UGUALE

«Magnare a modo so, vestire a modo dei altri», dice un vecchio proverbio: dentro casa fa’ come vuoi e puoi; fuori, conformati ai vicini e inizia dal vestito. Gli storici dell’abbigliamento hanno descritto in dettaglio come il vestire soddisfi in maniera efficace il bisogno di uniformarsi, senza per questo negare il bisogno di distinguersi; hanno mostrato come l’abito crei comunità e permetta nello stesso tempo di affermare l’individualità, magari attraverso il solo gioco di alcuni dettagli. A privilegiare l’appartenenza collettiva, all’interno di una cornice che garantisce l’intreccio di aspetti funzionali e comunicativi, è soprattutto la categoria di abiti che caratterizza le istituzioni totali: costumi etnici, camicie nere rosse e verdi, divise e uniformi. Gli uguali si fabbricano; l’uguaglianza si afferma combinando la proclamazione esteriore garantita dall’abbigliamento con la comunanza obbligata di regole: stessi orari, stesso calendario, stessi spazi, stessi gesti, magari stesse aspirazioni. La dimensione rituale poi amplifica e sacralizza la costruzione dell’identità collettiva: mettere i piedi, in processione, dove li ha messi chi ci precede e dove li hanno messi i nostri antenati, cantare intonati lo stesso testo, uniformare il corpo allo stesso ritmo, mangiare lo stesso pane, condividere la stessa pipa o la stessa bottiglia, sedere in cerchio.

L’abito è la seconda pelle. Quando il bisogno di affermare l’appartenenza comune diventa più forte ed esigente, allora lavorare sull’abito non basta. La ‘fabbricazione di ugualità’ investe il corpo stesso, lo segna, lo compromette. Le culture agiscono sul corpo e vi incidono l’identità comune. Intorno al corpo, «le società umane fanno veramente di tutto: aggiungono, tolgono, tagliano, inseriscono, dilatano, allungano, accorciano; ogni mezzo etnico e ogni materiale è buono per modellare, cambiare, trasformare il corpo. A quanto pare, le società umane si rifiutano di lasciare il corpo così com’è; non sopportano di lasciarlo nella sua condizione contingente, di abbandonarlo al semplice sviluppo naturale»: così Francesco Remotti, illustrando quattordici categorie di modalità d’intervento sul corpo funzionali all’antropo-poiesi, alla costruzione di tipi particolari d’umanità coesa.

L’uguaglianza viene dunque creata attraverso artifici culturali. Di pari passo con l’imposizione di modelli che regolino l’interazione sociale e consolidino la rete di alleanze, innanzi tutto attraverso la parentela e la discendenza, si agisce sugli organi genitali, tagliando e cucendo, si manipola la capigliatura, si depila, si modifica la struttura ossea, si marchia, si perfora, si amplifica, si incide, si disegna, si deforma, si rassoda. Attraverso queste pratiche si fissa e si ribadisce un confine dalla doppia valenza, capace nello stesso tempo di dire noi e gli altri, di garantire identità e differenza. Un noi a sua volta da articolare al proprio interno in partizioni più sottili: ogni segno di diversità diventa buono per ulteriori segmentazioni, il genere e l’età, lo spazio e i segni di nascita, il rango e il mestiere, gli interessi e i gradi di accesso al sapere. Nel gioco a creare nuove somiglianze e nuove distinzioni, finisce che anche le parole non bastano più. Non basta uguaglianza; meglio distinguere equalitarian da egalitarian o – in italiano – distinguere ugualitario da egualitario: tenendo quest’ultimo termine per indicare l’eguaglianza fra uomo e uomo (quella che fonda la scrittura dei «diritti dell’uomo») e il primo invece da tenere riservato per quella ‘società mutuale’ ancora da costruire (o da ri-costruire, tornando all’antico, prima che si sviluppasse il processo storico di costituzione della prima e fondativa diversità diseguale), nella quale si riconoscerà la sostanziale uguaglianza fra il maschile e il femminile.

Ma se ogni noi, nei diversi segmenti in cui si articola, risulta da processi di costruzione, significa che l’uguaglianza non si dà come percezione di prima battuta. L’esperienza primaria e immediata è quella della diversità. Non a caso in tutte le culture l’eccessivamente uguale (i gemelli) colpisce, meraviglia o intimorisce. La diversità si direbbe dunque il dato ‘primitivo’, così che per costruire un gruppo di uguali sufficientemente coeso – di alleati e compagni oppure di obbedienti e di servi, una comunità fraterna oppure un seguito che garantisca consenso e ossequio – occorre governare la diversità. Il modo abituale di farlo è tradurre l’esperienza di diversità in disuguaglianza; anche in discriminazione radicale e drammatica. ‘Diversi’ è ambiguo, e non basta; meglio inferiori, incivili, barbari, primitivi, infantili, peggiori, subalterni, mostruosi, disumani: fino – siamo nella società europea del XIX secolo – ad animali da recintare con filo spinato, insetti nocivi, oggetti, numeri, pezzi. Omologazione e razzismo, omogeneizzazione e xenofobia.

