonno. Sono problemi che si incontrano quotidianamente in corsia e negli ambulatori, eppure molte volte non vengono nemmeno discussi nei corsi di laurea.