Ha del miracoloso che fra gli uomini maturi la coscienza di una uguaglianza sostanziale.
Su che cosa è stata fondata e su che cosa si fonda l’affermazione secondo cui fra gli umani l’uguaglianza si dà come principio assoluto, superiore e anteriore rispetto all’esperienza di diversità? Che cosa ci fa sentire uguali? Forse il vivere sapendo di dover tutti morire, o il sentirci creature e figli dello stesso antenato o dell’unico Padre, l’osservare al microscopio che siamo accomunati dallo stesso genoma («spudât so pari», «sputato suo padre», si diceva dalle mie parti una volta, riferendosi proprio allo schizzetto di sperma da cui deriviamo), o altro ancora. Affermando che «Dio non fa distinzioni», che non si dà più differenza fra «greco o giudeo, circoncisi o incirconcisi, barbaro o scita, schiavo o libero», Paolo di Tarso chiude la partita della religione etnica e attribuisce una natura sovrumana, divina e rivelata, al principio di uguaglianza. Poi l’affermazione e la richiesta di uguaglianza dentro la chiesa diventa eresia. La cultura moderna ne afferma prima la radice insieme religiosa e naturale (per cui, secondo i Levellers di metà Seicento «ogni uomo è per natura re, sacerdote e profeta, nel suo ambiente e nei suoi limiti») e poi naturale e laica, legando l’uguaglianza alla fraternità e alla libertà, così che se gli uomini sono nati uguali e liberi, diventa «diritto naturale» battersi «per spezzare le proprie catene» (Rousseau). Ma su tutti i fronti sarà facile per gli scettici annusare puzza di ipocrisia e sorridere amaro per lo scarto fra affermazioni così alte e la pratica abituale di disumanità che le accompagna.

Se una etnografia della diversità si impone da sé, e così anche una etnografia che renda conto dei cento modi inventati dagli umani per trasformare la diversità in disuguaglianza, su quali evidenze fondare una etnografia dell’uguaglianza e fondarvi la speranza di una pratica di salvaguardia delle differenze che non ceda alla pratica del prevaricare e del dominare? Certo, le identità esistono e si danno sotto il segno della diversità: la distinzione resta; restiamo ebrei o greci, uomini o donne, liberi o schiavi. La mia identità c’è, mi accomuna ad alcuni, mi distingue da altri: come salvaguardarmi dal sentire e dal dire «non è solo diversa, è anche migliore»?

Il dato da cui muovere è costituito dall’esperienza per cui l’uguaglianza si dà solo in maniera plurale e dinamica. Gli umani hanno questo in comune: che possono realizzare la loro condizione specifica soltanto calandosi in una forma di umanità particolare. Hanno uno strumento comunicativo di una potenza straordinaria, capace di realizzare l’universalità semantica; ma nel momento in cui lo mettono in atto non possono che parlare una lingua particolare; hanno capacità di immaginazione e credenza infinita, ma nel momento in cui credono e immaginano lo fanno imprigionati dentro forme e modelli particolari.

Che cosa li accomuna, allora? Forse soltanto il fatto che la condanna alla particolarità non è eterna; li accomuna il fatto di poter uscire dalla condizione particolare, dalla specifica determinazione culturale entro cui è capitato loro di venire al mondo. Donne e uomini devono alla loro forma specifica di appartenenza la possibilità di esistere, vivono la differenza e la incorporano, ma possono anche renderla oggetto di osservazione e di interpretazione critica; possono allontanarsene; possono moltiplicare le proprie identità, mutarle. Da questo punto di vista, il livello più alto di ominità non consiste nella forza del radicamento in un gruppo e in una cultura, ma nella possibilità di essere altri da ciò che si è. Il punto più alto di umanità è l’esperienza di allontanamento: lo scarto, la migrazione, la conversione.

Le antropologie esplorano l’altro (la parentela con l’esplorazione delle teologie provoca qualche brivido). Dopo essere state per qualche tempo discipline un po’ alla moda – quando l’alterità era distante o marginale e invisibile, prima che gli stranieri si rivelassero di colpo, in casa, tanti e così vitali – ora non godono più di buona fama. Non sono viste bene in un’epoca che si concentra sempre più sulle affermazioni di identità, sul bisogno di radici, sul consolidamento dell’appartenenza. Edward W. Said, accompagnando la scommessa dell’orchestra israeliano-palestinese dell’amico Daniel Barenboim, sottolineava che «la nuova missione dell’umanesimo deve essere salvaguardare la differenza evitando la prevaricazione e la bellicosità che normalmente accompagnano le affermazioni di identità. Ed è un compito molto difficile, che va controcorrente rispetto a ogni tendenza contemporanea».

multiverso

6